LE ACROBAZIE LINGUISTICHE DELL’ONOREVOLE ISIDORI

Eraldo Isidori, elettrauto in pensione, è un deputato del nostro Parlamento dove siede dal 2010, dopo che un altro rappresentante del suo schieramento, la Lega, aveva dato forfait. Originario della provincia di Macerata, ha espresso in aula il suo parere sul principio della certezza della pena, per far sì che chi viene condannato sconti effettivamente il periodo di detenzione previsto dal codice per quel reato, utilizzando delle acrobazie linguistiche notevoli. Ecco il testo del discorso:

«Il carcere è un brentinsario … non è un villaggio di vacanza. Si deve scondare la sua pena perscritta che gli aspetta. Lo sapeva prima fare irreato! Io ritengo come Lega di non uscire prima della sua pena erogata. Grazie.»

Che dire? A me Isidori fa tenerezza. Ha fatto l’elettrauto per tutta la vita? Avrà senz’altro delle conoscenze che noi non abbiamo. Per il suo lavoro non era di certo necessario essere oratori. Ma nel momento in cui uno viene eletto al Parlamento (con uno stipendio – e futura pensione – di tutto rispetto), dovrebbe quantomeno esprimersi in un linguaggio comprensibile.

La lingua italiana dovrebbe essere uno strumento di coesione ma, si sa, quelli della Lega l’Italia non la vogliono unita. Le acrobazie linguistiche dell’on. Isidori potrebbero essere l’inizio del federalismo.

DIDONE: AMORE E MORTE

PREMESSA: la parte che segue conclude la trattazione dell’episodio dell’Eneide che vede protagonisti Enea e Didone, il loro amore e la fine della sfortunata regina. Per completezza, invito i lettori a leggere prima le seguenti parti: ENEA: UN IMMIGRATO EXTRACOMUNITARIO, DIDONE INNAMORATA e ENEA E DIDONE: IL CONNUBIO.
Questo è anche il post che conclude le mie Pagine d’Epica, in attesa d’ispirazione per scriverne altre. 🙂


Amor ch’a nullo amato amar perdona recita Dante nel V canto dell’Inferno (cfr. v.103). Di certo la povera Didone non poteva aver presente il verso del sommo poeta, ma in fondo il concetto non ha età: chi ama e non è ricambiato semplicemente si dispera.

La sofferenza di Didone, nel vedersi abbandonata dal troiano, è comprensibile; certo, guai se tutti gli amori non corrisposti avessero come epilogo il suicidio dell’amante disilluso! Ma è evidente che l’atteggiamento degli innamorati traditi non è univoco: perlopiù si tende a convincersi che “morto un papa, se ne fa un altro”. Didone, tuttavia, non è di questo parere.
Secondo me nella vicenda della regina gioca un ruolo importante l’orgoglio. Sembra quasi che, nel momento in cui si rende conto che il suo amore se ne sta andando, la sua mente acquisti di colpo un briciolo di lucidità. Attenzione, però: solo in un primo momento e poi la consapevolezza di essere stata ingannata non la trattiene dal tentativo di convincere Enea a rimanere con lei. Ecco come Virgilio descrive questo momento:
Ma presentì la regina (chi può mai ingannare chi ama?)
quell’inganno e per prima cosa intuì quel che c’era nell’aria,
lei che temeva ogni cosa pur certa. E ancor l’empia Fama
a lei sconvolta ridice che s’arma la flotta e s’appronta
il viaggio. Smania smarrita di mente; folle d’amore
corre furiosa per tutte le strade
[…] (IV, vv. 296-301)
È proprio vero: come si fa ad ingannare chi è innamorato? Insomma, certe cose si percepiscono epidermicamente, la “puzza” del tradimento si avverte lontano un miglio. Oddio, Enea non è un vero e proprio traditore, nel senso che non scappa con un’altra donna; ma è pur sempre un fedifrago, nel momento in cui, pur con un nobile fine, si affretta ad abbandonare in lacrime la donna con la quale aveva condiviso i “mutui piaceri” ed il “turpe diletto”.
Didone, però, non molla; ferita nell’orgoglio, affronta il suo “nemico”:
Hai sperato, o perfido, anche di dissimulare
sì grande infamia e in silenzio partirtene dalla mia terra?
Non l’amor nostro né la destra che un dì ci stringemmo
né ti trattiene Didone, votata a morte crudele
? (IV, vv. 305-308)

Gli ricorda poi che nemmeno la stagione è la più adatta per prendere il largo: in pieno inverno, con l’Aquilone (il vento) che soffia e spesso porta con sé piogge e burrasche. Insomma, Didone non lo dice espressamente, ma è un po’ da idioti partire così, in fretta e furia. Anzi, lei è convinta che Enea non avrebbe il coraggio di andarsene per mare con tali previsioni meteorologiche nemmeno se si dovesse recare a Troia, se la città fosse ancora in piedi. Perché, dunque, parte? Perché evidentemente è stufo di lei, il suo amore gli è venuto a noia. Una donna innamorata che altro può pensare? In queste circostanze ci si attacca ad un lumicino di speranza e si inizia a pregare:
Me dunque fuggi? Per queste mie lacrime, per la tua destra […]
Per il nostro connubio e le nozze appena agli inizi,
se un po’ di bene ti feci o se alcuna dolcezza tu avesti
di me, ti prego, abbi pietà di una casa che crolla,
se ancora posso pregarti, e abbandona un tale pensiero
. (IV, vv. 314-319)
La regina ormai è furibonda, il dolore la rende pazza, lo stesso effetto che su di lei, qualche tempo prima, aveva avuto l’amore. A questo punto si chiede chi sia l’uomo che sta fuggendo via da lei. Un marito? No di certo. Solo un ospite e nemmeno tanto cortese. Anzi, Enea con la sua fuga nottetempo infrange il sacro vincolo dell’ospitalità, sacrilegio senza pari per i Greci.
A chi mi abbandoni morente, ospite? Invero
questo sol nome rimane da quello già di marito.
Che aspetto? Che mio fratello Pigmalione distrugga
questa città? O che Iarba getulo mi tragga sua schiava?
(IV, vv. 323-326)

Di tutt’altro avviso il pio Enea. Marito? Macché mai!
Si dispiace? Si dispera? Chiede umilmente scusa? Niente di tutto ciò, anche se Virgilio scrive che a fatica premeva nel cuore l’affanno. Non è un affanno dovuto all’amore, è piuttosto l’emozione difficile da domare, quella che si sente, diciamolo chiaramente, quando si sa che si deve “sputare il rospo”. Nella sua risposta, non solo non prova a giustificarsi, ma non si trattiene nemmeno dal “piazzare dei colpi bassi” che solo la forza di volontà permette a Didone di incassare. Ma forse lei sta già pensando all’epilogo della storia.
Certo, Enea non si esime dal ricordarle i suoi meriti e le assicura che si ricorderà di lei finché avrà vita. Peccato, però, che la chiami “regina” e che il tono sia più ossequioso che altro. Non dà voce, Enea, alle proprie emozioni perché non ne ha. Ma se non può esprimere sentimenti che non prova, potrebbe almeno risparmiarsi di dirle, senza troppi complimenti:
Non io celarti di furto sperai questa fuga, non crederlo,
né mai offerte di nozze ti feci o fermai tali patti
con te
. (IV, vv. 338-340)
Ecco il nodo della questione: Enea non ha mai riconosciuto il “connubio” avvenuto nella grotta. Insomma, è come se Didone avesse fatto tutto da sola! Definizioni a parte, come fa il disgraziato a scaricare sulla poveretta ogni responsabilità? Non contento, subito dopo rincara la dose: con molta onestà, ma davvero poco tatto, le assicura che se il Fato gli permettesse di essere arbitro della sua vita, vorrebbe vivere ancora a Troia. Però la sua meta ora è un’altra: è l’Italia e quindi perché mai la regina vorrebbe ostacolarlo nel suo viaggio “fatale”? Alla fine sembra chiederle pietà:
Non straziare più ancora me e te col tuo pianto,
non di mia volontà io cerco l’Italia
. (IV, vv. 360-361)
Insomma, continua a crearsi l’alibi, per non ammettere che, nonostante l’invito divino, sia in fondo contento di andarsene. Il Fato è sì ineluttabile, ma in ultima analisi si può affermare che questa fuga sia alquanto propizia.

Se nella prima parte del colloquio la regina cerca di dominarsi, al tono di rimprovero alterna quello di supplica, ora dà libero sfogo alla sua rabbia. Innanzitutto gli rinfaccia di avere un cuore insensibile, neanche fosse nato nel Caucaso e allattato dalle Tigri ircane. Poi si toglie definitivamente la maschera:
Ma che dissimulo più? A che oltraggi più gravi mi serbo?
Forse un gemito ha tratto al mio pianto, mi ha volto uno sguardo?
Lacrime forse ha versate commosso? O sentito pietà
di me che l’amo?Qual onta peggiore? Non guardano i fatti
con occhi giusti, non più, né Giunone potente né Giove
. (IV, vv. 367-372)
L’insensibilità di Enea è accostata al comportamento iniquo della coppia divina: lei lo ha accolto naufrago, ha risparmiato a lui e ai compagni una morte sicura, ha reso il troiano partecipe del suo regno e che cosa ha avuto in cambio? Esplode, a questo punto, la rabbia di Didone e la consapevolezza della pazzia che le ha impedito di guardare in faccia la realtà. Ma del resto, quanto può importarle la missione di Enea? Perché mai dovrebbe comprendere la situazione, visto che l’uomo amato le è stato accanto fino a quel momento, le ha fatto credere di contraccambiare il suo sentimento e si è crogiolato nel lusso del suo palazzo? È limpida, Didone, tanto quanto Enea è torbido. E allora, cos’altro può meritarsi, lui, se non una punizione?
Ma spero che tra gli scogli il castigo ne patirai,
se i giusti numi han qualche potere, e tu spesso Didone
per nome invocherai. Seguirò con funeree faci
da lungi; e quando la fredda morte divise dall’anima
avrà le membra, dovunque t’apparirò come spettro
. (IV, vv. 382-386)

Presagio funesto nelle parole della regina. Basterà a commuovere il troiano? Lo farà desistere dall’intraprendere il viaggio verso l’Italia? Ma certo che no. E mentre lui si prepara a salpare, la poveretta si pone un sacco di interrogativi: dovrà, una volta deposto l’orgoglio, chiedere le nozze ai vecchi pretendenti, Iarba in primis? La vita di una donna, seppur seduta sul trono regale, è difficile. Un uomo accanto le darebbe sicurezza. Allora forse deve implorare Enea di portarla con sé? No, non sarebbe questa la decisione ottimale, non potrebbe mai costringere il suo popolo a seguirla ancora una volta e non è proprio il caso che abbandoni, ingrata, i suoi sudditi fedeli.
Dignità, orgoglio, patriottismo fluiscono sull’onda di quesiti ironici e assurdi per confluire, tutti assieme, ad un’unica soluzione possibile, la morte:
Muori, piuttosto, lo meriti, e scaccia il dolore
col ferro
. […]
Non volle il fato che, priva di nozze, traessi la vita
senza colpa, qual fiera, e immune da simili affanni;
e violata ho la fede giurata a Sicheo sulla tomba
. (IV, vv. 547-548 e 550-552)

Ecco che le si riaffaccia alla mente il ricordo del tradimento perpetrato ai danni, si fa per dire, del marito Sicheo. Una fedeltà, a quelle ceneri, giurata e non mantenuta. A prima vista parrebbe che la morte, così tante volte preannunciata, possa costituire la giusta vendetta nei confronti del fuggiasco. E invece no, è orgogliosa, Didone, è forte, non si abbandonerebbe mai ad un siffatto atto di debolezza. Lei vuole morire, sì, ma sperando che il suo suicidio abbia l’effetto boomerang: non danneggerebbe lei, anzi, le darebbe l’occasione di ricongiungersi per sempre all’amato marito fenicio; sarebbe piuttosto un atto che gli dei farebbero scontare al popolo che da Enea, giunto nel Lazio, discenderà: quello dei Romani.

Mentre guarda da lontano le navi troiane che procedono a vele spiegate, sconsolata la donna rimpiange, ormai invano, le azioni incompiute: non ha impedito che Enea si prendesse gioco di lei, ed ora non può di certo spronare il suo popolo ad attaccare l’uomo cui aveva affidato lo scettro e che ora chiama straniero e nemico. E’ troppo tardi, lo sa, per vendicarsi personalmente, è troppo tardi semplicemente perché i mali che lui ha commesso solo ora la offendono:
Sarebbe stato assai meglio che ti fossi sentita
offesa così nell’ora cui gli affidavi lo scettro.
Eccola la lealtà di uno che dicono che rechi
con sé i patrii Penati, di uno che avrebbe portato
sulle spalle, pietoso, il padre vinto dagli anni
. (IV, vv. 723-727)

Pur nella tragicità del momento, Didone non può fare a meno di ricorrere all’ironia e noi non possiamo far altro che condividere questa sua osservazione. L’uomo così devoto, così pietoso nei confronti del padre e della patria, non solo non sa esserlo nei riguardi di colei che gli ha salvato la vita e attribuito tutti gli onori, ma non è nemmeno capace di dimostrarsi leale. Certo, Enea si trova di fronte ad un bivio: da una parte la strada da percorrere è quella indicata dagli dei, dall’altra la via è quella che il suo cuore o per lo meno un doveroso debito di riconoscenza dovrebbero suggerirgli di intraprendere. Le due opzioni, però, si escludono a vicenda: obbedendo al volere divino si rende nemica Didone, seguendo l’istinto suscita l’inimicizia dell’Olimpo. Ora, non per difenderlo, ma mettendoci nei suoi panni e sapendo quanto irascibili siano gli inquilini del divino monte, non possiamo biasimarlo per la scelta fatta. Diciamo pure che si tratta di una scelta condizionata: se non si fosse comportato così non sarebbe stato “pio”. D’altronde non sa, il povero Enea, quanto possa diventare feroce una donna innamorata appena abbandonata. L’universo femminile, con le sue sfaccettature, non doveva essere profondamente conosciuto da un pover’uomo sempre alle prese con armi e navi.
E poi, come avrebbe potuto credere che quella nobile e delicata creatura che aveva affidato il suo cuore, il suo corpo e il suo regno al naufrago infelice qual era, appena raggiunta la spiaggia di fronte a Cartagine, potesse diventare crudele al punto da escogitare vendette e scagliare maledizioni?

Ma ormai Didone ha deciso: la morte è l’unica soluzione, una colpa che il fedifrago non solo sconterà personalmente ma riverserà anche sul suo popolo ancora ignaro.
Se è scritto nel destino che quell’infame tocchi
terra ed approdi in porto, se Giove vuole così,
se la sua sorte è questa: oh, almeno sia incalzato
in guerra dalle armi di gente valorosa
e, in bando dal paese, strappato all’abbraccio di Julo,
implori aiuto e veda la morte indegna dei suoi,
e, dopo aver firmato un trattato di pace
iniquo, non goda il regno né la desiderata
luce, ma muoia, in età ancor giovane
e rimanga insepolto su un’arida sabbia
! (IV, vv. 744-753)
Una maledizione in piena regola, non c’è che dire, ma del resto noi sappiamo che si tratta di profezie post eventum e sappiamo anche come andranno le cose al povero Enea: approderà nel Lazio, la terra promessa, ma dovrà combattere contro i Rutuli di Turno per poter sposare Lavinia, figlia del re Latino. Poi, in onore della consorte, fonderà Lavinium di cui diventerà re; dopo quattro anni di regno, però, l’eroe sparirà tra lampi e tuoni durante una battaglia contro gli Etruschi presso il fiume Numicio. Successivamente apparirà in sogno al figlio Ascanio e gli rivelerà di essere stato trasportato nell’Olimpo e assunto tra gli dei.
Insomma, la donna non perdona, gli dei sì.

Ma torniamo a Didone. Come metterà a segno l’insano proposito? Una bella pugnalata in pieno petto, da vera donna che non teme nulla, nemmeno la morte. Il tutto senza rinunciare alla maledizione che vedrà vittime Enea e i suoi discendenti:
E infine voi, miei Tiri, perseguitate la stirpe
di lui, tutta la sua discendenza futura
con odio inestinguibile: offrite questo dono
alla mia povera cenere. Nessun amore ci sia
mai tra i nostri due popoli, nessun patto. Ah, sorga,
sorga dalle mie ossa un vendicatore, chiunque
egli sia, e perseguiti i coloni Troiani
col ferro e col fuoco, adesso, in avvenire, sempre
finché ci siano forze! Io maledico, e prego
che i lidi siano nemici ai lidi, i flutti ai flutti,
le armi alle armi: combattano loro e i loro nipoti
. (IV, vv. 755-765)

Le parole della regina sono più che esplicite, almeno per noi che conosciamo i fatti. Se consideriamo che Ascanio, con il nome di Julo, fonderà Albalonga dando origine alla stirpe primigenia romana, detta appunto Julia, è chiaro il riferimento all’odio che nascerà tra i Punici e i Romani. In quanto al vendicatore, chi potrà mai essere se non Annibale? Certo, la storia ci insegna che le guerre puniche, seppur lunghe e sanguinose, saranno vinte dai Romani. Anzi, la vera forza, la grandezza del popolo latino trova origine e conferma proprio nelle guerre sostenute contro Cartagine.
Questo, però, Didone non lo può sapere e in fondo si auspica che la persecuzione continui finché ci siano le forze.
Mi piace credere che anche negli ultimi attimi della sua vita, Didone, in fondo, ami ed odi allo stesso tempo colui che l’aveva resa felice con il suo arrivo e l’aveva gettata nella disperazione più nera con la sua partenza. La fine arriva tra atroci tormenti e noi non possiamo fare a meno di commuoverci:
Didone
mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano
a stare aperti sviene; la ferita profonda
nel petto stride. Tre volte riuscì a levarsi sul gomito,
tre volte ricadde sul letto: nell’alto cielo cercò
con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette
. (IV, vv. 835-840)
Poi Giunone, pietosa, manda Iride a porre fine alla lunga agonia della regina, recidendo il capello sacro a Dite.

Enea, intanto, a bordo della nave che ormai si allontana dalle coste africane, vede il chiarore causato dal rogo che la regina aveva fatto preparare per un sacrificio a Plutone, signore degli Inferi. Uno spettacolo tutt’altro che rassicurante. Sarà forse per scongiurare i tristi presagi che Enea, durante la visita agli Inferi, tenta di riscattarsi, di giustificare il suo comportamento e di esprimere il suo rammarico non appena vede che con la ferita ancor fresca, Didone fenicia / errava nella gran selva (cfr. VI, vv. 450-451).
Solo adesso l’uomo è capace di rivolgersi alla regina come lei, forse, avrebbe voluto un po’ di tempo prima:
non trattenne le lacrime e con dolce affetto le disse:
“Infelice Didone, pur vero mi giunse l’annunzio
ch’eri spenta e che avevi col ferro cercata la fine?
Di morte, ahi, causa ti fui? Per le stelle, per i Celesti
giuro, e per quanto di sacro v’è sotto la terra profonda:
a malincuore, o regina, m’allontanai dal tuo lido
.
[…] credere io non potevo
di darti con la partenza questo dolore sì grande
”. (VI, vv. 455-460 e 463-464)

Ma come? Di fronte a Didone affranta dal dolore che lo supplicava di non partire, lui aveva dimostrato di possedere un cuore di pietra, ricordandole che Apollo gli aveva indicato l’Italia come futura patria. Anzi, riferendosi alla nostra penisola, Enea aveva precisato: questo il mio amore (cfr. IV, v. 346). Non amore in carne ed ossa, dunque, ma amore fatto di terra ed acqua. Ora, forse, l’ombra dell’infelice gli incute più timore, ora non tiene gli occhi immoti, ora prova della pietà che allora non aveva saputo rivelare.
Ma Didone, ormai in pace con se stessa e con Sicheo che la morte le ha ridato e che corrisponde al suo affetto e d’egual amore la ricambia (cfr. VI, v. 474), rimane impassibile di fronte all’ex marito, non si cura di lui ma altrove rivolta, a terra fissava lo sguardo (cfr. VI, v. 469). Ecco che i ruoli si sono ribaltati: lo sprezzo che Enea aveva manifestato durante l’ultimo colloquio con la regina supplicante ora si legge negli occhi di lei. Nell’Oltretomba la donna non ha più bisogno di parlare, tace perché il silenzio ferisce, talvolta, più delle parole. Allora aveva detto anche troppo, inutilmente, ora le parole non servono, l’irreparabile è già avvenuto, l’obiettivo è già stato raggiunto: Enea l’avrà per sempre sulla coscienza, senza parlare di tutta la serie di disgrazie gravanti, come già detto, sulle generazioni future. È inutile che lui insista ora per avere un colloquio, visto che quando ella era ancora in vita a quel colloquio lui si era voluto sottrarre velocemente, adducendo pretesti (gli dei non possono mica aspettare!).

Nonostante egli cerchi di lenire quell’anima / indignata, ancor torva negli occhi, mentre egli piangeva (cfr. VI, vv. 467-468), lei ostile di lì si ritrasse (v.473) per raggiungere l’amato Sicheo. Come allora l’aveva squadrato da capo a piè, così ora, pur ancora torva negli occhi, lo ignora, lasciandolo affranto ma commosso […] dall’acerba sorte di lei / da lungi la segue tra le lacrime, e, mentre ella va, la compiange (vv. 475-476).
Ma chi compiange? Per chi ora versa lacrime? Sono quelle che noi chiamiamo lacrime di coccodrillo, a che servono ora? Se osserviamo la sdegnosa noncuranza di Didone, l’atteggiamento di Enea ci pare decisamente patetico e fuori luogo. Probabilmente le sue lacrime servono a scaricare la tensione accumulata (i viaggi, si sa, sono stressanti), ma siamo un po’ lontani dall’interpretare quel pianto come espressione di un sincero pentimento. Ma poi, chi vuole che lui si penta? Caso mai speriamo che il rimorso lo tormenti più a lungo possibile. Io sinceramente sono contenta che Didone abbia ritrovato la serenità e che consideri la sua storia con Enea un brutto episodio, da dimenticare, della sua breve vita.

[immagini e relativi link: La morte di Didone, Peter Paul Rubens, 1630, museo del Louvre (particolare); “Didone ed Enea”, Giambattista Tiepolo, Palazzina della Villa Valmarana ai Nani; “La morte di Didone”, Giambattista Tiepolo]

FACEBOOK: IL “TETTA-DETECTOR” CENSURA UN GOMITO


I moderatori di facebook, novelli censori, entrano in azione ogniqualvolta qualcuno pubblichi sul suo account foto di donne a seno scoperto. Nulla da eccepire se il petto in mostra è quello di un aitante macho ma le donne no, a seno nudo non possono proprio trovare posto su FB. I moderatori di Palo Alto sono davvero intransigenti: rimuovono persino le fotografie che ritraggono dolci mamme mentre allattano al seno le loro creaturine. Capezzoli femminili, benché appannaggio esclusivo di un vorace poppante, messi al bando. Nel migliore dei casi si rischia la rimozione della/e immagine/i, nel peggiore anche la chiusura dell’account.

Proprio per testare la scarsa infallibilità di questo tipo di censura, i blogger di «Theories of the Deep Understanding of Things» hanno postato sulla pagina FB di una graziosa biondina un’innocente foto che la ritrae avvolta dalla schiuma in una vasca da bagno sui cui bordi appoggia un innocente gomito nudo. C’è da dire, per onestà, che lo sguardo della ragazza è parecchio ammiccante, tuttavia la foto, a ben guardarla, non è per nulla osé, sempre che non si voglia considerare particolarmente erotico un gomito.

L’obiettivo dei blogger menzionati è stato raggiunto nell’arco di qualche settimana: la fotografia innocente è stata rimossa perché contraria alla policy del social network.

Missione compiuta, dunque. Ma che figura per i tetta-detector!

[fonti: Il corriere e Giornalettismo da cui è tratta anche l’immagine]

LIBRI: “IO CREDO. DIALOGO TRA UN’ATEA E UN PRETE ” di MARGHERITA HACK e PIERLUIGI DI PIAZZA

In uscita il libro Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete, curato dalla giornalista della Rai regionale del Friuli – Venezia Giulia Marinella Chirico, nota a livello nazionale per aver ottenuto, lei sola, il permesso di vedere Eluana Englaro nelle ultime ore di vita.

Il libro, edito da Nuova Dimensione, rappresenta un sunto di quasi vent’anni di incontri tra un’atea, l’astrofisica Margherita Hack, e un prete, Pierluigi Di Piazza, due persone apparentemente distanti (“il diavolo e l’acqua santa”, come scherzosamente osserva la Hack) che si interrogano sui valori fondamentali che orientano l’azione umana e sui temi del vivere quotidiano.
La Hack non ha bisogno di presentazioni e il suo ateismo è cosa ben nota, visto che non perde l’occasione di ribadirlo in ogni intervento pubblico. Pierluigi è stato mio collega di religione più di vent’anni fa, un grande uomo di Fede, soprattutto un grande Uomo. Da anni si occupa degli emarginati, prodigandosi nell’ambito dell’ integrazione e dell’accoglienza, dirigendo il Centro di Accoglienza Balducci alle porte di Udine.

La presentazione del libro è prevista presso il Centro Balducci martedì 27 novembre alle ore 20 e 30.

Ecco un “assaggio” del libro pubblicato sul numero odierno del quotidiano Messaggero Veneto:

Dal libro emerge una grande consonanza sull’etica. Si può dire che uno cerca il bene dell’uomo in nome di Dio e l’altra in nome dell’uomo?
M.: «Io credo nella libertà e nella giustizia. La mia filosofia si riassume nel “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” e nell’“Ama il prossimo tuo come te stesso”. Sento quindi il dovere etico di andare incontro a chi è più debole, più povero, più sofferente. Non credo alla natura divina di Gesù, ma lo considero il primo socialista, e probabilmente la più grande figura mai apparsa nella storia umana».
P.: «Io credo in Dio. Ma va precisato in quale. Perché c’è il Dio dei ricchi e quello dei poveri, il Dio di chi vuole la guerra e quello di chi vuole la pace, di chi è razzista e di chi accoglie, di chi è corrotto e mafioso e di chi combatte mafie e corruzione, di chi sfrutta e inquina l’ambiente e di chi lo difende. Credo nel Dio di Gesù, che ci impegna ad accogliere l’altro e a lottare per un’umanità più giusta».

[…]

A dividervi non è il “fare” in vita, ma l’atteggiamento verso la morte e il dopo morte?
M.: «Non credo ci sia un aldilà. L’atomo di idrogeno è praticamente immortale, e le molecole che oggi sono Margherita Hack si sparpaglieranno nell’atmosfera, serviranno a costruire altre persone o oggetti, chissa… Ma io non ci sarò più. Vedo il cervello come un hardware, e l’anima come un software che non gli sopravvive. La morte non mi fa paura, la perdita dell’autosufficienza e l’accanimento terapeutico sì».
P.: «Dobbiamo assumerci una maggiore responsabilità verso la vita, perché troppo spesso la morte è provocata. Dalla fame, dall’ingiustizia, dalle guerre. La morte è rottura delle relazioni umane di cui è tramata la vita. Ed è il cuore del mistero: credo che in quel momento la vita venga accolta, sebbene non sappiamo spiegare dove e come. Non è una fiducia irrazionale, è un pensiero che avverto indimostrabile ma ragionevole. Nella morte è il senso primo dell’affidamento a Dio, hanno detto Küng e Martini. Come annunciano le Scritture, vedremo il volto di Dio, anche se non possiamo sapere quale sarà. Né quale sarà il nostro volto».

AGGIORNAMENTO DEL POST, 27 NOVEMBRE 2012

Sono riuscita ad andare alla presentazione del libro di Margherita Hack e Pierluigi Di Piazza. Devo dire che ne è valsa la pena, considerando anche il fatto che se l’astrofisica è nota a tutti per la sua arguzia, per le sue battute e le risposte secche, la vera rivelazione, per molti ma non per me, è stato questo prete straordinario che ha messo in luce non tanto la forza della sua fede quanto la debolezza. Una riflessione, la sua, che a volte lo porta lontano dalla chiusura ostinata della Chiesa nei confronti della scienza o di quelli che considera dei tabù sociali, come ad esempio l’omosessualità o il divorzio, e etici e morali, prima di tutto il discorso della fine vita e del testamento biologico.

Un’atea e un prete molto più vicini di quanto possa sembrare.

IL VIDEO DELLA SERATA

IL PRANZO DELLA DOMENICA

Ricordo che, quand’ero bambina, il pranzo della domenica a casa mia era un vero e proprio rito.
Il cuoco di casa è sempre stato mio papà che, da napoletano, è pure una buona forchetta. Non dico che passava la notte fra il sabato e la domenica a girare il ragù (come fa la protagonista di Sabato domenica e lunedì dell’insuperabile De Filippo), ma comunque per tutta la settimana pensava al pranzo della domenica. La spesa si faceva all’ultimo momento – non era ancora l’epoca dei surgelati e del congelatore domestico, noi avevamo un vecchio frigorifero Fiat e io mi chiedevo perché non avesse le ruote e il volante 😦 – e si sceglieva il pezzo di carne migliore per preparare il brasato al barolo oppure il branzino più fresco, con l’occhio vispo, per cuocerlo al forno. E poi le verdure, quelle di stagione, e la frutta che faceva la sua bella figura nella fruttiera che avevo dipinto personalmente in quarta elementare. Il primo non era mai elaborato, poteva andar bene anche una semplice spaghettata con la salsa di pomodoro, l’unica cosa che ha sempre preparato mia mamma, con la foglietta di basilico fresco, un tocco di verde che si tuffava nel rosso che, unito al bianco della cipolla, ne faceva un piatto patriottico.

A casa mia la domenica c’era sempre aria di festa. Persino d’estate, quando passavamo la giornata al mare, il pranzo veniva rigorosamente portato da casa. Tramezzini o panini? Sacrilegio! Allora si andava al mare in compagnia e ognuno portava qualcosa da dividere con gli altri: ricordo ancora le lasagne al forno della zia e le melanzane impanate di mio papà. L’unica cosa che davvero sopportavo a malincuore era la lunga attesa di ben tre ore prima di poter fare il bagno.

Il pranzo della domenica era quasi sempre allargato: venivano gli zii e i cugini oppure gli amici di mamma e papà. L’arte culinaria del babbo era ben rinomata e nessuno si perdeva l’occasione di un buon pranzetto. L’unica cosa che non si preparava a casa era il dolce, almeno finché non ho imparato io a fare le torte. Ebbene sì, io ero (e sono) la pasticcera di casa. Ma allora o lo portavano gli ospiti oppure si andava nella migliore pasticceria triestina (chiamata La bomboniera, soprannominata la boutique del dolce, chissà perché …) e si tornava a casa con il bel vassoio di pasterelle.

Ecco, questa era l’atmosfera che si respirava da me quand’ero piccola. Ora le mie domeniche le passo a lavorare.
La mia giornata oggi è iniziata alle sei (ormai ho la sveglia incorporata e pure la domenica mi alzo all’ora di sempre). Alle sette ero già con il ferro da stiro in mano. Alle nove ho iniziato a correggere i compiti (quelli non mancano mai di allietare le mie domeniche!). Alle undici e mezza mi sono preparata per andare al supermercato perché ieri sera ero in giro con la mia amica del sabato (insegnante anche lei e, come me, troppo occupata durante la settimana per permettersi di andare a zonzo) fino a tardi e non sono riuscita a fare la spesa.

Andare al supermercato la domenica è una cosa che proprio non sopporto. Avrei potuto anche farne a meno, non saremmo morti di fame, ma era finito il latte, sicché … sono tornata a casa con due borse piene e pesantissime. Guai a dire: ho bisogno solo del latte. Si dovrebbe girare tra gli scaffali bendati … Vabbè, mi sono detta, così domani evito di fare la spesa.

Da quando sono a dieta, stare davanti al fornello per me è diventata una tortura. Il 90% di quello che cucino è destinato agli altri, dunque non c’è proprio soddisfazione. Quindi, per pranzo oggi ci saremmo arrangiati come tutti gli altri giorni. Ma non si devono fare mai i conti senza l’oste: alle dodici e trenta arriva mio figlio con la fidanzata. Memore del fatto che a casa dei miei un pranzo o una cena, anche senza preavviso, si rimediano sempre, ho chiesto: vi fermate a pranzo? Non ci hanno pensato più di due secondi. Ho ringraziato il cielo che i supermercati siano aperti pure la domenica.

Non ho preparato nulla di speciale ma non siamo morti di fame. Ho imparato bene l’arte di arrangiarmi … alle quattordici era già pronto il caffè.
Avevo comperato dei bocconcini di tacchino (che in origine volevo preparare domani con calma) e li ho cucinati con il vino bianco e il marsala. Ho benedetto l’invenzione della pentola a pressione. Non capirò mai perché ci siano tante persone prevenute che si rifiutano di utilizzarla. A me viene tutto benissimo, compreso il ragù che tutti elogiano, salvo storcere il naso quando dico che lo cucino mezz’ora nella pentola a pressione.
Per primo ho rimediato dei fusilli alla norma. Qualche giorno fa avevo comperato un preparato di Cannamela, incuriosita perché non l’avevo mai provato. È venuto un sugo buonissimo … l’ho solo assaggiato perché la mia dieta non contempla sughi elaborati.
Per contorno non sapevo che fare perché non avevo patate da friggere (con quelle non si sbaglia mai), l’insalata la lasciano a me perché dicono che sono la capra di casa, le zucchine non riuscivo a prepararle in poco tempo … mi sono ricordata di una busta di polenta rapida ai funghi che mio marito ha comperato tempo fa. Pronta in cinque minuti et voilà, il pranzo è pronto.

Ovviamente, tempo per fare una torta neanche a parlarne. Ma in frigorifero ho sempre una scorta di crema al cioccolato, tiramisù e profiteroles in vaschette monoporzione. A casa mia si divertono un sacco a mangiarsele sotto il mio naso …
Ognuno ha scelto il dessert che preferiva e si è alzato da tavola bello sazio … tranne me, logicamente. Io, vergognandomi di presentarmi a tavola con la mia solita terrina di insalata e tonno, praticamente non ho mangiato, salvo l’assaggio di pasta e due bocconcini di tacchino da cui avrei dovuto tenermi alla larga perché ci avevo messo un po’ di burro. Pazienza, il mio colesterolo se ne farà una ragione.

Certo, pensando ai miei vecchi pranzi della domenica non c’è proprio paragone. Ma almeno posso dire che l’industria alimentare risolve qualsiasi esigenza per i pranzi improvvisati. Anche queste sono soddisfazioni.

PORRE UN LIMITE AL DIRITTO DI CRONACA

Leggo sul blog La 27esima ora, pubblicato su Il Corriere on line, un interessante articolo firmato da Fulvio Bufi, in cui si parla dei limiti che talvolta, per puro buon senso, si dovrebbero porre al diritto di cronaca.

Sempre più spesso, infatti, specie nei casi di omicidio, vengono pubblicati i verbali degli interrogatori (a proposito, mi chiedo come mai non siano segretati, o magari lo sono e in quel caso mi domando come mai sia così facile una “fuga di notizie”) delle persone informate sui fatti oppure degli indagati.

L’ultimo caso, balzato alle cronache dopo un silenzio di ben otto anni, è quello dell’omicidio di due donne, Elisabetta Grande e Maria Belmonte, madre e figlia, i cui corpi sono stati scoperti in casa del marito della prima, in quel di Castel Volturno.

Ecco, a tal proposito, la riflessione di Bufi:

Ci sono pagine di cronaca giudiziaria che si può rivendicare con orgoglio di non aver voluto scrivere. La vicenda di Elisabetta Grande e Maria Belmonte, le due donne, madre e figlia, scomparse nel 2004 e i cui resti sono stati ritrovati sepolti nella casa dove era rimasto a vivere da solo l’uomo che di Elisabetta e Maria era marito e padre, ne offre l’ultimo esempio.

I verbali di interrogatorio di quest’uomo, Domenico Belmonte e dell’ex marito di Maria, Salvatore Di Maiolo, è pieno di domande che rivoltano fin nei dettagli più intimi la vita delle due donne, in particolare la più giovane. Gli inquirenti che le pongono sono spinti ovviamente da motivazioni che nulla hanno di morboso.

In qualunque indagine verificare ogni elemento emerso può servire a giungere alla verità, ma questo, appunto, attiene al lavoro degli investigatori. I lettori del Corriere – e anche quelli di altri giornali – quelle domande e quelle risposte non le hanno trovate nei resoconti di cronaca, e non per questo l’informazione che sulla vicenda hanno ricevuto ne è stata penalizzata al punto da non avere un quadro chiaro – per quanto chiara può essere una storia ancora oggetto di indagine – di quello che è successo a Elisabetta e Maria.
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Finalmente un giornalista che ammette che la cronaca debba porsi un limite, che debba pubblicare ciò che basta per informare chi legge su di una data vicenda, senza rispondere al desiderio morboso di chi vuole conoscere i minimi particolari che nulla aggiungono alla notizia in sé. Soprattutto, senza pensare alla tiratura dei giornali o ai click di accesso alla testata on line.
A giudicare dai commenti all’articolo, la maggior parte dei lettori chiede informazione e non particolari morbosi sulle vicende che hanno come protagoniste delle vittime che non possono difendersi.

Un bell’esempio di civiltà, finalmente.
Spero lo seguano anche i conduttori dei vari programmi di approfondimento giornalistico che, in nome dell’audience, in televisione ad ogni ora del giorno propongono servizi che di giornalistico hanno ben poco, criminalizzando presunti colpevoli (dimenticando che in Italia vige la presunzione di innocenza) e facendo processi sommari in cui spesso la vita privata delle vittime, perlopiù donne, viene smontata e rimontata privandole della dignità. Il tutto post mortem, naturalmente.

STORIA DI BETTY, GATTINA (S)FORTUNATA


PREMESSA: questo è un post che avrei voluto scrivere molto tempo fa, poi altri impegni (ma forse solo tanta pena per la gattina protagonista di questa storia) mi hanno fatto desistere. So che tra i miei lettori ci sono molti amanti degli animali, specialmente gatti. Non che io non lo sia, intendiamoci. Semplicemente non ne ho mai voluti per casa, anche quando i miei bimbi mi supplicavano. Ho sempre pensato che in un appartamento, per quanto grande sia, gli animali non stiano a loro agio, non si sentano sufficientemente liberi. D’altra parte, apprensiva come sono, non avrei mai accettato di tenere un cane o un gatto a mezza pensione: un po’ a casa e un po’ in giro per il mondo.
Se devo essere sincera, un po’ di diffidenza nei confronti degli animali l’ho sempre avuta. Si è accentuata quando un cane ha aggredito mio figlio da piccolo, anche se gli ha procurato solo qualche graffio. Ma questa storia mi ha commosso e l’aver fatto amicizia con due quadrupedi tanto affettuosi mi ha fatto vincere la diffidenza e mi ha portato ad avere un atteggiamento molto diverso nei confronti dei piccoli amici dell’uomo.
Dopo aver letto questa storia, capirete bene il mio stato d’animo.

Siamo agli inizi di agosto, tempo di ferie. Una gattina di circa tre mesi viene abbandonata nella piazza di un paese alle porte della città. Qualcuno l’ha vista letteralmente volare fuori dal finestrino di un’auto in corsa. Certi bipedi sono davvero molto più animali degli stessi quadrupedi.
Il paese è piccolo e la micina, bianca e grigia, bellissima, viene soccorsa e portata nel cortile del bar che sta proprio in piazza. È sabato sera.

Poco distante da quella piazza la domenica mattina Fede e Leo si svegliano. Il loro cane Teddy non fa le feste come al solito. È inquieto e la giovane coppia si stupisce. Appena si alzano vedono che in casa non c’è la loro gatta Margot. Ma lei è indipendente, spesso salta giù dalla finestra e se ne va in giro. I gatti sono così.
Purtroppo quella notte Margot non è andata molto lontano da casa. Fede e Leo si affacciano alla finestra e la vedono proprio lì davanti, in mezzo alla strada. Morta. È il week-end degli abbandoni, in tutti i sensi.

Il lunedì mattina quando Leo va al bar – è il suo primo giorno di ferie – vede la gattina bianca e grigia. Nessuno la vuole e il padrone del locale, sapendo che lui e Fede sono amanti degli animali (hanno anche una tartaruga), gli propone di prenderla. Fra le lacrime Leo racconta la morte di Margot e dice di non aver voglia di affezionarsi ad un’altra gatta. Poi, però, chiama Fede al telefono: gli bastano cinque minuti per convincersi che quella gattina abbandonata è un segno del destino, che non sostituirà mai Margot ma che saprà farsi amare e diventerà una nuova compagna di giochi per Teddy, avvilito dopo la scomparsa della sua amica.

La gattina arriva nella nuova casa e viene accolta da Fede con un pianto misto fra dolore e speranza. Lei sa che quella creaturina ha bisogno di lei: deve dimenticare i vecchi padroni che non hanno avuto cuore. Ma bisogna darle un nome. È Leo a decidere: si chiamerà Betty.
Teddy è felice ma la gattina di lui non vuole proprio saperne. Non fa che soffiargli e graffiarlo. Ma è un cane paziente e dolcissimo, non ci mette molto a conquistarla.

Passano i giorni, pochi in verità. Betty abita nella nuova casa da meno di una settimana. Una sera arrivano degli amici dei suoi nuovi padroni. Portano con sé il loro cane che è nemico giurato dei gatti. La micetta viene chiusa in camera proprio per evitare inconvenienti. Però quando Fede entra nella stanza per prendere qualcosa, lei è più veloce della luce e sgaiattola dalla fessura dell’uscio, ignara del pericolo. Pochi istanti e si ritrova fra le fauci del cane che, nonostante il tempestivo intervento di tutti i presenti, la ferisce gravemente.
La corsa dalla veterinaria, un intervento chirurgico per ridurre la lacerazione e il responso terribile: molto probabilmente l’articolazione della zampina è compromessa.

Tornata a casa dopo due giorni di “ricovero”, Betty è spaventata e non ha proprio voglia di giocare, né con Teddy né con i padroni. Fede e Leo sono tristissimi, si sentono responsabili, anche se l’unico responsabile è quel cagnaccio brutto e cattivo che non ha nulla a che vedere con il dolcissimo Teddy. Lui, da parte sua, cerca di giocare con la nuova amica ma, vedendola così tranquilla e quasi apatica, le offre la sua pancia per appoggiare la testina e fare un sonnellino assieme.

Dopo una settimana di tranquillità, la gattina riprende la sua vivacità. È come una pazza, va dappertutto, salta ovunque, un giorno la trovano addormentata nel cestello della lavatrice. Teddy è là davanti e abbaia. Lui è sempre il primo a trovarla.
Sembra che la zampina stia recuperando un po’ di sensibilità, anche se più che altro la trascina e sembra esserle di impaccio. C’è comunque la speranza che possa riprendere la sua funzionalità. Almeno, questo è ciò che credono Fede e Leo. La veterinaria è molto scettica e conferma la sua diagnosi: il morso del cane ha reciso i nervi, non c’è alcuna possibilità per quella zampina. Anche se Betty è vivace e si muove tranquillamente, si nota che quell’arto le crea impaccio, forse le fa anche male. Ma lei è tanto buona che non si lamenta mai.

Dopo qualche settimana, alla visita di controllo, la veterinaria emette un altro terribile responso: la zampina andrà amputata, non subito, si può aspettare ma l’intervento è inevitabile. Crollano le speranze che riprenda la funzionalità. Altre lacrime.

Sono passati più di tre mesi da quel brutto giorno. Oggi Betty è stata operata: non si è potuto intervenire con un’amputazione parziale. La zampetta è stata tagliata interamente, fino al bacino.
Mentre scrivo, si sta svegliando dall’anestesia. Chissà come sarà, poverina. Chissà se avrà tanto dolore. Chissà quando e come si riprenderà. Si abituerà alla nuova condizione? Tornerà ad essere la gattina vivace, quasi turbolenta, che ho conosciuto? Saprà essere riconoscente ai suoi padroncini oppure li odierà per averle fatto subire un’operazione così terribile? Lei così piccina, così indifesa …

Nel titolo ho volutamente scritto (s)fortunata, con quella esse tra parentesi. Sì, perché questa micetta è stata davvero sfortunata, per ben due volte: è stata abbandonata da gente insensibile e azzannata da un cane brutale, per nulla amico dei gatti. Non come Teddy che ha sempre condiviso l’affetto dei suoi padroni con altri animali.
Poi, però, quando vedo con quanto amore Betty è trattata da Fede e Leo, con quanto amore è difesa e coccolata da Teddy, quante cure le vengono sempre prestate da tutti, e non solo perché un destino crudele ne ha fatto una gatta zoppa, allora mi convinco che lei sia una gattina fortunata e continuerà ad esserlo, anche con tre zampette al posto di quattro.

P.S. Purtroppo non ho una foto di Betty. La gattina nella fotografia sotto il titolo le somiglia molto. L’immagine è tratta da questo sito.

SAN MARTINO


L’11 novembre è il giorno in cui la Chiesa ricorda San Martino, protettore dei viandanti ma anche dei sarti e degli albergatori. Questa data viene celebrata da Carducci nella sua celebre lirica e ricordata per la sua “estate”.

La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
sull’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar
.

Narra una leggenda che in un lontano e freddo 11 novembre (siamo nel IV secolo d.C.) s’incontrarono per via due uomini: un cavaliere, Martino, con il suo ricco ed elegante mantello, e un mendicante, ricoperto di stracci e infreddolito. Bastò l’incrociarsi degli sguardi perché il cavaliere, in un atto di estrema generosità, sfoderasse la spada e tagliasse in due il mantello, prezioso e caldo, per donarne la metà all’uomo sfortunato incontrato per caso. A quel punto, il cielo, colpito da quest’atto di generosità e altruismo, si rasserenò e attraverso lo squarcio delle nubi fece capolino un tiepido sole che illuminò e scaldò la terra.

Quella stessa notte il generoso cavaliere ebbe una visione: Gesù Cristo, indossando il suo mantello, lo guardò sorridendo e gli donò la Fede.

Oggi il tempo è brutto, le nuvole nere non lasciano passare alcun raggio di sole. Piove e le foglie morte, che copiose cadono a terra ormai ingiallite, ci ricordano che l’estate è ormai lontana.
Ma questa leggenda deve farci ricordare che un atto di solidarietà è sempre possibile, costa poco e dà un’immensa gioia. Ed è sempre estate nei nostri cuori.

SCUSATE IL RITARDO

Mi rivolgo ai miei lettori affezionati per scusarmi se in quest’ultimo periodo rispondo con ritardo ai vostri commenti e non riesco a seguire le discussioni (a volte impegnative … come quelle del blog di Diemme!) come vorrei.

Non vorrei sembrare scortese, è solo una questione di tempo. Sono oberata dal lavoro, a scuola e a casa (è il periodo delle riunioni), sommersa di compiti da correggere (e ovviamente impegnata a prepararli perché difficilmente mi faccio bastare ciò che c’è già nel mio archivio didattico 😦 ), senza contare che i miei doveri di famiglia non posso sempre delegarli, anche se devo dire che a casa mi stanno dando una mano.

La scorsa settimana ho tenuto il conto delle ore in cui sono stata impegnata con il lavoro: 45. Non lo faccio mai perché non mi piace fare la vittima, dire sempre “sono stanca” e far pesare sugli altri i miei problemi, dando l’impressione di essere concentrata solo sul mio lavoro, e le energie che spreco, e di non tenere in nessun conto che anche altri lavorino, talvolta svolgendo attività ben più pesanti.

Domenica scorsa ho raggiunto il colmo e ho pensato che devo dire stop, se non ce la faccio, non ce la faccio. Stavo correggendo i compiti di italiano di quarta quando telefona mia cognata e annuncia il suo arrivo, assieme al marito. Ho avuto una reazione quasi isterica, ho iniziato a dire che non avevo tempo, che non potevo interrompere la correzione, urlando a mio marito (si trattava di sua sorella) che avrebbe dovuto dire di no, che non potevano venire, che io dovevo lavorare, che non potevo perdere tempo in visite di cortesia … mio marito mi ha guardato come dire “questa è pazza”. Non gli do quasi mai ragione ma ‘stavolta sì, se non sono pazza, sono sulla buona strada.

Scusate lo sfogo e perdonatemi. Ma sono ancora offesa da tutte le critiche che ho letto sul web, rivolte a noi insegnanti fannulloni che non abbiamo voglia di fare un tubo, che non siamo disposti a sacrificarci per la Patria, non accettando l’aumento di orario da 18 a 24 ore. Non è solo questione di soldi, credetemi. La preoccupazione più grande è quella di non riuscire a fare bene il nostro lavoro perché un aumento delle ore equivale a più classi e più impegni, didattici e non.

Ora starete pensando: nel tempo che ci ha messo a scrivere questo post poteva rispondere ai commenti e seguire, almeno un po’, le discussioni sui blog degli altri. E’ vero. Ma sentivo che era giunto il momento di sfogarmi.

Vi abbraccio tutti. A presto.

P.S. A proposito di stress, vi allego un interessante studio del dott. Vittorio Lodolo D’Oria sullo SLC. Studio inidoneità Lodolo

MI MERITO UN REALITY BLOG AWARD … ANZI DUE

Grazie a Monique (Le lune di Sibilla), collega e blogamica, mi è stato assegnato il premio Reality Blog Award. Mi sento davvero onorata da questo riconoscimento che si aggiunge agli altri già conquistati: il Gorgeous Blogger Award e il più recente Blog 100% affidabile.

Il primo impegno che devo affrontare da “premiata” consiste nel rispondere a delle domande. Eccole.

1) Se potessi cambiare una cosa, cosa cambieresti? La mia testardaggine. 😦

2) Se tu potessi ripetere un’età quale sarebbe? Dai 20 ai 24 annipoi mi sono sposata.

3) Cosa è una cosa che ti spaventa davvero? I problemi di salute, non miei ma quelli delle persone che amo.

4) Qual è un sogno che tu non hai completato, e pensi di non essere in grado di completare? Laurearmi in Lingue. Un tempo pensavo di farcela ma poi i bambini, la scuola, gli impegni su tutti i fronti mi hanno fatto desistere. Credevo, però, che avrei potuto farcela quando sarei andata in pensione. Grazie alla Fornero so che non realizzerò il mio sogno perché a 67 anni (età in cui forse andrò in pensione) sarò del tutto rinco. 😦

5) Se potessi essere qualcun altro per un giorno, chi vorresti essere? Rita Levi Montalcini, una donna stupenda, con un carisma grande come una casa.

E ora devo onorare il secondo impegno: nominare a mia volta i blog che ritengo meritevoli di questo premio. Eccoli.

1. frz40, anche se so che non continuerà la “catena. Ammiro il suo impegno nella lotta contro la violenza, la prevaricazione, la disinformazione e la faziosità (come recita il motto del suo blog) e allo stesso tempo mi piace la sua voglia di far sorridere i lettori. E poi è un amico di lunga data …

2. Cle (Ecce Clelia). E’ sempre un piacere leggere i blog (oltre al principale, ci sono i due di cucina: Ma che bontà e A dieta) di un avvocato con la passione per la cucina.

3. Ifigenia. Diario di una casalinga non disperata e nemmeno a tempo pieno (visto che lavora) alle prese con la figlia e la sua mania delle diete e con il padre della figlia, presenza invadente e poco collaborativa.

4. Valentina. Studentessa siciliana amante delle lingue (che studia seriamente) e dei gatti. Una ventata di gioventù non fa mai male!

5. Raffaele. Ogni tanto sparisce per periodi più o meno lunghi, è un blogger in preda a frequenti crisi creative ma a me piace leggere ciò che scrive perché spesso ritrovo nelle sue parole la mia stessa rabbia contro le ingiustizie. Che questo premio possa essere per lui uno sprone a continuare.

E’ tutto. Anzi, no. Nel titolo ho scritto di aver ricevuto non un premio ma due. Sì, perché l’amica Diemme ha conferito questo riconoscimento al mio blog laprofonline. Ci vediamo . 😉