PREMESSA: la parte che segue conclude la trattazione dell’episodio dell’Eneide che vede protagonisti Enea e Didone, il loro amore e la fine della sfortunata regina. Per completezza, invito i lettori a leggere prima le seguenti parti: ENEA: UN IMMIGRATO EXTRACOMUNITARIO, DIDONE INNAMORATA e ENEA E DIDONE: IL CONNUBIO.
Questo è anche il post che conclude le mie Pagine d’Epica, in attesa d’ispirazione per scriverne altre. 🙂
Amor ch’a nullo amato amar perdona recita Dante nel V canto dell’Inferno (cfr. v.103). Di certo la povera Didone non poteva aver presente il verso del sommo poeta, ma in fondo il concetto non ha età: chi ama e non è ricambiato semplicemente si dispera.
La sofferenza di Didone, nel vedersi abbandonata dal troiano, è comprensibile; certo, guai se tutti gli amori non corrisposti avessero come epilogo il suicidio dell’amante disilluso! Ma è evidente che l’atteggiamento degli innamorati traditi non è univoco: perlopiù si tende a convincersi che “morto un papa, se ne fa un altro”. Didone, tuttavia, non è di questo parere.
Secondo me nella vicenda della regina gioca un ruolo importante l’orgoglio. Sembra quasi che, nel momento in cui si rende conto che il suo amore se ne sta andando, la sua mente acquisti di colpo un briciolo di lucidità. Attenzione, però: solo in un primo momento e poi la consapevolezza di essere stata ingannata non la trattiene dal tentativo di convincere Enea a rimanere con lei. Ecco come Virgilio descrive questo momento:
Ma presentì la regina (chi può mai ingannare chi ama?)
quell’inganno e per prima cosa intuì quel che c’era nell’aria,
lei che temeva ogni cosa pur certa. E ancor l’empia Fama
a lei sconvolta ridice che s’arma la flotta e s’appronta
il viaggio. Smania smarrita di mente; folle d’amore
corre furiosa per tutte le strade […] (IV, vv. 296-301)
È proprio vero: come si fa ad ingannare chi è innamorato? Insomma, certe cose si percepiscono epidermicamente, la “puzza” del tradimento si avverte lontano un miglio. Oddio, Enea non è un vero e proprio traditore, nel senso che non scappa con un’altra donna; ma è pur sempre un fedifrago, nel momento in cui, pur con un nobile fine, si affretta ad abbandonare in lacrime la donna con la quale aveva condiviso i “mutui piaceri” ed il “turpe diletto”.
Didone, però, non molla; ferita nell’orgoglio, affronta il suo “nemico”:
Hai sperato, o perfido, anche di dissimulare
sì grande infamia e in silenzio partirtene dalla mia terra?
Non l’amor nostro né la destra che un dì ci stringemmo
né ti trattiene Didone, votata a morte crudele? (IV, vv. 305-308)
Gli ricorda poi che nemmeno la stagione è la più adatta per prendere il largo: in pieno inverno, con l’Aquilone (il vento) che soffia e spesso porta con sé piogge e burrasche. Insomma, Didone non lo dice espressamente, ma è un po’ da idioti partire così, in fretta e furia. Anzi, lei è convinta che Enea non avrebbe il coraggio di andarsene per mare con tali previsioni meteorologiche nemmeno se si dovesse recare a Troia, se la città fosse ancora in piedi. Perché, dunque, parte? Perché evidentemente è stufo di lei, il suo amore gli è venuto a noia. Una donna innamorata che altro può pensare? In queste circostanze ci si attacca ad un lumicino di speranza e si inizia a pregare:
Me dunque fuggi? Per queste mie lacrime, per la tua destra […]
Per il nostro connubio e le nozze appena agli inizi,
se un po’ di bene ti feci o se alcuna dolcezza tu avesti
di me, ti prego, abbi pietà di una casa che crolla,
se ancora posso pregarti, e abbandona un tale pensiero. (IV, vv. 314-319)
La regina ormai è furibonda, il dolore la rende pazza, lo stesso effetto che su di lei, qualche tempo prima, aveva avuto l’amore. A questo punto si chiede chi sia l’uomo che sta fuggendo via da lei. Un marito? No di certo. Solo un ospite e nemmeno tanto cortese. Anzi, Enea con la sua fuga nottetempo infrange il sacro vincolo dell’ospitalità, sacrilegio senza pari per i Greci.
A chi mi abbandoni morente, ospite? Invero
questo sol nome rimane da quello già di marito.
Che aspetto? Che mio fratello Pigmalione distrugga
questa città? O che Iarba getulo mi tragga sua schiava? (IV, vv. 323-326)
Di tutt’altro avviso il pio Enea. Marito? Macché mai!
Si dispiace? Si dispera? Chiede umilmente scusa? Niente di tutto ciò, anche se Virgilio scrive che a fatica premeva nel cuore l’affanno. Non è un affanno dovuto all’amore, è piuttosto l’emozione difficile da domare, quella che si sente, diciamolo chiaramente, quando si sa che si deve “sputare il rospo”. Nella sua risposta, non solo non prova a giustificarsi, ma non si trattiene nemmeno dal “piazzare dei colpi bassi” che solo la forza di volontà permette a Didone di incassare. Ma forse lei sta già pensando all’epilogo della storia.
Certo, Enea non si esime dal ricordarle i suoi meriti e le assicura che si ricorderà di lei finché avrà vita. Peccato, però, che la chiami “regina” e che il tono sia più ossequioso che altro. Non dà voce, Enea, alle proprie emozioni perché non ne ha. Ma se non può esprimere sentimenti che non prova, potrebbe almeno risparmiarsi di dirle, senza troppi complimenti:
Non io celarti di furto sperai questa fuga, non crederlo,
né mai offerte di nozze ti feci o fermai tali patti
con te. (IV, vv. 338-340)
Ecco il nodo della questione: Enea non ha mai riconosciuto il “connubio” avvenuto nella grotta. Insomma, è come se Didone avesse fatto tutto da sola! Definizioni a parte, come fa il disgraziato a scaricare sulla poveretta ogni responsabilità? Non contento, subito dopo rincara la dose: con molta onestà, ma davvero poco tatto, le assicura che se il Fato gli permettesse di essere arbitro della sua vita, vorrebbe vivere ancora a Troia. Però la sua meta ora è un’altra: è l’Italia e quindi perché mai la regina vorrebbe ostacolarlo nel suo viaggio “fatale”? Alla fine sembra chiederle pietà:
Non straziare più ancora me e te col tuo pianto,
non di mia volontà io cerco l’Italia. (IV, vv. 360-361)
Insomma, continua a crearsi l’alibi, per non ammettere che, nonostante l’invito divino, sia in fondo contento di andarsene. Il Fato è sì ineluttabile, ma in ultima analisi si può affermare che questa fuga sia alquanto propizia.
Se nella prima parte del colloquio la regina cerca di dominarsi, al tono di rimprovero alterna quello di supplica, ora dà libero sfogo alla sua rabbia. Innanzitutto gli rinfaccia di avere un cuore insensibile, neanche fosse nato nel Caucaso e allattato dalle Tigri ircane. Poi si toglie definitivamente la maschera:
Ma che dissimulo più? A che oltraggi più gravi mi serbo?
Forse un gemito ha tratto al mio pianto, mi ha volto uno sguardo?
Lacrime forse ha versate commosso? O sentito pietà
di me che l’amo?Qual onta peggiore? Non guardano i fatti
con occhi giusti, non più, né Giunone potente né Giove. (IV, vv. 367-372)
L’insensibilità di Enea è accostata al comportamento iniquo della coppia divina: lei lo ha accolto naufrago, ha risparmiato a lui e ai compagni una morte sicura, ha reso il troiano partecipe del suo regno e che cosa ha avuto in cambio? Esplode, a questo punto, la rabbia di Didone e la consapevolezza della pazzia che le ha impedito di guardare in faccia la realtà. Ma del resto, quanto può importarle la missione di Enea? Perché mai dovrebbe comprendere la situazione, visto che l’uomo amato le è stato accanto fino a quel momento, le ha fatto credere di contraccambiare il suo sentimento e si è crogiolato nel lusso del suo palazzo? È limpida, Didone, tanto quanto Enea è torbido. E allora, cos’altro può meritarsi, lui, se non una punizione?
Ma spero che tra gli scogli il castigo ne patirai,
se i giusti numi han qualche potere, e tu spesso Didone
per nome invocherai. Seguirò con funeree faci
da lungi; e quando la fredda morte divise dall’anima
avrà le membra, dovunque t’apparirò come spettro. (IV, vv. 382-386)
Presagio funesto nelle parole della regina. Basterà a commuovere il troiano? Lo farà desistere dall’intraprendere il viaggio verso l’Italia? Ma certo che no. E mentre lui si prepara a salpare, la poveretta si pone un sacco di interrogativi: dovrà, una volta deposto l’orgoglio, chiedere le nozze ai vecchi pretendenti, Iarba in primis? La vita di una donna, seppur seduta sul trono regale, è difficile. Un uomo accanto le darebbe sicurezza. Allora forse deve implorare Enea di portarla con sé? No, non sarebbe questa la decisione ottimale, non potrebbe mai costringere il suo popolo a seguirla ancora una volta e non è proprio il caso che abbandoni, ingrata, i suoi sudditi fedeli.
Dignità, orgoglio, patriottismo fluiscono sull’onda di quesiti ironici e assurdi per confluire, tutti assieme, ad un’unica soluzione possibile, la morte:
Muori, piuttosto, lo meriti, e scaccia il dolore
col ferro. […]
Non volle il fato che, priva di nozze, traessi la vita
senza colpa, qual fiera, e immune da simili affanni;
e violata ho la fede giurata a Sicheo sulla tomba. (IV, vv. 547-548 e 550-552)
Ecco che le si riaffaccia alla mente il ricordo del tradimento perpetrato ai danni, si fa per dire, del marito Sicheo. Una fedeltà, a quelle ceneri, giurata e non mantenuta. A prima vista parrebbe che la morte, così tante volte preannunciata, possa costituire la giusta vendetta nei confronti del fuggiasco. E invece no, è orgogliosa, Didone, è forte, non si abbandonerebbe mai ad un siffatto atto di debolezza. Lei vuole morire, sì, ma sperando che il suo suicidio abbia l’effetto boomerang: non danneggerebbe lei, anzi, le darebbe l’occasione di ricongiungersi per sempre all’amato marito fenicio; sarebbe piuttosto un atto che gli dei farebbero scontare al popolo che da Enea, giunto nel Lazio, discenderà: quello dei Romani.
Mentre guarda da lontano le navi troiane che procedono a vele spiegate, sconsolata la donna rimpiange, ormai invano, le azioni incompiute: non ha impedito che Enea si prendesse gioco di lei, ed ora non può di certo spronare il suo popolo ad attaccare l’uomo cui aveva affidato lo scettro e che ora chiama straniero e nemico. E’ troppo tardi, lo sa, per vendicarsi personalmente, è troppo tardi semplicemente perché i mali che lui ha commesso solo ora la offendono:
Sarebbe stato assai meglio che ti fossi sentita
offesa così nell’ora cui gli affidavi lo scettro.
Eccola la lealtà di uno che dicono che rechi
con sé i patrii Penati, di uno che avrebbe portato
sulle spalle, pietoso, il padre vinto dagli anni. (IV, vv. 723-727)
Pur nella tragicità del momento, Didone non può fare a meno di ricorrere all’ironia e noi non possiamo far altro che condividere questa sua osservazione. L’uomo così devoto, così pietoso nei confronti del padre e della patria, non solo non sa esserlo nei riguardi di colei che gli ha salvato la vita e attribuito tutti gli onori, ma non è nemmeno capace di dimostrarsi leale. Certo, Enea si trova di fronte ad un bivio: da una parte la strada da percorrere è quella indicata dagli dei, dall’altra la via è quella che il suo cuore o per lo meno un doveroso debito di riconoscenza dovrebbero suggerirgli di intraprendere. Le due opzioni, però, si escludono a vicenda: obbedendo al volere divino si rende nemica Didone, seguendo l’istinto suscita l’inimicizia dell’Olimpo. Ora, non per difenderlo, ma mettendoci nei suoi panni e sapendo quanto irascibili siano gli inquilini del divino monte, non possiamo biasimarlo per la scelta fatta. Diciamo pure che si tratta di una scelta condizionata: se non si fosse comportato così non sarebbe stato “pio”. D’altronde non sa, il povero Enea, quanto possa diventare feroce una donna innamorata appena abbandonata. L’universo femminile, con le sue sfaccettature, non doveva essere profondamente conosciuto da un pover’uomo sempre alle prese con armi e navi.
E poi, come avrebbe potuto credere che quella nobile e delicata creatura che aveva affidato il suo cuore, il suo corpo e il suo regno al naufrago infelice qual era, appena raggiunta la spiaggia di fronte a Cartagine, potesse diventare crudele al punto da escogitare vendette e scagliare maledizioni?
Ma ormai Didone ha deciso: la morte è l’unica soluzione, una colpa che il fedifrago non solo sconterà personalmente ma riverserà anche sul suo popolo ancora ignaro.
Se è scritto nel destino che quell’infame tocchi
terra ed approdi in porto, se Giove vuole così,
se la sua sorte è questa: oh, almeno sia incalzato
in guerra dalle armi di gente valorosa
e, in bando dal paese, strappato all’abbraccio di Julo,
implori aiuto e veda la morte indegna dei suoi,
e, dopo aver firmato un trattato di pace
iniquo, non goda il regno né la desiderata
luce, ma muoia, in età ancor giovane
e rimanga insepolto su un’arida sabbia! (IV, vv. 744-753)
Una maledizione in piena regola, non c’è che dire, ma del resto noi sappiamo che si tratta di profezie post eventum e sappiamo anche come andranno le cose al povero Enea: approderà nel Lazio, la terra promessa, ma dovrà combattere contro i Rutuli di Turno per poter sposare Lavinia, figlia del re Latino. Poi, in onore della consorte, fonderà Lavinium di cui diventerà re; dopo quattro anni di regno, però, l’eroe sparirà tra lampi e tuoni durante una battaglia contro gli Etruschi presso il fiume Numicio. Successivamente apparirà in sogno al figlio Ascanio e gli rivelerà di essere stato trasportato nell’Olimpo e assunto tra gli dei.
Insomma, la donna non perdona, gli dei sì.
Ma torniamo a Didone. Come metterà a segno l’insano proposito? Una bella pugnalata in pieno petto, da vera donna che non teme nulla, nemmeno la morte. Il tutto senza rinunciare alla maledizione che vedrà vittime Enea e i suoi discendenti:
E infine voi, miei Tiri, perseguitate la stirpe
di lui, tutta la sua discendenza futura
con odio inestinguibile: offrite questo dono
alla mia povera cenere. Nessun amore ci sia
mai tra i nostri due popoli, nessun patto. Ah, sorga,
sorga dalle mie ossa un vendicatore, chiunque
egli sia, e perseguiti i coloni Troiani
col ferro e col fuoco, adesso, in avvenire, sempre
finché ci siano forze! Io maledico, e prego
che i lidi siano nemici ai lidi, i flutti ai flutti,
le armi alle armi: combattano loro e i loro nipoti. (IV, vv. 755-765)
Le parole della regina sono più che esplicite, almeno per noi che conosciamo i fatti. Se consideriamo che Ascanio, con il nome di Julo, fonderà Albalonga dando origine alla stirpe primigenia romana, detta appunto Julia, è chiaro il riferimento all’odio che nascerà tra i Punici e i Romani. In quanto al vendicatore, chi potrà mai essere se non Annibale? Certo, la storia ci insegna che le guerre puniche, seppur lunghe e sanguinose, saranno vinte dai Romani. Anzi, la vera forza, la grandezza del popolo latino trova origine e conferma proprio nelle guerre sostenute contro Cartagine.
Questo, però, Didone non lo può sapere e in fondo si auspica che la persecuzione continui finché ci siano le forze.
Mi piace credere che anche negli ultimi attimi della sua vita, Didone, in fondo, ami ed odi allo stesso tempo colui che l’aveva resa felice con il suo arrivo e l’aveva gettata nella disperazione più nera con la sua partenza. La fine arriva tra atroci tormenti e noi non possiamo fare a meno di commuoverci:
Didone
mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano
a stare aperti sviene; la ferita profonda
nel petto stride. Tre volte riuscì a levarsi sul gomito,
tre volte ricadde sul letto: nell’alto cielo cercò
con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette. (IV, vv. 835-840)
Poi Giunone, pietosa, manda Iride a porre fine alla lunga agonia della regina, recidendo il capello sacro a Dite.
Enea, intanto, a bordo della nave che ormai si allontana dalle coste africane, vede il chiarore causato dal rogo che la regina aveva fatto preparare per un sacrificio a Plutone, signore degli Inferi. Uno spettacolo tutt’altro che rassicurante. Sarà forse per scongiurare i tristi presagi che Enea, durante la visita agli Inferi, tenta di riscattarsi, di giustificare il suo comportamento e di esprimere il suo rammarico non appena vede che con la ferita ancor fresca, Didone fenicia / errava nella gran selva (cfr. VI, vv. 450-451).
Solo adesso l’uomo è capace di rivolgersi alla regina come lei, forse, avrebbe voluto un po’ di tempo prima:
non trattenne le lacrime e con dolce affetto le disse:
“Infelice Didone, pur vero mi giunse l’annunzio
ch’eri spenta e che avevi col ferro cercata la fine?
Di morte, ahi, causa ti fui? Per le stelle, per i Celesti
giuro, e per quanto di sacro v’è sotto la terra profonda:
a malincuore, o regina, m’allontanai dal tuo lido.
[…] credere io non potevo
di darti con la partenza questo dolore sì grande”. (VI, vv. 455-460 e 463-464)
Ma come? Di fronte a Didone affranta dal dolore che lo supplicava di non partire, lui aveva dimostrato di possedere un cuore di pietra, ricordandole che Apollo gli aveva indicato l’Italia come futura patria. Anzi, riferendosi alla nostra penisola, Enea aveva precisato: questo il mio amore (cfr. IV, v. 346). Non amore in carne ed ossa, dunque, ma amore fatto di terra ed acqua. Ora, forse, l’ombra dell’infelice gli incute più timore, ora non tiene gli occhi immoti, ora prova della pietà che allora non aveva saputo rivelare.
Ma Didone, ormai in pace con se stessa e con Sicheo che la morte le ha ridato e che corrisponde al suo affetto e d’egual amore la ricambia (cfr. VI, v. 474), rimane impassibile di fronte all’ex marito, non si cura di lui ma altrove rivolta, a terra fissava lo sguardo (cfr. VI, v. 469). Ecco che i ruoli si sono ribaltati: lo sprezzo che Enea aveva manifestato durante l’ultimo colloquio con la regina supplicante ora si legge negli occhi di lei. Nell’Oltretomba la donna non ha più bisogno di parlare, tace perché il silenzio ferisce, talvolta, più delle parole. Allora aveva detto anche troppo, inutilmente, ora le parole non servono, l’irreparabile è già avvenuto, l’obiettivo è già stato raggiunto: Enea l’avrà per sempre sulla coscienza, senza parlare di tutta la serie di disgrazie gravanti, come già detto, sulle generazioni future. È inutile che lui insista ora per avere un colloquio, visto che quando ella era ancora in vita a quel colloquio lui si era voluto sottrarre velocemente, adducendo pretesti (gli dei non possono mica aspettare!).
Nonostante egli cerchi di lenire quell’anima / indignata, ancor torva negli occhi, mentre egli piangeva (cfr. VI, vv. 467-468), lei ostile di lì si ritrasse (v.473) per raggiungere l’amato Sicheo. Come allora l’aveva squadrato da capo a piè, così ora, pur ancora torva negli occhi, lo ignora, lasciandolo affranto ma commosso […] dall’acerba sorte di lei / da lungi la segue tra le lacrime, e, mentre ella va, la compiange (vv. 475-476).
Ma chi compiange? Per chi ora versa lacrime? Sono quelle che noi chiamiamo lacrime di coccodrillo, a che servono ora? Se osserviamo la sdegnosa noncuranza di Didone, l’atteggiamento di Enea ci pare decisamente patetico e fuori luogo. Probabilmente le sue lacrime servono a scaricare la tensione accumulata (i viaggi, si sa, sono stressanti), ma siamo un po’ lontani dall’interpretare quel pianto come espressione di un sincero pentimento. Ma poi, chi vuole che lui si penta? Caso mai speriamo che il rimorso lo tormenti più a lungo possibile. Io sinceramente sono contenta che Didone abbia ritrovato la serenità e che consideri la sua storia con Enea un brutto episodio, da dimenticare, della sua breve vita.
[immagini e relativi link: La morte di Didone, Peter Paul Rubens, 1630, museo del Louvre (particolare); “Didone ed Enea”, Giambattista Tiepolo, Palazzina della Villa Valmarana ai Nani; “La morte di Didone”, Giambattista Tiepolo]