“FUORI ERA PRIMAVERA” E ADESSO È INVERNO. COS’È CAMBIATO?


Gabriele Salvatores mi perdonerà se ho preso in prestito il titolo del suo bellissimo docufilm sul lockdown della primavera scorsa per fare una riflessione sul tempo attuale che non sembra molto diverso rispetto a quel periodo, ahimè.

Era l’11 marzo 2020 quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il “Decreto #IoRestoaCasa” costrinse tutti entro le mura domestiche, consentendo l’uscita esclusivamente per necessità, lavoro e salute, sospendendo le attività commerciali al dettaglio, i servizi di ristorazione, le celebrazioni religiose, vietando gli assembramenti di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Con una nuova ordinanza, adottata congiuntamente dal ministro della Salute e dal ministro dell’Interno il 22 marzo, vietava a tutte le persone fisiche di spostarsi in qualsiasi comune diverso da quello in cui si trovavano, facendo chiudere i battenti a una serie di altre attività (come barbieri, parrucchiere, estetiste…) non ritenute necessarie.

Molti italiani sentirono per la prima volta la parola #lockdown (letteralmente “blocco”). Tutti confinati a casa, senza poter frequentare le scuole (la Dad, “Didattica a distanza”, fino ad allora semisconosciuta, venne imposta a tutte le scuole di ogni ordine e grado, mentre i nidi d’infanzia e le scuole materne rimasero chiusi), senza potersi recare in palestra o al cinema oppure a teatro. Niente shopping, gli unici acquisti possibili furono i generi alimentari, prodotti per l’igiene e la pulizia, giornali e tabacchi. I centri commerciali chiusero i battenti, in attesa di una riapertura che sembrava molto lontana. Tutti i servizi di trasporto furono praticamente decimati, i distributori di benzina iniziarono a ridurre gli orari di apertura: in giro c’era ben poca gente.

Queste misure vennero più volte prorogate fino al 3 maggio 2020, in presenza di un’emergenza sanitaria che non sembrava poter migliorare e, anzi, peggiorava sempre più, mandando al collasso gli ospedali. Il #COVID_19 non dava tregua. Un virus che sembrava lontano si era ormai diffuso su tutto il pianeta: per la prima volta l’11 marzo 2020 il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus in conferenza stampa aveva parlato di “pandemia”. D’altronde i numeri non lasciavano margine al dubbio: il numero di casi di COVID-19 al di fuori della Cina era aumentato di 13 volte e il numero di paesi colpiti era triplicato con più di di 118.000 casi in 114 paesi, 4.291 vittime, mentre altre migliaia stavano lottando contro il coronavirus negli ospedali.

Un’altra parola inglese caratterizzò gran parte delle attività lavorative: lo smartworking, traducibile con “lavoro agile”. “Agile” perché chi poteva lavorava da casa, limitando al massimo gli spostamenti. Chi non aveva questa possibilità, poté godere della Cassa integrazione in deroga, anche se dovette aspettare mesi prima di vedere il becco di un quattrino. Licenziamenti bloccati o, per meglio dire, solo rimandati. La crisi economica incombeva, nessuno poteva sapere quando e soprattutto come le attività sarebbero riprese. L’unica consolazione, se così si può dire, fu che la crisi era generalizzata e tutti i Paesi della UE ne erano colpiti.

Due mesi di lockdown misero in standby le relazioni, sia affettive sia amicali sia parentali. Le videochiamate conobbero un vero e proprio boom. Persino i nonni impararono a usare lo smartphone, per non sentire troppo la lontananza dei propri cari. In tv i palinsesti cambiarono, con un prolificare di talkshow in cui gli ospiti erano presenti ognuno dalla propria casa, rigorosamente via skype o altri canali di diffusione. I set delle fiction bloccati, così come quelli dei film. Molti attori iniziarono, se non l’avevano sperimentato prima, a raccontare le loro storie su Instagram. Chat e social ormai erano diventati l’unico mezzo per sentirsi vivi e ancora in grado di comunicare.

Comunicare cosa? Prima di tutto la speranza. L’hashtag #andràtuttobene divenne in breve lo slogan che tutti gridavano o scrivevano, anche su lenzuola appese alle finestre, sullo sfondo multicolore dell’arcobaleno.

Fuori era primavera e la complicità del bel tempo e della temperatura mite ci ha fatto godere di terrazzini, terrazze e balconi che fino ad allora erano stati solo un ambiente in più, poco sfruttato, da pulire. Si iniziò a vivere più fuori che dentro casa, per chi ne aveva la possibilità. Via social ci si metteva d’accordo sull’ora in cui affacciarsi per intonare l’inno di Mameli. Un amor di Patria che fino a quel momento era rimasto confinato nello spazio temporale dei pochi minuti che precedono il calcio d’inizio delle partite della Nazionale.

Abbiamo assistito a concerti improvvisati dai balconi a tutte le ore. In un silenzio tombale, un canto di speranza.

Ma fuori dal nostro microcosmo protetto la vita continuava a pulsare: quella dei tanti medici, infermieri e personale sanitario che, con turni impossibili da sopportare, lavoravano per salvare le vite di chi, affetto dal Covid19, aveva qualche speranza di guarigione. E altre vite si spegnevano. Uomini e donne con il camice e la mascherina stavano al capezzale dei malati più gravi per dare loro un conforto che nessun familiare poteva portare, nel momento dell’addio. Tanti morti, di tutte le età. Troppi anche per trovare una degna sepoltura facilmente, specie in Lombardia, la regione più colpita nella prima ondata di questa maledetta pandemia. Ecco che sullo schermo della tv sfilavano mestamente, nelle strade deserte e silenziose, i carri militari usati per portare i cadaveri nei forni crematori di altre regioni. Un requiem senza musica accompagnato da molte lacrime silenziose.

Poi arrivò l’estate e a molti parve che il Covid19 fosse un lontano ricordo. Alla riapertura delle attività commerciali sembrò che la vita, repressa per troppo tempo nelle quatto pareti domestiche, dovesse esplodere. Ne aveva tutti i diritti.

Quell’#andràtuttobene all’improvviso diventò un #èandatotuttobene. Tutti fuori perché il diritto alle vacanze, ai viaggi, al divertimento, ai balli in discoteca, alle feste notturne in spiaggia, era sacrosanto dopo mesi di clausura. E il Covid si è sentito di nuovo forte. Gli italiani avevano fatto i bravi per tanto tempo, ormai lui, il malefico, si era quasi rassegnato.

Le feste ferragostane hanno offerto un nuovo slancio ai contagi, la riapertura delle scuole a metà settembre ha dato la mazzata finale. Tutti sappiamo come siamo arrivati ad oggi, non serve che ne faccia la cronaca. Sappiamo che il sacrificio richiesto dalla politica, per poter passare un Natale sereno, è risultato vano. Ormai siamo in balia dei colori che caratterizzano le regioni del bel Paese e della nostra bandiera si è salvato solo il rosso, il peggiore.

Fuori è inverno e non va tutto bene. Eppure si è deciso che le attività devono riprendere, gli studenti delle scuole superiori devono tornare nelle aule scolastiche, seppur poco o nulla sia stato fatto per mettere davvero in sicurezza le scuole.

La disobbedienza civile è la molla che ha spinto, di recente, molti esercenti a prorogare l’orario di apertura oltre i limiti concessi. #Ioapro è il nuovo slogan.

Sulla scuola da settimane il dibattito è acceso, tra Governo e Regioni ormai è scontro aperto e anche da parte di studenti e docenti la stanchezza di mesi di Dad si fa sentire. Gruppi modesti di genitori vincono i ricorsi al Tar per mandare nuovamente a scuola i figli. Abbiamo un ministro dell’Istruzione che sostiene l’inadeguatezza della Didattica a distanza (nonostante l’abbia inventata lei, la primavera scorsa, quando nessun docente o studente l’aveva mai sperimentata), e con lei anche gruppi, sempre modesti, di studenti che rivendicano il diritto allo studio ma soprattutto alla socialità. Però sono proprio molti di loro a uscire di pomeriggio e ad ammassarsi nei bar, rigorosamente senza mascherina. Non si può dire che non abbiano altre occasioni per socializzare.

La mascherina ormai è un accessorio, come la sciarpa e i guanti. Eppure ci sono i cosiddetti nomask che rivendicano il diritto a non utilizzarla, negando l’evidenza. E, in piena campagna vaccinale che procede a rilento, con ritardi nelle consegne delle fiale, ci sono i novax che “manco morto mi vaccinerò”.

Non stiamo bene, non va tutto bene. I numeri ci dicono che l’emergenza è reale: ad oggi in Italia i casi ammontano a 2,37 Mln, le guarigioni totali sono 1,73 Ml, i decessi 81.800. Un’intera città di medie dimensioni letteralmente scomparsa.

Ancora centinaia di morti ogni giorno, solo nell’ultima settimana 3.557, il 13 % in più rispetto ai sette giorni precedenti, di nuovo in aumento per la prima volta da fine novembre (dati relativi a venerdì 15). Il numero totale dei contagi ci dice che almeno una persona su 25 che vive in Italia è stata contagiata, ma contando le migliaia di casi mai testati e quelli sfuggiti ai conteggi perché asintomatici, la percentuale è certamente più alta.

Domani in molte regioni i ragazzi delle scuole superiori ritorneranno a scuola. Nessun pericolo, le scuole sono sicure, dice Azzolina. Poche ore fa il ministro della Salute Speranza ha convocato con urgenza il CTS che però non si è espresso con convinzione sulla riapertura, demandando la responsabilità ai presidenti delle Regioni. Eppure Walter Ricciardi, professore di Igiene all’Università Cattolica e consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, nel corso di una intervista a La Stampa ha espresso la sua contrarietà alla ripresa delle lezioni in presenza in quanto “è sconveniente perché ogni attività di massa in questa fase va bloccata”. Non solo, la ripresa delle lezioni potrebbe vanificare gli sforzi che si stanno facendo con la campagna vaccinale.

Lo stesso Ricciardi, ammettendo il fallimento della suddivisione territoriale per zone colorate, invoca un lockdown totale, considerando anche la presenza sul nostro territorio di più varianti del Covid19 come quella inglese, che porterebbe al 95% l’immunità di gregge contro il 75% auspicato finora, e la brasiliana la quale ha costretto a interrompere le comunicazioni con il Paese sudamericano.

Fuori è inverno e la situazione non è migliorata rispetto alla stagione in cui fioriscono i peschi. Perché mai non si riesce ad accettare un altro sacrificio con lo stesso spirito che ci ha sorretti la scorsa primavera?

LINK AL VIDEO DEL FILM DI SALVATORES

6 pensieri riguardo ““FUORI ERA PRIMAVERA” E ADESSO È INVERNO. COS’È CAMBIATO?

  1. Si dice “il medico pietoso fa la piaga purulenta” e la mia impressione, con la riapertura estiva di tutto, è stata proprio del medico pietoso. Probabilmente sarebbe bastato tener duro un altro mese, e poi continuare nella ritrovata libertà con un comportamento attento e rispettoso delle regole (mascherina e distanziamento sociale” per dare una bella botta al Covid, forse definitiva, ma qui sono tutti “liberi” e così siamo immersi nel letame fin sopra ai capelli ed è inutile gridare “Non fate l’onda!”. Perché non viene accettato di buon grado un altro lockdown totale? Perché siamo stremati da quasi un anno di mini lockdown e confuse ed estemporanee colorazioni della nazione in cui nessuno si orienta più.

    "Mi piace"

  2. Siamo tutti molto provati e stufi. Ma proprio perché le regioni a colori non risolvono nulla, un lockdown totale sarebbe l’unica soluzione. Il fatto è che ormai i ristori pesano notevolmente sulle finanze dello Stato, quindi conviene tenere aperto tutto piuttosto che chiudere.

    "Mi piace"

Lascia un commento