LIBRI: “COME DONNA INNAMORATA” di MARCO SANTAGATA

santagataL’AUTORE
Marco Santagata, nato a Zocca (Modena) nel 1947, è docente e scrittore italiano.
Laureatosi alla Scuola Normale di Pisa nel 1970, ha nel suo curriculum numerosi incarichi di docenza in vari atenei italiani e in alcune università straniere. Attualmente insegna Letteratura italiana all’Università di Pisa.
La sua attività di studioso è rivolta soprattutto alla poesia dei primi secoli, con una particolare attenzione a Dante e a Petrarca. Altri settori di indagine sono i Canti di Giacomo Leopardi e la poesia italiana fra Otto e Novecento (Pascoli e d’Annunzio).
Su Dante, di cui ha curato per i Meridiani Mondadori l’edizione commentata delle Opere, ha scritto diverse opere: L’io e il mondo, Un’interpretazione di Dante (il Mulino, 2011) e la biografia del poeta fiorentino, intitolata Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori, 2012). Tra i lavori petrarcheschi si segnalano il commento al Canzoniere (Mondadori, 2004) e il libro I frammenti dell’anima (il Mulino, 2011).
Accanto all’attività di critico letterario Santagata si dedica da tempo anche alla narrativa: con il romanzo Il Maestro dei santi pallidi (Guanda) ha vinto il premio Campiello 2003. Suoi anche Papà non era comunista (Guanda, 1996), L’amore in sé (Guanda, 2006), Il salto degli Orlandi (Sellerio, 2007), Voglio una vita come la mia (Guanda, 2008), fino al più recente Come donna innamorata (Guanda, 2015). Inoltre, ha scritto con Alberto Casadei il Manuale di letteratura italiana medievale e moderna (Laterza, 2007) e il Manuale di letteratura italiana contemporanea (Laterza, 2009).

Nel 2015 è uscito un romanzo dedicato alla figura dell’Alighieri, Come donna innamorata, che gli ha procurato un posto nella cinquina dei finalisti del Premio Strega.
[fonte bio]

come donna innamorata

LA TRAMA
Chi conosce Dante Alighieri sa che dedicò tutta la sua vita alla scrittura e molte parti della sua produzione poetica furono ispirate dall’unica donna che veramente amò: Bice Portinari detta Beatrice. Fin dal loro primo incontro, avvenuto quando Beatrice aveva solo nove anni, la donna rappresentò la musa ispiratrice del poeta il quale, grazie a lei, non solo fu in grado di scrivere i versi d’amore più belli che mai poeta abbia potuto concepire, ma riuscì anche a ritrovare la diritta via dopo essersi perso nella selva oscura del peccato. Senza Beatrice, anima beata e guida di Dante nel Paradiso, non sarebbe stato concepito nemmeno il massimo poema della letteratura italiana, croce e delizia per tutti gli studenti del triennio superiore: La Divina Commedia.

Come donna innamorata è innanzitutto un romanzo, seppur ispirato alla biografia del poeta. Santagata “ricostruisce” alcuni momenti della vita dell’Alighieri, non esclusivamente legati alla storia d’amore per Beatrice, anche se l’amata rimane il motivo ispiratore della sua poetica e il motore di quasi tutte le sue azioni quotidiane. Ma nel romanzo c’è molto di più: si parla d’amicizia, attraverso il legame di Dante con i suoi amici poeti, in particolare Cavalcanti, e il fratello di Bice, Manetto, grazie al quale poté stare vicino alla sua amata almeno fino alla morte di lei.
Non manca il contesto familiare dello scrittore a partire dalla moglie Gemma, una Donati, famiglia per cui Dante provò sentimenti alterni (di sincero affetto per Forese e di odio per Corso, suo acerrimo nemico politico).

C’è poi la Firenze del tempo, quella in cui la laboriosità era un dovere civico e la “pigrizia” di Dante, che sognava la corona poetica facendosi mantenere, senza vergogna, dalla famiglia della moglie, non era certo apprezzata, né lo fu nel momento in cui la fama arrivò davvero. Come si può dimenticare il dolore che il Vate provò nei confronti della sua Patria ingrata?

Non possono mancare, nel romanzo, i riferimenti all’esilio di Dante. L’allontanamento forzato dalla sua città, la delusione politica, gli sforzi vani per ritornare, la rassegnazione di dover ancora mendicare un tozzo di pane (Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui fa dire a Cacciaguida nel XVII canto del Paradiso) nelle corti più prestigiose d’Italia. Eppure proprio nel periodo dell’esilio compone il suo capolavoro: La Divina Commedia.

L’esilio riesce a fare apprezzare a Dante anche la sua famiglia, la moglie in particolare, anche se sopravvive dentro di lui quell’astio provato nei confronti del parentado:

A guardarla, bassotta, paffuta, i capelli scarmigliati e una pelle scura da contadina, chi l’avrebbe detto che Gemma era una Donati. […] Gemma gli aveva dato un figlio, altri ne sarebbero venuti. Era rispettosa e devota […] era affezionato a quella moglie rotondetta e di poche parole. […] Se l’amore per una moglie era quello, allora lui l’amava.
I Donati avevano fatto di lui un mendicante, un ramingo senza tetto. Ma i Donati gli avevano dato una moglie, una posizione nella società, avevano mantenuto i suoi figli. Forse il bene e il male non erano separabili come il giorno e la notte. […]
A Verona avrebbe riunito la famiglia.
Gemma aveva vinto. Gran donna, Gemma! Una leonessa. Da anni lottava con le unghie e coi denti per proteggere i figli, tenerli uniti, legati al padre lontano. Dal giorno in cui lui era fuggito dalla città, lei era diventata il vero capofamiglia. (M. Santagata, Come donna innamorata, Guanda, 2015, passim)

***

Ammetto di sentirmi in imbarazzo nel commentare questo romanzo. L’ho acquistato sull’onda dei commenti entusiastici letti e ne ho subito affrontato la lettura con grandi aspettative, dandogli la priorità rispetto ad altri libri già comperati oppure già inseriti nella lista di letture in sospeso. L’ho letto in un paio di mattinate ma purtroppo mi ha deluso.

Innanzitutto quello che, per sentito dire, doveva essere il racconto della grande storia d’amore fra Dante e Beatrice è, in effetti, solo il racconto della grande … assente. Certamente si parla della donna amata dal poeta, anzi, si insiste su particolari della sua vita, più o meno fantasiosi, che non ho letto altrove, a partire dal matrimonio infelice con Simone de’Bardi. Ma all’epoca le nozze erano combinate, quale unione poteva essere davvero felice? Dalla narrazione esce una donna debole, umiliata, soggiogata … e nemmeno una parola sui sentimenti che Beatrice nutriva per l’Alighieri. D’altra parte, Dante stesso non parla mai di Beatrice come di una donna innamorata, casomai la descrive come donna amata e come salvatrice, colei che ha principalmente a cuore la salvezza della sua anima. Nel II canto dell’Inferno l’autore, mentre descrive il colloquio tra Virgilio e Beatrice avvenuto nel Limbo, fa fare alla donna un timido accenno a sé come l’amico mio, e non de la ventura (v. 60), che significa più o meno “colui che mi ama in modo disinteressato” (a conferma che i sentimenti del poeta non sono più caratterizzati dall’eros, come avveniva per gli scrittori contemporanei, specialmente gli Stilnovisti, ma dalla caritas, cioè l’amore cristiano). Ma è sempre Dante che, nella veste di auctor, dà voce a Beatrice. Nulla sappiamo, infatti, dei sentimenti che la donna nutriva veramente nei confronti del poeta.

A parte questo e il fatto che l’Alighieri viene descritto come un mantenuto (cosa che, tra l’altro, sarà stata anche vera dal momento che l’attività poetica non arricchiva nessuno a quei tempi, non c’era nemmeno il copyright!), anche l’insistenza di Santagata sulla presunta malattia di Dante, l’epilessia, a mio parere è alquanto fastidiosa. Negli scritti dell’autore ci sono parecchi riferimenti ad una malattia non ben definita di cui avrebbe sofferto da bambino. Verso la fine dell’Ottocento la psichiatria lombrosiana aveva diagnosticato che il poeta era stato affetto da epilessia, ma i dantisti ne hanno sempre preso le distanze. Che Dante soffrisse di epilessia è un sospetto scaturito dalla descrizione di svenimenti, visioni, quasi allucinazioni che ritroviamo nelle sue opere, specialmente nella Vita Nuova, dove racconta gli strani effetti che gli procurava ogni incontro con la sua amata. Ma questi “sintomi” rientrano appieno nella fenomenologia delle manifestazioni amorose, a partire da quelle descritte dalla poetessa Saffo (VI secolo a.C.) in una famosa ode:

A me sembra beato come un dio
quell’uomo che seduto a te di fronte
t’ascolta, mentre stando a lui vicino
dolce gli parli

e ridi con amore; si sgomenta
il cuore a me nel petto, non appena
ti guardo un solo istante, e di parole
rimango muta.

La voce sulla lingua si frantuma,
sùbito fuoco corre sottopelle,
agli occhi è cieca tenebra, e agli orecchi
rombo risuona.

Sudore per le membra mi discende
e un brivido mi tiene; ancor più verde
sono dell’erba; prossima alla morte
sembro a me sola.

Infine, se pensate che la donna cui si fa riferimento nel titolo sia Beatrice, vi sbagliate. La donna innamorata è un’altra, certamente un personaggio importante nell’opera dantesca ma non quella che vorremmo fosse.
A questo punto, il romanzo appare come un racconto ben scritto – anche se a volte un po’ noioso – con dovizia di particolari per quanto concerne la biografia di Dante, alcuni certamente tratti dal Codice diplomatico dantesco che rappresenta l’unica prova documentaria sulla famiglia Alighieri, ma che alla fine mira più a descrivere la passione nutrita dal poeta per la scrittura mettendo in secondo piano l’amore totalizzante che da sempre abbiamo pensato fosse quello che lo legò a Bice Portinari per tutta la vita.
A Santagata riconosco l’abilità di aver confezionato un buon romanzo con perizia filologica ma che non può essere definito la storia d’amore di Dante e Beatrice, come si vorrebbe far credere. Tutt’al più avrebbe potuto intitolare il suo libro “Il poeta innamorato”.

Credo che la lettura di questo romanzo possa essere maggiormente apprezzata se affrontata con occhio meno critico di quanto abbia potuto fare io da dantista. Certamente a Santagata deve essere riconosciuto il merito di aver rivelato dei particolari sulla vita di Dante, seppur conditi di una buona dose di fictio, sconosciuti alle persone che si sono approcciate all’autore esclusivamente dai banchi di scuola.

Se volete leggere qualcosa di più serio, QUI trovate la “vera” storia d’amore tra il poeta fiorentino e la donna gentile e onesta oggetto dei dilettevoli oppure tormentati – a seconda dell’amore o dell’odio che avete nutrito per l’Alighieri – studi liceali.

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AUGURI A TUTTI CON “IL VECCHIO NATALE”, POESIA DI MARINO MORETTI

babbo natale camino
E’ sempre più difficile augurare Buon Natale. Ormai le recite dei bimbi alla scuola dell’infanzia e primaria sono bandite. I presepi non hanno miglior sorte dei crocefissi: negli edifici scolastici non c’è posto per loro. Pure la messa di Natale è vietata (in questo caso, però, sono d’accordo sulla scelta operata dal Dirigente Scolastico in questione).

Ricordo l’imbarazzo dei miei genitori di fronte al medico di famiglia che era di origine ebraica. Eppure augurare Buon Natale ad una persona che professa un’altra religione non dovrebbe essere sconveniente. I miei avevano scelto un’alternativa “politicamente corretta”, come si usa dire oggi: per non offenderlo, gli mandavano un dono augurandogli buon anno.

Questa festa in occidente è molto sentita e poco importa se ci si crede o meno. In fondo, è come un compleanno, un giorno in cui fare festa. A chi di noi non è mai capitato di essere invitato ad una festa di compleanno pur detestando cordialmente il festeggiato? Eppure ci siamo andati, in nome della buona educazione e della riconoscenza, ci siamo divertiti, abbiamo mangiato, bevuto, giocato … e così si fa a Natale.

Una cosa che non ho mai davvero apprezzato sono i regali natalizi. Li ho sempre sentiti un obbligo, mentre preferisco fare un regalo anche senza un’occasione speciale, solo per far sentire alla persona che lo riceve il mio affetto. Però devo ammettere che Babbo Natale, almeno per i bambini (sempre che ci credano ancora), ha il suo fascino e costituisce una tradizione che non si può ignorare. C’è qualcuno convinto che questo grosso babbo con la barba bianca e vestito di rosso stoni con la festività religiosa, e invece la sua figura è una rielaborazione laica del vecchio vescovo di Myra, San Nicola (o San Nicolò), tant’è vero che in America il nostro babbo viene chiamato Santa Klaus, nome che deriva direttamente da quello del santo.
Non dimentichiamo, inoltre, che l’usanza di scambiarsi i regali a Natale deriva proprio dall’evento religioso: infatti ognuno, secondo le proprie possibilità, portò dei doni al bambino Gesù.

Proprio ricordando il vecchio babbo dalla barba bianca che porta qualcosa a tutti, vi regalo una bella poesia di Marino Moretti dedicata al Vecchio Natale.

divisorio natale

marinomorettiMarino Moretti è un poeta molto trascurato, specialmente dai curatori dei manuali scolastici. Un poeta di serie B, parrebbe, eppure fa parte della corrente crepuscolare e fu grande amico di Palazzeschi. La poesia del poeta di Cesenatico è molto semplice, i suoi versi hanno perlopiù un carattere discorsivo e nascono dall’osservazione delle cose semplici della vita di tutti i giorni. Secondo me, Moretti è uno dei poeti che meglio incarna quel fanciullino pascoliano che porta il poeta a descrivere il suo mondo con lo stupore e l’ingenuità tipica dell’età infantile.
Chiaro esempio dello stile morettiano è anche la poesia “Il vecchio Natale” che dedico a tutti i lettori:

Mentre la neve fa, sopra la siepe,
un bel merletto e la campana suona,
Natale bussa a tutti gli usci e dona
ad ogni bimbo un piccolo presepe.

Ed alle buone mamme reca i forti
virgulti che orneran furtivamente
d’ogni piccola cosa rilucente:
ninnoli, nastri, sfere, ceri attorti…

A tutti il vecchio dalla barba bianca
porta qualcosa, qualche bella cosa.
e cammina e cammina senza posa
e cammina e cammina e non si stanca.

E, dopo avere tanto camminato
nel giorno bianco e nella notte azzurra,
conta le dodici ore che sussurra
la mezzanotte e dice al mondo: È nato!

RIVOLGO A TUTTI UN AFFETTUOSO AUGURIO DI

Buona natale babbo

[immagine Babbo Natale da questo sito; divisorio da questo sito; scritta Buon Natale da questo sito]

LIBRI: “CORTO VIAGGIO SENTIMENTALE” di ITALO SVEVO

PREMESSA
Il racconto, uno dei più lunghi e articolati, è annoverato tra gli inediti e pubblicato dopo la morte di Svevo. Io ho letto l’edizione economica Newton Compton (124 pp)a 1,90 euro, con copertina rigida. La collana ha sostituito i tascabili economici che la stessa casa editrice aveva immesso sul mercato a soli 99 centesimi.
QUI potete leggere l’edizione integrale del racconto totalmente gratis. E’ anche possibile trovare tutti i romanzi e tutti i racconti dell’autore nell’edizione Newton Compton ad un prezzo davvero contenuto. Per chi preferisse la lettura da supporto digitale, QUI può trovare l’opera omnia.

Italo-SvevoL’AUTORE E L’OPERA
Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz – per esteso Hector Aaron Schmitz) non ha bisogno di presentazioni. In ogni caso QUI potete trovare una breve biografia.
Il narratore triestino, uno dei più autorevoli del ‘900, è certamente più famoso per i tre romanzi: Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno. Ma la sua produzione comprende anche un certo numero di racconti, alcuni dei quali pubblicati dopo la sua morte. Corto viaggio sentimentale (opera incompiuta) è stato pubblicato per la prima volta da Umbro Apollonio sul «Mondo» tra l’aprile e l’agosto del 1945; verrà ripreso senza variazioni nel vol. III dell’Opera Omnia a cura di Bruno Maier (Dall’Oglio, Milano, 1969).

corto viaggio svevo

LA TRAMA
Trattandosi di un racconto di un centinaio di pagine è ovvio che non è possibile anticipare molto della trama, per lasciare un po’ di curiosità nei futuri lettori. La storia vede come protagonista il signor Aghios, uomo anziano di origine greca ma trapiantato a Trieste.
All’inizio della narrazione lo troviamo, in compagnia della moglie, alla stazione di Milano, città in cui studia il figliolo. Approfittando di una commissione urgente da fare nella sua città, si separa momentaneamente dalla famiglia che lascia nel capoluogo lombardo. La partenza in treno viene vissuta dal protagonista come un’occasione per sperimentare quella libertà alla quale, causa gli obblighi familiari, aveva da tempo rinunciato.

Fin dall’inizio del racconto l’idea che il lettore si fa del signor Aghios è quella di un personaggio pirandelliano: l’uomo dabbene che, per convenzione, aveva indossato fino a quel momento una maschera e che ora, all’inzio del viaggio in solitudine, poteva permettersi di assumere il suo vero volto. Il viaggio diventa occasione di riflessione e autoanalisi:

[…] Il signor Aghios aveva bisogno di vita e perciò viaggiava solo. Si sentiva vecchio e ancora più vecchio accanto alla vecchia moglie e al giovine figliuolo. Quando aveva al braccio la moglie doveva rallentare il passo e quando camminava accanto al figliuolo sentiva che questi doveva rallentarlo. Lo circondavano di tutto il rispetto. […] benché fosse abbastanza importante per il signor Aghios di essere lasciato nei suoi vecchi anni interamente in pace, interamente cioè compresa la sua ignoranza, nella quale viveva da tanti anni da farne la base della vita. […] Si sarebbe egli sentito più forte all’aria rude fuori della famiglia? Il breve viaggio sarebbe stato un esperimento, perché i suoi affari gli avrebbero fornito il pretesto ad altri viaggi. […] Aveva vissuto troppo tempo in famiglia per poter intendere la propria passata grandezza. La famiglia era come un velo dietro al quale ci si riparava per vivere sicuri e dimentichi di tutto. Ora egli ne moriva pieno di speranza. Probabilmente era una prova che gli avrebbe procurato una delusione. E allora si sarebbe accontentato. Nulla ci sarebbe stato di perduto. Egli sarebbe ritornato dietro a quel velo per vivere nella penombra, protetto, sicuro, ma moribondo rassegnato. Proprio così! […]Quello non era un viaggio con tutta quella famiglia. Un’emigrazione, una fuga. (pagg. 33-36, passim)

Una volta salito sul treno, il signor Aghios è incuriosito dall’umanità con cui avrà il privilegio di percorrere la distanza che lo separa dalla sua Trieste. All’inzio è particolarmente attratto da una donna elegante ma non bella, con uno di quei cappelli che coprono la fronte e anche una parte degli occhi. Essa s’era un po’ stesa: Le sue gambe calzate di seta, i piedini piccolissimi in scarpine nere di lacca. (pag. 45)

A questo punto apro una parentesi. Il corpo femminile è molto importante anche per il protagonista de La coscienza di Zeno. Nel capitolo IIi del romanzo, infatti, Zeno riesce a dare perfino una diagnosi dell’origine edipica del fumo, quando associa il vizio all’impossibilità di amare una donna sola e intera (cfr. cap. III). L’immagine della “donna a pezzi” ritornerà uguale e diversa nei sogni di cui Zeno parlerà nel capitolo VIII. Sempre nella parte dedicata al fumo dice: “Di tutte amavo i piedini se ben calzati …” e non è un caso, quindi, che più tardi provi una folle, amara gelosia per il giovane dottore che avrebbe dovuto curarlo nella clinica, quando congedatasi da lui la moglie, seguendola … egli (il dottore) le aveva guardato i piedini elegantemente calzati.

Chiusa la parentesi, torniamo al nostro Aghios. Tra i compagni di viaggio meritano attenzione il ragionier Ernesto Borlini, con cui il protagonista conduce una conversazione piuttosto intima, non senza esserne talvolta seccato, e soprattutto un giovane che fin da subito lo colpisce per l’espressione di sofferenza e dolore dipinta sulla faccia ma che sembra trasparire da ogni parte delle povere membra.

[…] Al momento di lasciare Mestre il biondino nel cantuccio si mosse, tese i bracci per sgranchirsi, come se fosse uscito da un sonno profondo, e mormorò chiaramente: – Come i sogni sono belli! Peccato lasciarli!.
Fu un’avventura enorme nel viaggio del signor Aghios di sentirsi dire una cosa simile da uno sconosciuto. Veniva improvvisamente ammesso nell’intimità di un proprio simile sconosciuto. […] Si conoscevano intimamente. Il signor Aghios era un uomo felice, la cui realtà spariva quand’egli chiudeva gli occhi. Il giovinetto invece era un uomo torturato che per obliare doveva abbandonarsi al sonno. Due destini o forse due caratteri. (pag. 86)

Il giovane Giacomo Bacis, diretto a Udine, conquista fin da subito la simpatia dell’anziano compagno di viaggio che si prodiga per aiutarlo, consolarlo, manifestando tutta la solidarietà di cui si è capaci durante un viaggio in compagnia di estranei, con la consapevolezza che poi, al di fuori dello scompartimento, la vita continuerà a scorrere lasciando che certi episodi vengano coperti dall’oblio.

[…] Egli sapeva che del viaggio poco si ricorda. Passano fisonomie e s’accumulano confuse in un cantuccio della memoria, diventando collettività, nazioni, sessi, mai individui. Come nel sogno, ch’era tanto difficile di ricordare, perché piombava dalla notte oscura in un lampo di magnesio in cui s’agitavano cose e persone. Ecco, in un vagone si discorreva e tutto quanto si diceva aveva un sapore di teoria vaga, in quella vettura tanto simile a tutte e passando traverso un paesaggio che a quella vettura non apparteneva. (pag. 100)

I due, approfittando di qualche ora di attesa per la coincidenza da prendere, scendono a Venezia e fanno un giro in gondola. Nella città lagunare il biondino diventa un fiume in piena e rende partecipe l’Aghios del motivo della sua sofferenza. L’anziano nel sentire la triste storia si commuove e pensa di aiutare Bacis, alleviando almeno in parte le sue sofferenza. Ma nel treno che lo porta finalmente a Trieste, troverà un’amara sorpresa.

***

La narrazione, in terza persona, procede spedita con un buon equilibrio tra parti dialogate, sequenze prettamente narrative e altre riflessive. Il protagonista, a dispetto dell’età e della senilità anagrafica che si sente addosso, è descritto con vivacità e sottile ironia. La lettura è piacevole, mai noiosa, caratterizzata dallo stile inconfondibile di Svevo e, ahimè, anche dal suo italiano imperfetto. A parziale giustificazione di tale imperfezione, possiamo addurre l’incompletezza del racconto che si arresta, al VII capitolo, a metà parola (Tries) e che molto probabilmente non è stato revisionato dall’autore.
Il brusco interrompersi della narrazione, tuttavia, non rappresenta di per sé una menomazione: la macrostoria è, sì, incompleta ma non lo sono affatto le microstorie che animano la narrazione, compresa l’ultima, quella che vede protagonista, oltre naturalmente all’Aghios, il giovane Bacis.
Curioso il sesto capitolo che s’intitola “VENEZIA-PIANETA MARTE”, in cui il protagonista, complice il vino bevuto in compagnia del Bacis nella città dei dogi, si addormenta profondamente e sogna di essere in viaggio per raggiungere il pianeta Marte.

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LE PERLE SMARRITE: “POVERI VERSI MIEI GETTATI AL VENTO” di OLINDO GUERRINI

libri 3
Grazie al lettore Dino Castellani che ha pazientemente raccolto in un libretto alcune poesie scelte dal vasto repertorio che la Letteratura Italiana di tutti i tempi offre, inizio, con la speranza di portare avanti questo progetto, il commento di testi perlopiù dimenticati o di cui nessuno, o quasi, conosce l’esistenza.

Perle smarrite, le chiama Castellani. Nella prefazione spiega:

[…] sono solo poesie più o meno note di autori vari più o meno conosciuti e poesie poco note di autori molto conosciuti ma dimenticate o relegate in disparte senza un motivo ben chiaro.
Sono in genere poesie burlesche, ma anche serie e tristi (poche), amorose, patriottiche, crudeli, ciniche, forti, delicate o estremamente umane: sono un insieme molto, molto diverso ma con un comun denominatore: sono poco conosciute.

olindo guerriniL’autore che ho scelto per iniziare quella che spero diverrà una serie di commenti, è Olindo Guerrini (Forlì, 4 ottobre 1845 – Bologna, 21 ottobre 1916, noto anche con vari pseudonimi), poeta amico e ammiratore di Carducci ma seguace del Verismo inteso come rifiuto di idealizzazione della realtà e rappresentazione dei suoi aspetti più bassi e sgradevoli (in questo, dunque, si differenzia dall’accezione di verismo che è in Verga e Capuana). [vedi Wikipedia per altre informazioni; QUI si può leggere l’intera raccolta delle sue poesie, pubblicate con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti]

Tra le poesie di Guerrini selezionate da Dino Castellani, mi ha colpito in particolare “Poveri versi miei gettati al vento“, in cui tratta quella che viene definita la metapoesia, ovvero la poesia nella poesia.

Poveri versi miei gettati al vento…

Poveri versi miei gettati al vento,
della mia gioventù memorie liete,
rime d’ira, di gioia e di lamento,
povere rime mie, che diverrete?

Ahi fuggite, fuggite il mondo intento
a flagellar chi non l’amò; premete
l’inculto sì ma non bugiardo accento,
conscie dell’amor mio, rime discrete.

E se la donna mia ritroverete
per cui le angoscie della morte io sento,
voi che il segreto del mio cor sapete,

voi testimoni del perir mio lento,
quanto, quanto l’amai voi le direte,
poveri versi miei gettati al vento
!

da Postuma, 1877.

NOTA METRICA: il testo è il classico sonetto costituito da due quartine e due terzine di endecasillabi a rima alternata.

Non è inusuale, per i poeti di tutti i tempi, affidare ai propri versi il compito di dichiarare l’amore alla propria donna. Qui Guerrini affida al vento le proprie rime, espressione di stati d’animo diversi – ira, gioia e dolore – nonché testimonianze del periodo lieto della gioventù, con la speranza che raggiungano l’amata.

Nel tentativo di preservare i suoi versi dal mondo che ha saputo soltanto portare dolore a chi non è stato capace di amarlo, nella seconda quartina il poeta chiede loro di fuggire con quel bagaglio di esperienze che egli non ha voluto o saputo nascondere, preferendo l’incolta sincerità alle bugie.

Nelle terzine si fa esplicito l’invito alle rime di cercare la donna che egli amò, una donna che è stata causa della sua sofferenza tanto da fargli sentire vicina la morte. E’ giunto il momento di lasciare da parte la finzione e permettere alle rime, testimoni dell’agonia del poeta, di rendere partecipe la donna di questo suo grande amore.

barra separazione rosa

cavalcanti donnaAffidare ai versi i propri tormenti d’amore, come ho già detto, non costituiva né costituisce un fatto eccezionale. Un poeta stilnovista, Guido Cavalcanti (vissuto a Firenze tra il 1258 e il 1300), scrisse una ballata con lo stesso intento che anima Guerrini:

Perch’i’ no spero di tornar giammai,
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’ a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri
piene di dogli’ e di molta paura; […]

Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate
quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore».
(QUI trovate il testo completo)

Non è affatto inusuale, inoltre, che anche i cantanti s’ispirino ai vecchi e amati (almeno così spero) poeti. In tempi molto più recenti un cantautore che fu anche un vero poeta, il compianto Lucio Dalla, scrisse e cantò un pezzo chiamato semplicemente Canzone, in cui affidò proprio alle note della sua “creatura” il compito di gridare l’amore per la sua donna:

Canzone cercala se puoi
dille che non mi lasci mai
va’ per le strade e tra la gente
diglielo dolcemente
[…]

Canzone trovala se puoi
dille che l’amo e se lo vuoi
va’ per le strade e tra la gente
diglielo veramente
non può restare indifferente
e se rimane indifferente
non è lei
(QUI potete trovare l’intero testo)

[immagine donna da questo sito]

MONTALE, LE CINQUE TERRE E LE CINQUE STELLE

luperiniHo una grande stima per Romano Luperini, ne ho adottato spesso i manuali di letteratura italiana. Non ho una conoscenza approfondita del poeta Eugenio Montale ma ho letto e spiegato più volte la poesia “A mia madre”. Ora, visto che questo non è il blog laprofonline, qualcuno si starà chiedendo come mai affronto un argomento “didattico” qui. Succede perché ho letto un interessante articolo di Luperini, per laletteraturaenoi.it, in cui racconta del “simpatico siparietto” che ha avuto luogo, grazie ad un giovane docente pentastellato, in occasione di un intervento dello studioso a Siracusa sul tema: “Il modernismo nella poesia italiana del primo Novecento”.
Incredibilmente si è passati, in me che non si dica, dalle Cinque Terre, amate dal poeta Montale, alle 5 Stelle del comico Grillo. Sempre in Liguria restiamo.

In sintesi è successo questo: mentre Luperini spiega la poesia di Montale, facendo un paragone con quella di Ungaretti dedicata alla madre, un docente lo interrompe facendogli notare un errore d’interpretazione, a suo dire. Ne nasce una diatriba in cui il letterato cerca di far capire, purtroppo con sforzi inutili, all’insegnante che è lui ad aver preso un abbaglio (vi risparmio gli aspetti “tecnici” della faccenda, rinviando gli interessati alla lettura dell’articolo linkato). Niente da fare, lui insiste, anzi, come scrive Luperini, grida che l’ho deluso, e continua a lungo a protestare. Di fatto ottiene di porre fine alla lezione che termina così nella confusione e nella agitazione.

Cose che possono succedere, direte voi. Certamente ma è anche vero che di fronte ad uno dei maggiori esperti contemporanei, se non proprio il maggiore, di letteratura italiana bisognerebbe essere un po’ più umili e tentare, se possibile, di non fare delle piazzate inutili rovinando una lezione che avrebbe potuto essere bella e interessante fino alla fine.

La cosa più sorprendente è la conclusione dell’articolo. Scrive Luperini:

Mi dicono poi che quell’insegnante è un esponente del Movimento Cinque Stelle. Ora so bene che gli ignoranti si trovano in ogni partito. Piuttosto questa arroganza, questa convinzione incrollabile di essere dalla parte del giusto anche contro ogni evidenza contraria, questa petulanza, questa assoluta mancanza di umiltà, e soprattutto questo narcisismo incontrollabile e questa divorante e micidiale volontà di protagonismo mi sembrano caratteristiche non solo o non tanto di un movimento politico, anche se tali tratti abbondano nel Movimento Cinque Stelle, quanto del periodo storico in cui viviamo, dominato, direbbe Recalcati, dal narcinismo (narcisismo+cinismo) e dalla presunzione di onniscienza e di onnipotenza che nasce dall’accesso all’informazione di Internet.

Fa bene Luperini a sottolineare che non è, almeno non solo, una questione di partito. Però è anche vero che la “scuola” è quella, basta ascoltare e leggere Beppe Grillo. Che poi a ciò si aggiunga anche quella presunzione di onniscienza e di onnipotenza che nasce dall’accesso all’informazione di Internet è un dato inconfutabile che si tratti di una caratteristica del nostro tempo.

Inoltre bisogna riflettere anche sul concetto di democrazia, sempre più minata dalla posizione che ciascuno fa propria, senza lasciare spazio al dibattito. Ognuno parte dalla presunzione di essere il Verbo.
Aggiunge Luperini:

La democrazia non è chiacchiera vuota, non è dire la prima cosa che salta in mente, né esibizione di sé; implica anzitutto documentazione accurata, conoscenza dei problemi, consapevolezza dei propri limiti e, conseguentemente, predisposizione all’ascolto e al confronto che solo un accertamento condiviso dei dati di fatto può garantire.

Tutte cose che a scuola, con tanta costanza e pazienza, noi docenti ci sforziamo di insegnare. Per questo mi sembra oltremodo grave che un insegnante, come quello che ha ingaggiato la singolar tenzone con Luperini, si sia comportato in quel modo.
Non penso, tuttavia, sia solo colpa dell’iPod e nemmeno del partito pentastellato. Forse il problema sta a monte: abbiamo proprio perso di vista la democrazia e il rispetto per le opinioni altrui. La famiglia, la scuola, la società tutta dovrebbero assumersene la responsabilità.

LIBRI: “STORIA DI IRENE” di ERRI DE LUCA

PREMESSA
Storia di Irene (Feltrinelli, “I Narratori”, settembre 2013) è il titolo del libro di Erri De Luca ma in realtà si tratta del racconto più ampio sui tre che la raccolta contiene. Gli altri racconti sono: Il cielo in una stalla e Una cosa molto stupida. In questo post mi limito, tuttavia, a parlare solo della Storia di Irene perché gli altri due sono proprio … un’altra storia.

storia di irene

L’AUTORE
Erri De Luca
è nato a Napoli nel 1950. Ha pubblicato con Feltrinelli: Non ora, non qui (1989), Una nuvola come tappeto (1991), Aceto, arcobaleno (1992), In alto a sinistra (1994), Alzaia (1997, 2004), Tu, mio (1998), Tre cavalli (1999), Montedidio (2001), Il contrario di uno (2003), Mestieri all’aria aperta. Pastori e pescatori nell’Antico e nel Nuovo Testamento (con Gennaro Matino, 2004), Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo (2005), In nome della madre (2006), Almeno 5 (con Gennaro Matino, 2008), Il giorno prima della felicità (2009), Il peso della farfalla (2009), E disse (2011), I pesci non chiudono gli occhi (2011), Il torto del soldato (2012) e La doppia vita dei numeri (2012). Per “I Classici” Feltrinelli ha curato Esodo/ Nomi(1994), Giona/ Ionà (1995), Kohèlet/ Ecclesiaste (1996), Libro di Rut (1999), Vita di Sansone (2002), Vita di Noè/ Nòah (2004) e L’ospite di pietra di Puškin (2005). Per gli “Audiolibri” Emons/Feltrinelli, In nome della madre letto da Erri De Luca (2010). Tra i suoi libri più recenti, Le sante dello scandalo (Giuntina, 2011).
N.B. I link rimandano alle mie recensioni presenti su questo blog.

IL LIBRO
Irene ha quattordici anni ed è incinta. Nell’isola greca in cui vive, tra la terra e il mare, preferendo di gran lunga quest’ultimo, nessuno la saluta più per quella vergogna che porta addosso. Solo lo straniero, un italiano, diventa l’unica compagnia umana per la ragazzina che tutti credono sordomuta ma lui no, lui sa che parla. Un linguaggio, il suo, che non ha bisogno di molte parole, che si fa sospiro e passa attraverso il pensiero. Lei nuota in apnee lunghissime e si accompagna ai delfini, in tutti i sensi.

Irene non ha genitori, è figlia del mare e del mare allo stesso tempo diventa madre. I delfini l’hanno salvata, bambina abbandonata tra le onde. Cresciuta in casa del pope e trattata come schiava, ne viene cacciata quando il suo corpo espelle le prime tracce di donna. Vive in una stalla, si nutre di ciò che il mare le dona, non conosce il fuoco e non ha paura del freddo. Al giorno preferisce la notte, con la sua coperta di stelle non le fa sentire il freddo. Lei nuota con il buio e non ha bisogno di altre luci.

Non ha un padre, Irene, non ne ha mai sentito il bisogno. Lo straniero che racconta storie, capelli e barba bianca, potrebbe essere il genitore ideale, lui che a sessant’anni non ha mai avuto famiglia, nessuno che lo chiami padre né marito. Lui, figlio del mare come lei, di quella Napoli terra di migranti, di quel Mediterraneo che ha la capacità di contenere ed espellere, a seconda delle circostanze:

Il Mediterraneo per noi è un buttafuori.
Per quelli che l’attraversano ammucchiati e in piedi sopra imbarchi d’azzardo, il Mediterraneo è un buttadentro. (pag. 8)

Lo scrittore scrive storie che non hanno fine, come la casa degli specchi da cui è difficile uscire ma diventa facile quando si scopre il trucco: girare sempre a sinistra. Lo scrittore che racconta storie incompiute è l’unico con cui Irene si confida, lui è l’eletto, diventa il collo di bottiglia in cui imbucare il suo racconto (pag. 22). A lui che vorrebbe padre racconta la sua storia che non ha bisogno di tante parole. Una storia che diventa fiaba e che come tutte le fiabe non necessita di verità. Ci siamo mai chiesti come possa una zucca diventare carrozza per Cenerentola? La verità sta nel fondo, come i pesci nel mare. E non ha bisogno di venire a galla, rimane nel cuore di una notte stellata.

I delfini sì, riemergono di tanto in tanto, con il loro canto cullano la ragazza figlia del mare e allo stesso tempo madre. Irene ha fatto la sua scelta, ha eletto il mare come suo regno. Sulla terraferma c’è il male, le malelingue, la discriminazione, l’abbandono. Il mare invece è il bene, la vita che è soprattutto nascita:

Nascere in mare è passare da un liquido stretto a uno sconfinato. È sbucare da un vicolo nel largo di una piazza.
Non è il salto nell’aria della specie umana, buttata dal caldo nel vuoto che asciuga e non accoglie. (pag. 64)

Nel racconto dell’uomo, lo straniero, c’è la Napoli sospesa tra terra, mare e cielo, con il vulcano che incombe e ricorda la precarietà della vita. C’è la Grecia, con le sue isole grandi e piccole, tanto che anche l’Africa e l’Asia smettono i panni di continenti per assumere quelli di isole sconfinate. E poi ci sono i ricordi dell’uomo, i suoi libri e le sue storie e quella singolare, con la esse maiuscola, La Storia dell’Uomo, con la u maiuscola. C’è Giona con la sua balena come Irene con i suoi delfini:

Irene salta al buio sopra le onde e saltano con lei gli spruzzi.
Sono in due, un delfino l’accompagna. Il mare, fino a quel momento calmo, diventa un tappeto srotolato sotto di loro, mosso dall’arrivo.
Irene tocca terra scendendo da una schiena.
La pinna si rigira per tornare al mare e vedo il bianco del disegno di clessidra sul ventre del delfino. […]
Ora so che lei sta con i delfini. (pag: 51)

Quel che basta per la felicità:

E adesso Irene? Adesso basta Irene. Ha dato un figlio al mare e la sua storia a un uomo. (pag.66)

***

Come sempre una lettura gradevole e scorrevole, veloce per la sua brevità (solo 73 pagine). Anche se non è il De Luca migliore, secondo il mio modesto parere.
Il racconto è scritto in prima persona. Lo stile è semplice, quello caratteristico dello scrittore partenopeo, dove il discorso si frammenta quasi a voler lasciare il posto alla poesia. Tante piccole frasi a comporre una storia, piccola anch’essa ma delicatamente bella. Tanto segmentato lo stile che anche la mia prosa ne è contagiata, rifugge la subordinazione. La parola diventa essenziale. De Luca è così e io mi adeguo.

VISITA ANCHE LA PAGINA “LE MIE LETTURE”

PIOVE …

DonnaSottoLaPioggia[…] piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggeri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude, […]

(per leggere tutta la poesia clicca QUI)

Piove. Sembra non voler smettere mai. Eppure dicono che l’inverno qui non è piovoso. La primavera e l’autunno lo sono di più, piovosi. Non riesco a immaginare come sarà la primavera quest’anno …

Piove. Per tutto il pomeriggio, preparando il materiale per gli scrutini dei prossimi giorni, nelle orecchie mi risuonano i versi di D’Annunzio. E dire che l’ho sempre detestato. L’ho scoperto – vorrei dire ri-scoperto ma la mia avversione per lui ai tempi del liceo e pure all’università era tale da impedirmi di scoprire davvero la sua scrittura, di godere davvero dei suoi versi, di tenere a mente davvero qualcosa della sua vasta produzione – solo da qualche anno. Me l’ha fatto amare la visita al Vittoriale, fatta senza pregiudizi di sorta. Ne sono rimasta affascinata proprio perché ho osservato la sua casa-museo con gli occhi limpidi, quelli della fanciullina con tanta voglia di imparare e di apprezzare. Quella fanciullina che non ero stata capace di essere al tempo giusto. Ma, come si suol dire, non è mai troppo tardi.

Piove. Ho cercato il testo de La pioggia nel pineto. A memoria no, non la so. Ho scarsissima memoria per le poesie, forse ne ho imparate troppo poche ai tempi delle elementari. Però la so spiegare ai miei studenti e ora so che posso trasmettere la mia gioia e il mio stupore, cercando di fare assaporare questa poesia meravigliosa che non avevo potuto apprezzare alla loro età. Ma non è mai troppo tardi.

Piove e non ne posso più. Forse il mondo ha bisogno di essere lavato, come le coscienze di chi non fa mai il bene del prossimo e pensa solo ai suoi privilegi. Piove, governo ladro! Mai alcun detto mi è sembrato azzeccato come questo in questo momento.

Vi lascio, oltre a queste riflessioni strampalate, buttate giù come gocce di pioggia che cadono qua e là come capita, il video della poesia di D’Annunzio recitata da Roberto Herlitza. Voce sublime di un attore tra i miei preferiti.

E speriamo che la smetta di piovere.

[immagine da questo sito]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: IL DECAMERON IN 100 TWEET

Waterhouse_decameron
Dopo la pausa della scorsa settimana, riprendo la pubblicazione della buona notizia del venerdì. Anche quest’oggi voglio occuparmi di cultura, nello specifico di letteratura.

Quest’anno ricorre il 700° anniversario della nascita di Giovanni Boccaccio, scrittore medievale noto a tutti per la composizione del Decameron. Si tratta, come credo tutti sappiano, di una raccolta di 100 novelle che lo scrittore di Certaldo compose in volgare, riprendendo la tradizione duecentesca del Novellino, composto tra il 1280 e il 1300.

La particolarità dell’opera di Boccaccio risiede soprattutto nella cornice, vale a dire il contesto in cui si calano le novelle. Dieci giovani, appartenenti all’alta società del tempo, trovano rifugio in campagna per scampare all’epidemia di peste che infuria a Firenze nel 1348. Ogni giorno, eccetto il venerdì, dedicato alla preghiera, e il sabato, speso dalle giovani per la cura personale, per due settimane verrà eletto un re o una regina (nel gruppetto sette sono donne) che stabilirà il tema della giornata cui tutti i narratori dovranno attenersi.

Dopo 700 anni anche per il Decameron è giunto il tempo del … lifting. La singolare iniziativa, partita il 1° agosto, è proposta dalla Società Dante Alighieri, in particolare dalla redazione di Madrelingua (trimestrale di lingua, arte e cultura della Società Dante Alighieri) e consiste nella riduzione delle novelle boccaccesche in un … tweet.

[…] In omaggio a uno dei padri indiscussi della lingua italiana, Giovanni Boccaccio, gli spazi “social” della Dante pubblicheranno ogni giorno e per 100 giorni un twoosh (tweet perfetto, di 140 caratteri esatti) riassuntivo e un twoosh di tono giocoso e cadenzato in metrica per ciascuna novella.
I lettori della “Dante” sono dunque invitati a giocare alla migliore sintesi, mandando i loro tweet e twoosh. Giocate con noi su Twitter e su Facebook twittando e postando commenti e versioni personali di un Decameron in sintesi.
Alla fine del progetto, nel mese di novembre, le versioni migliori (più efficaci, divertenti, insolite o quelle che hanno ricevuto il maggior numero di like e retweet o di commenti dal pubblico) saranno premiate con un Dizionario Devoto-Oli e la tessera della Società Dante Alighieri per il 2014. I premi saranno assegnati durante un evento. (LINK)

Andando al link, si possono trovare gli indirizzi dei siti su cui si può “giocare”.

A me sembra una bella iniziativa (anche se non sono un’appassionata di social network, in particolare di FB) e anche una buona notizia.

Buon tweet a tutti! 🙂

[nell’immagine: i giovani protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool, da Wikipedia]

LE ALTRE BUONE NOTIZIE

Ecco i corsi online gratuiti di Harvard e M.I.T. per tutti di laurin42

La città dei gatti è in Florida al Caboodle Ranch di Craig Grant di laurin42 (notizia del 26 luglio)

Trento: apre il nuovo museo delle scienze di unpodichimica (notizia del 26 luglio)

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

LIBRI: “E DISSE” di ERRI DE LUCA

Premessa: ormai questo autore napoletano mi è entrato nel cuore. Abituata ai toccanti romanzi intrisi di ricordi infantili nella Napoli della seconda metà del Novecento, ho scoperto, leggendo “E disse”, il De Luca colto, studioso appassionato della Bibbia e, in particolare, della religione ebraica. Ed è stata una felice scoperta.

de luca E disse
L’AUTORE.
Erri (vero nome Enrico) De Luca è nato a Napoli nel 1950. Dopo aver completato gli studi al liceo Umberto, si trasferisce a Roma dove è impegnato politicamente. Svolge numerosi lavori sia in Italia sia all’estero, coltivando da autodidatta lo studio delle lingue, in particolare lo yiddish e l’ebraico antico dal quale traduce alcuni testi della Bibbia. Lo scopo di queste traduzioni, che De Luca chiama “traduzioni di servizio”, non è quello di fornire il testo biblico in lingua facile o elegante, ma di riprodurlo nella lingua più simile e più obbediente all’originale ebraico.
Pubblica il primo romanzo nel 1989, a quasi quarant’anni: Non ora, non qui, una rievocazione della sua infanzia a Napoli. Seguono molte altre pubblicazioni: Una nuvola come tappeto (1991), Aceto, arcobaleno (1992), In alto a sinistra (1994), Alzaia (1997, 2004), Tu, mio (1998), Tre cavalli (1999),Montedidio (2001), Il contrario di uno (2003), Mestieri all’aria aperta, Pastori e pescatori nell’Antico e nel Nuovo Testamento (con Gennaro Matino, 2004), Solo andata. Righe che vanno troppo spesso a capo (2005), In nome della madre(2006), Almeno 5 (con Gennaro Matino, 2008), Il giorno prima della felicità (2009), Il peso della farfalla (2009), E disse (2011) e I pesci non chiudono gli occhi (2011). Per “I Classici” Feltrinelli ha curato Esodo/ Nomi(1994), Giona/ Ionà(1995), Kohèlet/ Ecclesiaste (1996), Libro di Rut (1999), Vita di Sansone (2002), Vita di Noè/ Nòah (2004) e L’ospite di pietra di Puškin (2005). Per gli “Audiolibri” Emons/Feltrinelli, In nome della madre letto da Erri De Luca (2010). Tra i suoi libri più recenti, Le sante dello scandalo (Giuntina, 2011) e Il torto del soldato (Feltrinelli 2012).

LA TRAMA

“Lo raccolsero sfinito sul bordo dell’accampamento. Da molti giorni disperavano di vederlo tornare. Si preparavano a smontare le tende, inutile cercarlo dove lui solo osava andare. Contava di farcela in un paio di giorni. Era allenato, rapido, il migliore a salire. Il piede umano è una macchina che vuole spingere in su. In lui la vocazione si era specializzata, dalla pianta del piede era risalita al resto del corpo. Era diventato uno scalatore, unico nel suo tempo. Qualche volta si era arrampicato scalzo. Scalava leggero, il corpo rispondeva teso e schietto all’invito degli appigli, il fiato se ne stava compresso nei polmoni e staccava sillabe di soffio seguendo il ritmo di una musica in testa. Il vento gli arruffava i capelli e sgomberava i pensieri. Con l’ultimo passo di salita toccava l’estremità dove la terra smette e inizia il cielo. Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l’immenso”

Così inizia “E disse”. Lui è Mosè, colui al quale Dio ha affidato il compito di tramandare agli uomini la Sua Legge. Lui è il primo alpinista e ha appena scalato il monte Sinai.
Non è importante la trama in questo libro. Una trama non c’è. C’è la Storia: quella del popolo ebraico che fugge dalla schiavitù d’Egitto e con passo paziente si dirige verso la Terra promessa. C’è l’Uomo, il primo, e la prima Donna, i primi trasgressori alla Legge di Dio. C’è la Legge, ci sono i 10 comandamenti scolpiti nella roccia e c’è Erri De Luca nella veste di esegeta biblico che non annoia mai, che non si limita al nozionismo da catechesi ma illumina con la sua scienza e il suo amore per la Bibbia un testo che romanzo non si può definire e neppure saggio. Allora cos’è “E disse”? È un fluire lento di parole che pare mosso dal vento del deserto per scolpire nella mente di chi legge ciò che un tempo fu scolpito nella roccia.

E c’è la lingua ebraica, vera protagonista dell’opera. Una lingua che De Luca conosce bene e che gli serve a dare Verità al suo scritto.

C’è il genere umano, diviso tra i due sessi. La lingua di Mosè riconosce la supremazia del maschio.

«Le donne si scambiavano occhiate, si davano di gomito: il tu che si stampava sulla roccia era al maschile. L’ebraico separa i sessi pure dentro i verbi e i terminali dei pronomi. Il tu sopra la roccia era al maschile. Spettava perciò agli uomini trasmettere le clausole e le righe di alleanza con la divinità. Per loro, per le donne, un’incombenza in meno: si scambiavano sguardi d’intesa.
Toccava agli uomini. Del resto, nella loro lingua maschio e ricordo hanno radice uguale. Si dessero perciò da fare loro con la scrittura sacra e con la trasmissione. Le donne ebree eran ben cariche di compiti. Gli uomini non erano più servi d’Egitto, avevano un sacco di tempo libero. (pag. 39)

Anche quando prende in esame i Comandamenti, uno ad uno, l’autore non è mai banale, mai scontato. La sua penna sa scavare nella profondità dell’animo umano alla ricerca di un perché.
Cosa vuol dire, ad esempio, “Non uccidere”? Un’arida intimazione a non togliere ciò che Dio ha donato, la vita, ma, al giorno d’oggi, anche un ammonimento a non commettere un reato. Eppure anche da questo semplice imperativo dalla penna di De Luca si sprigiona poesia pura:

«Non ammazzerai: che disarmo in cuore si annunciava in quel rigo di apertura di seconda facciata della roccia, in alto, a sinistra della prima. Rinuncia a disporre della vita altrui.
Diceva di non ammazzare neanche Caino, primo degli assassini, per non degradare se stesso e la comunità. Era ancora fresca la pelle d’oca per l’offerta di Isacco sopra il monte.» (pag. 63)

Potrei continuare con le citazioni ma il libro è così breve, 89 pagine appena, che finirei per riscriverlo tutto. Un libricino prezioso che si legge in un soffio ma che rimane scolpito nella memoria come le parole che dalla roccia prendono vita.

Non si può capire la scelta di De Luca di scrivere questo libro senza leggere le parole dell’epilogo, quelle in cui si dichiara “fuori dall’accampamento”, distante dalla Verità che le parole di Dio esprimono eppure così vicino al popolo che quelle parole ha seguito con devozione e speranza.

«L’ebraismo per me non è richiesta d’iscrizione, mi tengo l’imperfetto del prepuzio. L’ebraismo per me è compagnia di viaggio. […] L’ebraismo è stato per me pista carovaniera di consonanti accompagnate sopra e sotto il rigo da uno svolazzamento di vocali. Tra un rigo e l’altro, nello spazio bianco, governa il vento. (pagg. 88-89)

LE MIE (ALTRE) LETTURE

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: DOPO 80 ANNI I MANOSCRITTI DI VERGA TORNANO A CASA

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Questa settimana voglio occuparmi di letteratura, per la buona notizia. Il caso interessa i manoscritti dello scrittore siciliano Giovanni Verga, non solo i romanzi e le novelle ma anche le lettere autografe, le bozze, i disegni e gli appunti che erano stati sottratti, negli anni Trenta, da uno studioso di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina.

In verità, la preziosa documentazione era stata consegnata spontaneamente allo studioso dal figlio di Verga, però non era mai stata restituita. Nel 1975, dopo varie azioni legali, Pietro Verga, nipote dello scrittore, vinse la causa davanti al Tribunale di Catania: la sentenza gli attribuì il possesso legale di tutti i manoscritti del nonno,compresi quelli mai restituiti che non poterono essere notificati.
Tre anni più tardi l’erede dello scrittore offrì in vendita al comune di Catania l’intero corpo delle carte Verga, incluse le opere non ancora notificate. Il Comune pagò 89 milioni di lire e assieme a Pietro Verga cercò in tutti i modi di rientrare in possesso dei documenti mancanti. Nel frattempo, però, lo studioso era morto e fu chiamata in causa la figlia che ora è stata denunciata per appropriazione indebita, oltre che per ricettazione: in casa sua sono stati, infatti, ritrovati anche degli oggetti antichi provenienti da scavi clandestini.

Il materiale sottratto ha un valore stimato in quattro milioni di euro. Ora i familiari, e soprattutto il nipote dello scrittore, hanno ottenuto una prima vittoria: i carabinieri del Reparto tutela patrimonio artistico hanno sequestrato tutta la produzione, che comprende 36 manoscritti originali, fra Roma e Pavia.

Certo, ottant’anni non sono pochi ma, come si dice, meglio tardi che mai.

[fonte: Il Corriere; immagine da questo sito]

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