VERITÀ E BUGIE SUL COVID-19

Il Covid-19 non fa più paura. Dall’ormai lontano febbraio pare che la situazione sia migliorata, l’epidemia in Italia è sotto controllo, nonostante il sorgere di focolai in alcune regioni, le terapie intensive sono semivuote, pochi i malati ricoverati in altri reparti, pochi anche i decessi, sempre paragonandoli al numero dei peggiori momenti, ormai si pensa al mare, alle vacanze, alla discoteca, ai divertimenti. Soprattutto, a settembre le scuole devono riaprire senza restrizioni di sorta: tutti in aula appassionatamente. Ci abbracceremo, ci baceremo, tutto sarà come prima. Abbiamo bisogno di normalità.

Tutto giusto, per carità. Ma siamo proprio sicuri che fra meno di due mesi il Covid-19 sarà un lontano ricordo?

Chi lo può dire? Gli esperti, sentenzierà con tono assolutamente certo qualcuno. Sì, ma quali esperti? Possiamo davvero fidarci di quanto dicono, spesso in contraddizione l’uno con l’altro?

Io non ho tutte queste certezze. Non posso dimenticare l’inizio di questa brutta storia, quando la Cina sembrava lontana, quando eravamo sicuri che ci saremmo salvati semplicemente bloccando i voli da quel Paese, quando esperti virologi, come la dott.ssa Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano, si divertivano a ridicolizzare i “colleghi” più cauti, voci autorevoli del mondo della medicina, specialmente della microbiologia e virologia, che avevano fin da subito messo tutti in allerta. Figuriamoci, il Covid-19 è poco più di un’influenza, sosteneva la Gismondo, anzi i decessi sono pochi, meno di quanti ne causi il virus stagionale, muoiono i vecchi e comunque chi è già afflitto da altre patologie.

Qualcuno ha provato a smentirla. Non faccio nomi e cognomi perché, purtroppo, questa vicenda che riguarda la salute pubblica che è un bene comune, è diventata una questione politica. Io non mi schiero mai dalla parte di chi condivide le mie idee politiche (anche se, obiettivamente, so più da quale parte non stare che da quale parte stare) su questioni che richiedono soprattutto il buonsenso. Un’opinione personale, in questi casi, rimane tale se non supportata da fatti obiettivi, inconfutabili. Ho dato credito alla dott.ssa Gismondi fidandomi della sua chiara fama (personalmente non l’avevo mai sentita nominare, come la maggior parte di noi, ma il curriculum è di tutto rispetto) poi ho iniziato a ragionare con la mia testa affidandomi alle statistiche. Non c’è stato bisogno di ulteriori smentite riguardo alle affermazioni forse troppo precipitose della virologa: ci hanno pensato i fatti stessi.

Ha taciuto per molto tempo, la dott.ssa Gismondo. L’ha fatto, credo, affidandosi al buonsenso. Qualcuno ne ha chiesto il licenziamento? No.

C’è, tuttavia, chi sta lontano dalle provette e dai microscopi dei laboratori, sta in corsia, persone che indossano camici di colore diverso ma tutte unite dalla stessa passione per la propria professione, dalla stessa coscienza con cui si sono assunte e si assumono la responsabilità nei confronti di questo virus insidioso che nel mondo continua a mietere vittime: i medici e il personale sanitario in genere. Queste sono le sole persone che hanno potuto toccare con mano la gravità della situazione nei momenti peggiori, che hanno dovuto arrendersi, impotenti, di fronte alla morte di migliaia di persone, che hanno trovato la forza di rimanere in piedi ore ed ore, senza mai guardare l’orologio, che hanno stretto le mani a chi non ce l’ha fatta, che hanno accarezzato per l’ultima volta i pazienti privati della vicinanza dei propri cari. Non sono eroi, come tengono a precisare, hanno fatto il loro dovere, dimostrando dedizione nei confronti della professione che hanno scelto consapevoli che la loro missione è quella di salvare la vita e non di lasciarla andare via. Eppure sono stati testimoni di morte, gli unici a essere rimasti in stretto contatto con il maledetto Covid-19 che ha portato via anche molti di loro. Queste sono le cose che non dobbiamo mai dimenticare.

Ora c’è un infermiere di Cremona che mette in guardia: il Covid-19 non è un lontano ricordo, i contagi aumentano, le persone si ammalano, alcune gravemente.

Ci mette la faccia e il nome, nel testo postato sul suo account Facebook: Luca Alini. Dice cose inconfutabili:

Il coronavirus non si è dimenticato di fare il suo lavoro e da bravo virus fa quello che deve: infetta nuovi ospiti per sopravvivere. Niente di più e niente di meno. Noi esseri umani, invece, dall’alto della nostra intelligenza ed evoluzione tecnologica e scientifica, facciamo finta che non esista, qualcuno pensa non sia mai esistito […] anche se per fortuna la situazione non è grave “come a febbraio o a marzo o all’inizio di aprile, quando i Covid erano 30 su 30 in reparto più altrettanti ricoverati in altri reparti, quando su 30 pazienti 26 erano ventilati”, non possiamo permetterci di dimenticare che “il virus esiste, non è magicamente sparito e sta mietendo ancora vittime in altre parti del mondo. Da noi ha già dato, ma non sta scritto da nessuna parte che non possa ricominciare a farsi vivo”. (LINK all’articolo da cui è tratto il passaggio)

Si è attirato un sacco di critiche quell’infermiere. Ha dovuto cancellare il post, dopo che l’Azienda sanitaria dell’ospedale presso cui lavora, attraverso le parole del Direttore sanitario Rosario Canino, si è affrettata a ridimensionare l’allarme: “Non sono i casi gravi di marzo. Ci sono stati dei ricoveri in questi giorni in reparti ordinari, in parte legati a focolai già noti”.

C’è chi accusa Luca Alini di procurato allarme, chi ne chiede a gran voce il licenziamento. Eppure le parole del suo post sono dettate dalla saggezza e soprattutto dalla consapevolezza di chi ha dovuto far fronte a un’emergenza inattesa e che certamente non può essere smentita dato che i numeri parlano da sé: quasi 35mila vittime, più di 240mila casi accertati. I casi crescono e decrescono con effetto altalena, i morti ci sono ancora sebbene in numero limitato. Ma questo quadro non dà garanzie per il futuro, dice solo l’unica cosa certa: il virus c’è, non è sparito. Se poi diamo un’occhiata a ciò che accade nel mondo, la pandemia sfiora i 12,5 milioni di contagi da Covid-19, di cui 3 milioni solo negli Stati Uniti.

Allora non iniziamo a dire ciò che ci ha tratti in inganno mesi fa: sì, ma l’America, settentrionale o meridionale che sia, è lontana e i voli dai Paesi non sicuri sono stati bloccati. Esattamente questo accadde alla fine di gennaio per i voli dalla Cina, eppure il coronavirus è entrato di prepotenza nel nostro Paese da ogni dove, seguendo strade alternative. Non certo per sua iniziativa.

Che cos’ha detto di sbagliato l’infermiere cremonese? “Non sta scritto da nessuna parte che non possa ricominciare a farsi vivo”. Nulla che possa essere oggettivamente smentito.

La stessa Gismondo sull’eventualità dello scoppio di nuovi focolai in autunno, ha recentemente dichiarato: «Certamente ci saranno ancora focolai e saranno più di adesso. Ma noi, a differenza di quanto è accaduto a marzo, non verremo colti di sorpresa».

Che il virus ci abbia giocato un brutto scherzo, per di più in pieno clima carnevalesco, è sicuro. Sulla sorpresa avrei delle riserve. Quando si viene colti di sorpresa significa che quello che è accaduto non era prevedibile. Il Covid-19 non era previsto, certamente, ma le falle del nostro sistema sanitario hanno messo in luce la poca disponibilità di chi ci governa, e ci ha governato, a prevenire o almeno a gestire situazioni di emergenza. Da noi si preferisce curare piuttosto che prevenire – nonostante il motto “prevenire è meglio che curare” – ma quando si ha di fronte un nemico invisibile che non può essere affrontato con armi certe (una cura sicura ancora non c’è e il vaccino chissà quando verrà prodotto e con quali costi), allora emerge non solo la difficoltà di curare ma anche, a volte, l’impossibilità di farlo per mancanza di uomini e mezzi.

Le conseguenze dei tagli alla Sanità – come del resto quelli alla scuola – sono di fronte agli occhi di tutti. Questa è una certezza.

Ma forse c’è un’altra verità da non sottovalutare: la mancanza di responsabilità da parte di chi, contro ogni evidenza scientifica, fa finta che tutto andrà bene, che nessun pericolo è imminente e che, nella peggiore delle ipotesi, l’esperienza ci salverà. Così vediamo la noncuranza di quelli che si accalcano nelle strade della movida, nelle spiagge perché di sacrifici ne abbiamo fatti tanti durante il lockdown e abbiamo bisogno di ossigenarci (anche i malati di Covid19 avrebbero avuto bisogno di maschere di ossigeno che non c’erano…), di quelli che non indossano la mascherina anche se dovrebbero, tanto non serve, e che non rispettano la distanza di sicurezza. Li abbiamo di fronte agli occhi, ogni giorno, quando siamo al supermercato o facciamo la fila alla Posta e ci stanno appiccicati addosso. Nei luoghi aperti non serve, così io che la indosso sempre proteggo chi mi incrocia sul marciapiede standomi a pochi centimetri mentre io non sono affatto protetta.

Cosa abbiamo imparato dalle interminabili settimane di segregazione? A che cosa è servito quel sacrificio? Sicuramente ad arginare il fenomeno e a rendere, per quanto possibile, meno grave la situazione. Se allentiamo le difese, in nome della vita da vivere che è un diritto sacrosanto specialmente dopo la reclusione, tutto potrebbe ricominciare da capo.

Non voglio essere catastrofista e in verità cerco di guardare al futuro con ottimismo. Forse quello che mi manca è la fiducia nel genere umano che, una volta passata la tempesta, si dà alla pazza gioia infischiandosene del senso civico che dovrebbe essere lo strumento migliore per vivere la collettività con equilibrio e mirando al bene comune. Perché le cose capitano, oggi a me domani a te, ma se collaboriamo forse ce la caviamo meglio entrambi.

Questa è l’unica verità che conosco.

[immagine Gismondo da questo sito; immagine Alini da questo sito]

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POSSO ANCHE DIRE «NO!»

Non so se qualcuno di voi ha letto il libro Puoi anche dire «no!». L’assertività al femminile, scritto da Beatrice Bauer, Gabriella Bagnato e Mariarosa Ventura (Dalai editore, 2012). Ad ogni modo, tratta l’assertività al femminile, ovvero quella capacità di esprimere le proprie idee in modo aperto, onesto e diretto, imparando a farlo cercando di essere ascoltati pur nel rispetto del vostro interlocutore. Ovviamente ciò vale anche per gli uomini ma le donne, si sa, cercano sempre dei compromessi, gli strumenti e i modi per non ferire gli altri facendo anche cose che non condividono (il classico detto “far buon viso a cattivo gioco”) oppure tentando di far valere le proprie ragioni senza troppa sicurezza e alla fine quasi convincendosi che no, le cose non stanno come le vediamo noi, forse hanno ragione gli altri.
Ciò, naturalmente vale anche per certi uomini, il mio discorso non vuole assolutamente sembrare sessista. Ma l’esperienza mi porta a considerare il fatto che per i maschi le cose sono davvero più semplici. Se poi hanno a che fare con donne determinate, quelle che non lasciano passare nulla, non perdonano, meditano vendetta e magari la mettono in pratica, allora i signori uomini depongono le armi e si arrendono in nome del “quieto vivere”. Quindi l’assertività al femminile è ciò che ci vuole non per dominare ma per arrivare ad un rapporto alla pari. E sto parlando di ogni ambito, da quello familiare a quello lavorativo, passando attraverso le reti di conoscenze e i legami di amicizia.

Perché è così difficile dire “no!”? Perché è così difficile dire “Signori miei, a me ‘sta cosa non va proprio giù!”?

Da bambina e da adolescente ero molto determinata. Ottenevo quasi sempre ciò che volevo adottando la furbizia: sapevo ciò che dovevo dire e come era conveniente mi comportassi per averla vinta. In altre parole: ammansivo.

Certo, non in tutte le situazioni la strategia funzionava. Diciamo che in famiglia e con gli amici sapevo fino a che punto potevo spingermi, mentre nelle situazioni che non potevo gestire la cosiddetta assertività andava a farsi benedire.

Faccio un esempio.

Da bambina ho studiato danza classica. Chi ne ha esperienza sa che la danza è “maestra di vita”, insegna il rigore e la disciplina, insegna a non accettare i propri limiti e difetti ma a cercare di superarli e di migliorarsi. Tutto ciò con grande fatica e a volte con una buona dose di umiliazioni.
Un giorno feci un bel ruzzolone giù dalle scale e il mio osso sacro ne risentì parecchio. Quel pomeriggio dovevo andare a lezione e, vive o morte, noi ballerine in erba dovevamo presentarci altrimenti la maestra, detta Crudelia Demon (non so se è chiaro il motivo del soprannome), sbraitava, naturalmente alla lezione successiva.
Mi presentai al suo cospetto dolorante e, come da prassi, feci un inchino. Spiegai, quindi, l’inconveniente e il motivo per cui quel pomeriggio non avrei potuto eseguire tutti gli esercizi. La risposta glaciale fu: «La prossima volta vedi di romperti la testa». Incassai il colpo e mi ritirai fra le lacrime, dopo aver fatto un alto inchino, pronta a eseguire, senza fiatare, i vari jeté e piqué cercando di mantenere il sorriso sulle labbra, come si conviene a una brava ballerina.
Cosa avrei dovuto fare? Forse replicare alla maestra “Brutta strega, vedi di rompertela tu quella testa vuota!”. Ma avevo avuto una buona educazione.

Crescendo ho imparato l’arte del compromesso. Tuttavia, ci sono state occasioni in cui, non potendo dire “no!”, mi sono dovuta adattare.

Altro esempio.


Insegnavo da una decina d’anni. Avendo due figli piccoli e la cattedra in montagna, per due anni consecutivi ero riuscita a ottenere l’assegnazione in una scuola cittadina. Quando con notevole ritardo (per motivi burocratici, non per causa mia) rispetto all’inizio dell’anno scolastico mi presentai alla dirigente, convinta di aver diritto alla continuità sulla cattedra dell’anno precedente, chiesi quali classi mi avrebbe assegnato, lei secca rispose: “Le darò gli avanzi”. Incassai il colpo e da quell’anno soffro di colon irritabile.
Non so se avrei ottenuto nulla ma in quella circostanza avrei dovuto rispondere: “Brutta strega, certi avanzi li farei volentieri mangiare a lei!”. Sempre a proposito della sindrome del colon irritabile…

Anche da adulta, quindi, in nome del famoso “quieto vivere” ho dovuto incassare i colpi senza protestare. In famiglia le dinamiche sono più gestibili ma quando si esce dalle pareti domestiche è molto più difficile dire “no!”.
Arrivata alla mia età ho capito che assertivi non si nasce, si diventa. E ci vuole molta pazienza nonché un buon allenamento. Magari all’inizio si pensa a quale avrebbe potuto essere il modo migliore per esprimere apertamente le idee, con educazione e rispetto, cercando di essere ascoltati. Diciamo che dopo aver messo in pratica “virtualmente” varie strategie, arriva il momento di passare dalla teoria alla pratica.

Da qualche tempo (un paio d’anni, per la precisione) ho iniziato a dire la mia anche sul lavoro. Non sempre sono stata ascoltata, intendiamoci, in democrazia la maggioranza vince, lo sappiamo, ma mi sembra almeno di aver smosso le acque. Cero, qualche muro si è alzato, qualche collega non mi saluta più, altri lo fanno a denti stretti e solo per educazione. Tuttavia, una piccola vittoria l’ho messa in tasca: ho detto “No! A me ‘sta cosa non va bene, farò come volete ma sappiate che non sono d’accordo.”. Una bella soddisfazione per una che ha spesso detto “sì” pensando “no”.

Ma il capolavoro dell’assertività l’ho messo in pratica quest’estate, in due diverse occasioni (che chiamerò “intoppi”) in qualche modo legate fra loro.

Primo intoppo.

Il 7 agosto mi scadeva la Carta d’Identità e avevo urgenza di rinnovarla perché con mio marito avevamo deciso di fare una breve vacanza in Croazia. Mi muovo verso fine giugno, vado sul sito del Comune per cercare gli orari degli sportelli e scopro che il rinnovo del documento si fa solo su prenotazione on line. Ok, clicco sul link e, amara sorpresa, scopro che il primo giorno libero è il 29 settembre. Mando mio marito all’Ufficio Anagrafe, lui spiega il problema e un usciere replica: “Si faccia il passaporto”.
Senza parole.
Non demordo. Scrivo al sindaco e, non ottenendo risposta, mi reco nel suo ufficio. Non c’è, è in ferie fino al 31 agosto. Chiedo di parlare con il vicesindaco, lo attendo (non mi sarei mossa da là nemmeno se fosse arrivato a mezzanotte!) e lui, gentilissimo, comprende il problema e mi mette in contatto con l’assessore ai Servizi Demografici con cui parlo al telefono. L’assessore, gentilissimo, mi spiega che per le urgenze c’è una prassi ma è meglio rivolgersi alla dirigente dei Servizi Demografici la quale mi informa che posso ottenere la Carta d’Identità solo presentando una prenotazione (albergo, treno o aereo) con destinazione una località oltreconfine.
Nel frattempo avevo contattato la struttura in cui avevamo soggiornato lo scorso anno e, fortunatamente, nel primo pomeriggio del giorno in cui avevo parlato con la dirigente dell’Anagrafe mi risponde una gentilissima ragazza che sa bene l’italiano e mi manda un preventivo. Con il documento in mano mi presento allo sportello e in 10 minuti ottengo l’agognato documento. Senza l’urgenza avrei dovuto attendere il 9 ottobre perché nel frattempo altri avevano prenotato.

Secondo intoppo.

Come ho detto, mio marito ed io abbiamo deciso di ritornare nello stesso albergo dello scorso anno perché ci eravamo trovati bene, la camera era ampia e dotata di ogni comfort. Non avevamo, però, fatto i conti con il fatto che quell’hotel fa parte di un grande gruppo assieme ad altre 6 strutture. Io ero, comunque, tranquilla perché nelle numerose e-mail scambiate con l’addetta alle prenotazioni mi ero più volte sincerata che la camera (nel frattempo ne aveva trovata un’altra con balcone, su mia richiesta) si trovasse nello stesso hotel dello scorso anno.
Arriviamo a destinazione e, con grande sorpresa, veniamo deviati verso una specie di dependance, limitrofa rispetto al “nostro” albergo, e accompagnati in una camera molto più piccola, trascurata (anche sporca!), con un bagno fatiscente e senza alcuna possibilità di trovare collocazione per le valigie vuote. Praticamente eravamo accampati.
Rinuncio a comunicare con la reception perché nessuno parla italiano e io quando sono agitata non riesco a esprimermi agevolmente in inglese. Non trovo proprio le parole… nel frattempo le avevo perse anche in italiano.
Afflitta da una cervicalgia che non mi dà tregua, passo una notte insonne durante la quale scrivo una e-mail alla ragazza che mi aveva contattata per la prenotazione e do un aut aut: o mi trovano un’altra sistemazione dignitosa oppure partiamo l’indomani stesso pagando solo la notte trascorsa.
Al mattino, quando scendiamo per la colazione, alla reception sanno già tutto. Si profondono in mille scuse, ci chiedono di attendere (offrono pure un caffè, noi decliniamo anche perché avremmo più bisogno di una camomilla, almeno io…) perché gli hotel del gruppo sono pieni ma garantiscono che qualcosa si trova. Dopo nemmeno 5 minuti veniamo accompagnati in un hotel vicino, molto più lussuoso, e ci viene mostrata una suite dotata di tutti i comfort: salotto con megaschermo tv, divano, tavolo da gioco con poltroncine, tavolino da lettura con poltrone giganti, camera con letto kingsize, tanto grande che io e mio marito ci perdevamo di vista, due armadi a muro, un bagno con vasca più grande di quello di casa mia, due balconcini (uno era il trionfo dei glicini e l’oasi delle api ma vabbè…) arredati con tavoli e sedie in ferro battuto.
Rimango senza parole, l’unica cosa frase che mi esce dalla bocca è “The same prize?”, “Of course!” è la risposta. E non basta: veniamo informati che il direttore, per scusarsi, è lieto di offrirci un pranzo, quando vogliamo e senza limiti di portate. Avrei preferito un massaggio gratis (uno degli hotel aveva la spa) ma vabbè…


Ripensando ai due intoppi, ho adesso molto chiaro il motivo per cui mi sono comportata così nella seconda situazione.
Avevo fatto tanto per ottenere la Carta d’Identità valida per l’espatrio, avevo contattato personalmente l’hotel dell’anno scorso, senza passare attraverso le piattaforme di prenotazione on line, convinta di poter ottenere un “trattamento di favore” in quanto cliente (in effetti nel preventivo era già stato calcolato uno sconto), non meritavo proprio di essere trattata così. Se lo scorso anno fossimo capitati in quella camera (intendo la prima, ovviamente), probabilmente non avremmo protestato ma in quell’hotel non ci avrebbero più rivisti.

Da non trascurare il fatto che avevo “carburato” un bel po’ nell’affrontare il primo intoppo. Non dico che per cambiare ci vuole poco, sarei falsa. Ci vuole tantissimo impegno, convinzione e un bel po’ di “carburante” che metta in moto l’assertività. E non è detto che funzioni sempre: anche l’automobile non va avanti in eterno senza benzina. Ogni tanto il pieno lo si deve pur fare.

[immagine animata ballerina da questo sito; immagine Cameron Diaz-prof da questo sito; immagine documenti da questo sito; immagine Hotel da questo sito; le immagini con scritte sono state realizzate con quozio.com]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: IL SOGNO DI “DONNA LUPITA”


Anche questa settimana una buona notizia che conferma quanto sia attuale il detto “non è mai troppo tardi”.

Donna Lupita è una signora messicana che, dopo aver dedicato la vita al duro lavoro nei campi, ha pensato di recuperare ciò che le era stato vietato in gioventù: imparare a leggere e scrivere. In meno di quattro anni ha recuperato tutte le elementari e le medie, frequentando corsi di istruzione per adulti. Non contenta, ha deciso di iscriversi in un istituto superiore perché il suo sogno è quello di diventare maestra. Ma non esclude di continuare gli studi all’università.

Non ci sarebbe nulla di speciale se la signora in questione non avesse… 96 anni! I capelli grigi tradiscono la sua età, la pelle è rovinata dal duro lavoro nei campi di grano e di fagioli o al mercato dove vendeva i polli. Guadalupe Palacios – questo il suo vero nome- da pochi giorni siede tra i banchi della scuola superiore di Tuxtla Gutierrez. L’obiettivo è finire le superiori a 100 anni, iscriversi all’università e diventare «chissà, un giorno» maestra d’asilo.

Per ora afferma di non poter frequentare le lezioni con regolarità, per impegni familiari seri. Nell’aula scolastica che l’accoglie è circondata da compagni che hanno 80 anni meno di lei e sicuramente avranno molto da imparare da questa tenace e arzilla nonnina.

[Fonte del post e immagine Corriere.it]

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DI UN ANNO SCOLASTICO


Domani ci saranno gli scrutini integrativi per il recupero dei Debiti Formativi. Nel mio liceo si “saldano” a luglio per far passare in pace – almeno si spera – il resto dell’estate agli allievi, peccato però che di fatto le ferie dei docenti (e non dico “vacanze” perché quelle spettano agli studenti!) non possano iniziare dal 1 luglio come dovrebbero. Poi ci sono anche i professori impegnati negli esami di maturità e ne avranno fino a metà mese. Con buona pace di chi, alla fine delle lezioni, inesorabilmente tuona con la solita litania degli “insegnanti che hanno tre mesi di vacanza”.

Vero è che dal 14 giugno, giorno in cui sono finite le lezioni, non ho passato tutti i giorni a scuola. Ma il nostro lavoro va al di là delle 18 ore di lezione e, specialmente alla fine dell’anno scolastico, ci sono delle incombenze, perlopiù burocratiche, che impegnano molte ore anche se lasciano la libertà di scegliere quando svolgerle. Questo è il punto: se non ti fai vedere a scuola tutti i giorni e se svolgi questo “lavoro sommerso” a casa, magari di notte, tu per gli altri – quelli che la scuola l’hanno solo frequentata da studenti e non si fanno sfuggire l’occasione di pontificare – sei “in vacanza”. Se poi qualche ora si passa all’interno dell’edificio scolastico per riunioni, scrutini, sorveglianza agli esami, con il termometro che spesso arriva a 27°C, che sarà mai! Specialmente se il resto del tempo te lo puoi godere facendo ciò che ti pare e piace, percependo un regolare stipendio che ti viene accreditato sul conto corrente bancario ogni 23 del mese… pure quando sei in “vacanza”!

Non è così che funziona. Sono stanca di ripeterlo e sono soprattutto esausta dopo un anno scolastico che, più il tempo passa, più pesante diventa. E non solo perché si invecchia, anche se l’età media dei docenti supera i 50 anni ed è normale che si senta anche il peso degli anni.

Io capisco che ci sono anche quelli che possono davvero sentirsi in vacanza e non arrivano nemmeno tanto stremati a giugno. Non voglio puntare il dito contro nessuno ma davvero ci sono docenti che hanno un lavoro più “leggero” e che certamente non devono correggere 1000 compiti di italiano o latino, che richiedono molta attenzione e un dispendio di tempo notevole poiché non sono test a crocette che si correggono in un’ora, come faccio io.

Diciamo, poi, che ciascuno ha anche dei problemi personali da affrontare che possono rendere molto pesante il lavoro a casa, proprio perché non si può disporre delle ore che rimangono una volta finite le lezioni, che devono invece essere dedicate o a figli piccoli o a genitori anziani. Mettiamoci pure i problemi di salute che, dato l’aumento dell’età della pensione, non mancano di certo. Se penso che quand’ero agli inizi della carriera alcuni colleghi – soprattutto colleghe – andavano in pensione, a 40 anni con 16 di servizio e 4 di riscatto universitario, mi viene una rabbia soprattutto pensando che noi lavoriamo per pagare le loro pensioni che sono di tutto rispetto. Mentre a noi resteranno le briciole e anche la cosiddetta “buonuscita”, regolarmente accantonata, ci verrà data a rate due anni dopo il ritiro effettivo dal lavoro. Quando avremo 67 anni, se basta.

Ecco, posso dire che quello che ha reso oltremodo pesante quest’anno scolastico che mi sto finalmente lasciando alle spalle, è il malumore. Perché davvero non c’è rispetto per il nostro lavoro, perché tutti son pronti a dire la loro sminuendo non solo la nostra professione ma anche l’efficacia stessa di quel che facciamo. “La scuola che boccia è una scuola perdente!”, quante volte l’abbiamo sentito? Ed è perdente perché gli insegnanti sono incapaci, sono dei mangia-pane-a-tradimento nell’accezione più pura del detto popolare: “uomo disutile e buono solo a mangiare” (Antonini,1770, Tommaseo, 1867, Rigutini,1937). Insomma, dovremmo essere più bravi per non lasciare nessuno indietro. E che dire, allora, del contributo che gli studenti danno? Che dire del loro reale impegno per raggiungere gli obiettivi? Che dire delle famiglie, sempre pronte a difendere i pargoli, puntando il dito contro i docenti che non capiscono, non giustificano, non motivano, non incentivano…

A questo punto voglio chiarire che personalmente non mi sono trovata in situazioni a tal punto sgradevoli, anzi, ho profonda stima dei miei studenti che ho aiutato, premiando l’impegno, e sollecitato a studiare di più per ottenere migliori risultati confidando nelle loro potenzialità. Ho sempre buoni rapporti con i genitori e molti di loro mi ringraziano per quello che faccio. Però ciò non basta a togliermi di dosso quel malumore che aleggia su tutta l’istituzione scolastica, indipendentemente dall’ordine e grado di scuola, dalle regioni d’Italia, dalle città o periferie.

La scuola è malata, forse. Ma non c’è nessuno al suo capezzale ad assisterla. Non c’è un ministro – dico uno o una… e ne sono passati tanti sotto i miei occhi nei 34 anni d’insegnamento… – che trovi davvero una cura. Ma è malata la scuola, non i docenti, non i dirigenti, non gli studenti.

Prendiamo ad esempio la cosiddetta #buonascuola. A dispetto del nome, è stata ed è una pessima riforma, anzi, non merita nemmeno l’appellativo di “riforma” perché non ha riformato nulla ma ha peggiorato molto di quello che prima nella scuola funzionava. Non voglio entrare nei particolari (d’altronde pubblico questo post sul mio blog principale e non su laprofonline, proprio perché vuole essere uno sfogo personale e non un post tecnico), ma prendiamo ad esempio i finanziamenti alla scuola.

Molti equiparano la scuola a un’azienda. Allora mi dicano quale impresa può sopravvivere senza fondi… noi non produciamo ricchezze che poi possiamo reinvestire, abbiamo solo bisogno di soldi per offrire un servizio decente. Ma lo Stato latita da questo punto di vista e non fatevi ingannare dai vari ministri che si sono vantati e si vantano di destinare alla scuola italiana sempre più fondi. Il problema è che questi soldi non bastano, sono come una goccia d’acqua nell’oceano, ma questo nessuno lo capisce.
Quindi, le scuole come sopravvivono? Con i contributi “volontari” delle famiglie. “Se sono volontari, nulla è dovuto!”, tuonano ogni anno le varie associazioni dei consumatori. Ma ignorano che una parte del contributo è dovuta per le “spese vive” (libretto personale per le giustificazioni, materiale vario che i docenti distribuiscono tramite le fotocopie, l’utilizzo dei laboratori, i servizi più disparati destinati agli studenti, le attività extracurricolari… sono solo degli esempi) e che spesso nemmeno la modesta somma dovuta viene versata.

Rendiamoci conto che in alcune scuole non vengono nemmeno sostituiti i docenti assenti con personale supplente perché non ci sono soldi. E anche quei fortunati supplenti che ottengono un incarico annuale, aspettano mesi prima di ricevere lo stipendio. Vi pare un’azienda che funziona questo tipo di scuola?

Vogliamo una scuola vivace, interessante, stimolante, accogliente, inclusiva e chi più ne ha più ne metta. Giustissimo, per carità, ma con quali soldi? Ora c’è il PON (Programma Operativo Nazionale) che include progetti pluriennali che ogni scuola, se vuole, può proporre e, se i progetti vengono considerati validi, allora arrivano tanti bei soldini elargiti dalla UE. Se…

Per partecipare al PON, però, ci vogliono i progetti, bisogna stabilire quanti e quali siano necessari ma soprattutto meritevoli d’attenzione da parte del Ministero e quanti e quali possano essere davvero accattivanti per gli studenti, si devono compilare pagine elettroniche infinite (ormai si fa tutto on line ma “la mente che crea” non è così veloce…), inviare il tutto entro i termini e stare attenti che le scadenze non sfuggano, incrociando le dita in attesa del responso finale che però arriva mesi dopo. Diciamo che c’è pure il tempo di dimenticarsi del PON.

Fin qui tutto bene, a parte il tempo speso per assolvere a tutte le questioni elencate (io ne ho speso parecchio, per dire, e tutto in orario extrascolastico però a scuola, così almeno mi si vedeva al lavoro!). Ma quando penso che l’obiettivo – inutile nasconderlo – del MIUR è quello di destinare meno soldi alle scuole perché tanto c’è il PON, ecco che il malumore aumenta.

A tutto ciò si aggiungono i problemi personali, come dicevo all’inizio. Io ho dovuto affrontare la rovinosa caduta di mia mamma con conseguente frattura del femore, nonché i problemi di salute di mio papà che sto ancora affrontando. E anche la mia salute non è proprio eccellente: verso la fine delle lezioni sono finita al Pronto Soccorso con i sintomi dell’infarto… tutto a posto, ha detto il medico che mi ha assistito nell’emergenza, ma “fossi in lei farei dei controlli ulteriori”. E così, di controllo in controllo, passerà tutta l’estate e il mio malumore, e anche la mia ansia, non può che peggiorare.

Ecco in estrema sintesi come mi sento. Ho sempre dato tanto al lavoro, spesso sottraendo tempo alla famiglia, quando i bambini erano piccoli e avevano più bisogno di me. Ho visto convivenze e matrimoni naufragare per questo motivo, perché a volte anche chi vive accanto a noi non capisce. “Ma chi te la fa fare per quei due soldi?”, chiedono. Io non ho mai pensato allo stipendio, perché amo il mio lavoro e ci metto passione in tutto quel che faccio. Ma non ci posso rimettere la salute ed è questo pensiero che attualmente mi turba.

Le colleghe che sono andate in pensione prima della malefica Legge Fornero alla mia età avrebbero avuto 2 o 3 anni davanti. Io ne ho 10 se va bene, ma probabilmente saranno 11. Posso dire che sono di malumore, che mi sento sfruttata (ho iniziato a insegnare prima ancora di laurearmi!), che non tollero questa ingiustizia, questo protrarsi degli anni in cattedra che mi pare sempre più una condanna ai lavori forzati? Posso dire che non vedo roseo il mio futuro, sotto nessun punto di vista?

Sono solo stressata e vedo tutto nero? Può darsi, anzi, lo spero. Magari a settembre rileggerò questo post e sorriderò. Ma molto probabilmente il prossimo luglio ne scriverò uno molto simile perché ho poche speranze che le cose cambino.

AUGURO A TUTTI UNA

Nel frattempo mi trovate QUI.

RICREAZIONE

Fumare-spinelli
Sono un’insegnante di Lettere e per me le parole hanno un significato ben preciso. L’etimologia, inoltre, aiuta a comprendere meglio ciò che un termine “vuol dire”. Non è un caso se si utilizza il verbo “volere”: non siamo noi a dover piegare una parola alla nostra volontà, facendo in modo che un termine significhi “altro” rispetto alla sua etimologia. Tutt’al più, si può dare a una parola una connotazione diversa, a seconda del contesto, ma non si deve stravolgerne il significato.

Fatta questa premessa, la parola su cui vorrei soffermarmi oggi è “ricreazione”. Il sostantivo, stando all’etimologia, ha la stessa radice del verbo “creare” con l’aggiunta del prefisso iterativo “ri”. Il verbo latino recreare (re+creare) significava qualcosa di simile a “ristorare fisicamente e moralmente”.

Trasferita nell’ambito scolastico per indicare il cosiddetto “intervallo” tra le ore di lezione, “ricreazione” ha il significato di “pausa dallo studio” (ma si può interpretare, più genericamente, anche come “pausa dal lavoro”): durante la ricreazione, dunque, lo studente si ricrea, si “ristora fisicamente e moralmente”, nel senso che si sgranchisce le gambe (con una passeggiata su e giù per il corridoio o in giardino, se c’è) dopo un lungo periodo passato seduto al banco, si rifocilla mangiando qualcosa e si “rigenera”, distraendo per un po’ la mente dalle fatiche di una mattinata scolastica.
Poi c’è anche qualcuno che durante la ricreazione ripassa per un’interrogazione o esegue frettolosamente dei compiti non svolti. Non si ricrea, ma sono fatti suoi.

Poi c’è anche chi trova sinonimi poco appropriati e molto fantasiosi, cercando comunque di dare un senso alle parole. Ricordo un mio allievo di 30 anni fa (insegnavo alle medie) che, arrivato in ritardo in classe dopo l’intervallo, alla mia richiesta di spiegazioni, rispose candidamente: “Sono andato a riprodurmi”. Lascio immaginare lo sgomento provato, facilmente intuibile dalla mia faccia, al ché il ragazzino si premurò a spiegare: “Ho fatto ricreazione, no? Ricrearsi non è sinonimo di riprodursi?”.
Lezione fuori programma sui sinonimi.

Dicevo, dunque, che la parola “ricreazione” ha un suo significato e, anche se trasferita in un contesto diverso rispetto a quello scolastico in cui è maggiormente utilizzata, non può essere stravolta nel suo significato originario.

Perché mi sono prodigata in questa lezioncina sul lessico italiano, di cui forse non avevate bisogno? Lo spiego subito.

C’è una proposta di Legge che sta per approdare in Parlamento, concernente la legalizzazione della cannabis. Non mi dilungo sulla questione e vi invito a leggere questo articolo.

I cannabinoidi sono definiti “droghe leggere” (perlopiù hashish e marijuana) e per questo, erroneamente, si pensa che non facciano male rispetto alle cosiddette droghe pesanti (cocaina, crack, ecstasy…). La legalizzazione, secondo i promotori del DDL, sarebbe un modo per combattere la criminalità organizzata (ma quel tipo di criminalità dello spaccio di cannabinoidi si fa un baffo!) e per tener lontani i più giovani dagli ambienti malavitosi dediti allo spaccio (che con la legge sarebbe comunque vietato… ciò vuol dire che, con ogni probabilità continuerebbe ad esistere).

Ora, io non entro nel merito della questione “legale” ma vorrei soffermarmi a riflettere sui danni che le cosiddette droghe leggere causano, in particolar modo sui più giovani.

Parto dalla dichiarazione fatta dal ministro della Salute Lorenzin in questa intervista per il Corriere. Da madre, fa sapere il ministro (è donna ma mi rifiuto di usare il femminile “ministra” che trovo orrendo!), non approva la legalizzazione della cannabis perché troppi ragazzini sono abituali consumatori e la legge, che comunque porrebbe il divieto di vendita della droga ai minorenni, non cambierebbe nulla per loro dato che dovrebbero comunque continuare a rifornirsi illegalmente.

Da titolare del dicastero della Salute, Beatrice Lorenzin, si dichiara contraria perché le droghe, anche se leggere, fanno male e creano dipendenza. Se il suo ruolo le impone di salvaguardare la salute della popolazione, mi sembra coerente.

Io appoggio in toto la posizione del ministro. Purtroppo, però, avendo espresso questo parere su Twitter, sono stata sommersa da tweet in risposta, da parte di sostenitori della legalizzazione dei cannabinoidi, insultata, trattata come una demente e, soprattutto, derisa anche nella mia veste di educatrice. Sì, perché secondo questo branco di drogati – non saprei in quale altro modo definirli – avrei sparato un sacco di cazzate portando la mia esperienza di docente che si occupa anche di Ed. alla Salute e che ha avuto, in passato, esperienze con ragazzini fumatori abituali di hashish e, di conseguenza, ha avuto contatti con il Sert (Servizi per le Tossicodipendenze) della città in cui vive.

In buona sintesi, ho detto che la cannabis fa male, anche quando si tratta di utilizzo non abituale (una canna, per dire, equivale a 20 sigarette fumate in colpo solo), comporta seri problemi al sistema neurologico, specie nei più giovani, e danni permanenti. Non solo, i ragazzini consumatori abituali di cannabis, diventano aggressivi, sono soggetti a sbalzi di umore, hanno seri problemi a concentrarsi e per questo spessissimo vanno male a scuola.
I minorenni, poi, sono inviati al Sert (che non si occupa solo di dipendenze gravi e gravissime ma di tutte le dipendenze, anche da alcol e fumo!) per fare un percorso di riabilitazione, anche con le proprie famiglie, le quali possono partecipare ai gruppi di autoaiuto. Tutto ciò non può essere coercitivo, ovviamente, ma è un dato di fatto che se il Sert si occupa anche di fumatori abituali di canne è perché pure marijuana e hashish provocano dipendenza. Non solo, molte volte per curiosità questi ragazzini provano anche altre droghe (acidi, crack, ectasy) decisamente più pesanti, aggravando la loro dipendenza.

Questa è la situazione, ma sembra che dicendo ciò io abbia straparlato. In fondo, una canna non ha mai fatto male a nessuno, no? Chi è che non ha mai provato a fumare uno spinello? Quante volte l’abbiamo sentito dire?

Ora, io fumo da quand’ero ragazzina e per questo mi batto tre volte il petto recitando il mea culpa. Ma mai, lo giuro, ho fumato marijuana o simili. Ne avrei avuto la possibilità, ma non l’ho fatto.
A 13 anni, quando frequentavo la terza media, giravo per la città in compagnia della sorella di un mio compagno di classe, più “vecchia” di me di qualche anno, tappezzando i muri con degli adesivi che portavano la scritta “No drugs” (anche quelli con su scritto “No aborto” ma questa è un’altra storia..). Ne capivo poco, non fumavo nemmeno le sigarette allora ma avevo già le idee chiare. Non ero stata plagiata, per essere chiari, e sono sempre stata coerente con questa mia forse inconsapevole, a quei tempi, presa di posizione.

A questo punto, molti dei lettori (quelli che hanno avuto la pazienza di arrivare fino a qui… mi scuso se il post si sta allungando e vi posso garantire che sto stringendo al massimo) si staranno chiedendo che cosa c’entri il titolo e la lunga premessa sulla parola “ricreazione”. Ora ve lo dico.

Nella proposta di legge, oltre alla legalizzazione delle sostanze di cui sopra, attraverso la libera vendita (su cui ovviamente, con il monopolio, lo Stato ci guadagnerebbe!), si rende possibile la detenzione di una piccola quantità di cannabis (5 grammi all’esterno innalzabili a 15 grammi da tenere in casa) e sarà lecito il possesso di quelle quantità per uso ricreativo, senza dover richiedere alcuna autorizzazione o comunicazione.

Ecco, è proprio il riferimento all’aggettivo “ricreativo” che non comprendo: secondo quanto esposto sopra, non trovo nulla che nell’utilizzo della cannabis possa portare a “ristorare fisicamente e moralmente” chi si fa le canne. Anzi, è vero il contrario.

[immagine da questo sito]

AGGIORNAMENTO DEL POST – 25 AGOSTO 2016

Come previsto, è arrivato un commento (che ho deciso di non pubblicare in quanto l’e-mail di riferimento è risultata fasulla) in cui mi si offende e tratta da ignorante e incompetente. Il lettore, il quale asserisce di essere capitato qui per caso (figuratevi se ci credo!), mi accusa di “parlare di cose che non conosco” e di aver scritto “un articolo che si fonda su presupposti privi di veridicità”. Naturalmente, il tutto senza fornire uno straccio di prova del contrario.
Il “Lettore per caso” ha poi dichiarato l’intenzione di inserire “subito il blog nella lista di blocco dei domini che google non mi dovrà mai più mostrare in nessuna ricerca”. Ma sai quanto mi interessa!

STAMATTINA MI AVETE COLTO DI SORPRESA…

PREMESSA
Oggi avrei voluto scrivere un altro post. Avrei dovuto, forse, trattare un altro argomento. Ma dopo i fatti di Parigi non ci sono più parole, solo lacrime. Per questo ho deciso di pubblicare un post diverso. Lo dedico ad una ex quinta che ha lasciato un’impronta indelebile nel mio cuore. Idealmente si riallaccia a quest’altro post. L’ho riletto, non senza commuovermi. Ho riletto anche tutti i commenti, compreso quello della sedicente collega Mariarosa De Cecco, che fortunatamente non conosco, e ho pensato: “Cara collega, non sai cosa ti perdi ad essere una che considera “puerile” affezionarsi a dei ragazzi”.
Ragazzi speciali, s’intende.

Stamattina pensavo che sarebbe stato difficile fare lezione.

Prime due ore in quinta. Sono grandi, hanno bisogno di sapere, capire, non si può far finta di nulla.

Che faccio? Entro in classe come niente fosse, propino la mia bella lezione sulla Ginestra di Leopardi (sì, lo so, sono indietro con il programma…), poi al suono della seconda campanella cambiamo testo e leggiamo il Somnium Scipionis di Cicerone.

Questo il programma per la mattinata. Ma non è una mattina qualunque.

Me ne accorgo quando arrivo a scuola. Facce serie in aula insegnanti.
Non c’è la connessione, come faremo a firmare sul registro elettronico?

129 morti, 352 feriti, il mondo in lacrime. Terrore, orrore, rabbia, orgoglio… ma la firma è più importante.

Cambio aria. Vado al bar e trovo quattro ex allievi. Al momento nemmeno li noto. Sono immersa nei miei pensieri, in quelle lezioni programmate che devono lasciar posto ad altro che, però, non si può spiegare così facilmente.
Mi scuso, sono distratta, sapete, sto invecchiando. Baci, abbracci, bevo il caffè, scappo perché sennò la sigaretta non riesco a fumarla prima che suoni la campanella – eh sì, non ho perso il vizio -, scusate, tante belle cose… così dicono le vecchie carampane come me.

Mentre sto fuori, penso che sono stati carini a venire a scuola, a quell’ora, per salutarmi. Consideriamo che nemmeno gli ex allievi che ancora girano per i corridoi mi salutano. Non tutti, ma molti mi ignorano.
Poi ricomincio a pensare alle due ore in quinta. Cosa dirò?

Arrivo al primo piano. L’aula è una di quelle in cui si entra da dietro. Per raggiungere la cattedra devo percorrerla tutta trascinandomi dietro l’inseparabile trolley con i libri, facendo gincana fra gli zaini.

Che strano, non vedo zaini per terra. Sembra tutto molto ordinato. Un silenzio surreale.
Alzo lo sguardo e noto che tutti hanno ancora i cappotti addosso. Non lo fanno mai, si muore dal caldo in aula.

Guardo meglio e vedo delle facce diverse, una quinta che non è quella di quest’anno. Sono gli ex allievi usciti un po’ di tempo fa. Nel 2009? No, no. Nel 2011…. no, prof, nel 2012. Cavolo, che figura!

Insomma, hanno fatto sloggiare i miei attuali allievi, hanno preso ordinatamente posto nei loro banchi, mi hanno aspettato in silenzio…. cosa che, tra l’altro, non facevano allora.

Arrivano gli studenti sloggiati, portano delle sedie recuperate chissà dove. Rivendicano il possesso dei loro banchi ma non si può mica lasciare in piedi i nuovi arrivati…

Mi ritrovo l’aula piena. Facce ben conosciute, vista la quotidiana frequentazione, altre che non ho dimenticato. Faccio fatica a riconoscere qualcuno. Gabriele ci rimane male. Anche Giulia. Vabbè, perdo colpi, ve l’ho detto. Qualche nome mi sfugge e sarei davvero in imbarazzo a dover fare l’appello di quella quinta del triennio 2009-2012.

Nell’ordine penso:
1. Saremo 35, più o meno, sforiamo i parametri di sicurezza.
2. Se lo viene a sapere la preside mi fa un cazziatone.
3. Non posso mandarli via, sono stati così carini a farmi questa sorpresa
4. Annuncio alla classe un’ora di orientamento post-diploma.
5. Salvati capra e cavoli (non voglio offendere nessuno, è solo un modo di dire!)

Parigi e i suoi morti si allontanano.

Parliamo di progetti, realizzati o in via di realizzazione.

Parliamo di incidenti di percorso (cambio di facoltà) e di ripieghi (un test di ammissione andato male e conseguente cambio di indirizzo di studi) che poi si rivelano scelte vincenti.
Parliamo di chi corre e di chi va un po’ lento. Ognuno ha i suoi tempi, ecchecaspita!
Parliamo di passioni, scelte fatte con la testa ma anche con il cuore.
Parliamo di giovani adulti che solo tre anni fa ho lasciato ragazzi, con poche idee e pure quelle a volte confuse, che nel tempo hanno rivelato una maturità ben maggiore del voto conseguito all’esame di Stato.

Passa un’ora. Per una volta non ho fatto lezione IO. I protagonisti sono stati LORO. Usciti dal liceo nel 2012, rientrati nella vecchia aula portando con sé sogni e speranze.

Una lezione diversa da quella che avevo immaginato. L’Isis semina morte ma noi abbiamo parlato di vita.
Perché, dopo tutto, la vita è bella.

GRAZIE RAGAZZI! Siete stati fantastici. ❤

ZERO IN CONDOTTA A BRIGA, RAPPER DI AMICI

Mattia-Briga
Amici è una delle poche trasmissioni delle reti Mediaset che seguo. Quest’anno, a dire il vero, non l’ho seguita con costanza e comunque sono solita guardare solo il serale. Ad ogni modo, anche se so che qualche lettore arriccerà il naso, devo confessare che Amici mi piace. Negli ultimi anni ancora di più, per l’esattezza da quando, almeno nel serale, hanno tappato la bocca ai cosiddetti insegnanti che spesso si accanivano contro i ragazzi della squadra avversaria solo nel tentativo di mettere in risalto i pregi dei propri pupilli.

Devo ammettere che i talentuosi del ballo e del canto che si contendono la vittoria sono sempre più bravi e preparati. La trasmissione perde certamente in spontaneità ma mette in luce le capacità dei giovani che ben sanno quanto il palcoscenico di Amici possa essere un’occasione unica per sfondare nel mondo dello spettacolo.

Ma la fama, si sa, è effimera. Bisogna innanzitutto meritarsela e mantenerla facendo emergere le proprio doti ma anche il carattere. E a volte nemmeno il successo ottenuto nell’immediatezza è garanzia di fama duratura. Lo sanno bene alcuni degli ex allievi di Amici: Marco Carta, ad esempio, che dopo la vittoria di Sanremo non mi pare abbia concluso granché; Valerio Scanu che, a mo’ di equilibrista, cerca di rimanere in piedi sulla ribalta che sembra più sdrucciolevole che mai, passando da un talent (Tale e quale show) a un reality (L’isola dei famosi) e accontentandosi dei fedelissimi fan (tra i quali le famose zie) su cui sa di poter contare sempre.

Non a caso ho citato proprio Marco e Valerio, personaggi alquanto arroganti, trasgressivi e pieni di sé (almeno ai tempi della loro partecipazione ad Amici), per arrivare al topic di questo post.

Nell’ultima edizione del popolare talent show dell’inossidabile Maria, si è distinto in particolare un concorrente, poi arrivato – fortunatamente – secondo: Mattia Briga. Più che le virtù canore, che non mi pare siano così eccelse (ma è anche vero che il rap non è la mia passione), ha messo in luce un pessimo carattere, grazie anche ai continui battibecchi avuti con Loredana Bertè, che partecipava come giudice.

Ammetto che mi sono stupita della cultura in ambito musicale e della saggezza della cantante. Molto meno stupore ha destato in me il suo carattere sanguigno, la spontaneità condita con un pizzico di turpiloquio – che male non fa – con cui ha tenuto testa al giovane Briga che ha manifestato, nel confronto con la Bertè, tutta la sua arroganza, la sua poca educazione (una signora va trattata con rispetto, anche se t’insulta) e la pienezza di sé.

Eppure pare che il rapper abbia uno stuolo di fan. Non so se grazie alla sua musica – se così si può definire – o al fatto che è un belloccio, con sguardo penetrante e aria di sfida che evidentemente fa colpo sulle ragazzine. Fatto sta che, qualche giorno fa, mentre era intento a firmare autografi, naturalmente sulle copertine del cd che è ai vertici delle classifiche, ha dimostrato che oltre al talento bisogna sfoggiare anche un po’ di diplomazia. Sempre che si voglia mantenere in futuro la celebrità acquisita in poche puntate del serale di Amici.

Sarà pure una scuola, quella di Maria De Filippi, ma è evidente che le lezioni dei classici sono trascurate. Altrimenti Briga avrebbe imparato la lezione dal Sommo Poeta Dante Alighieri che, nell’XI canto del Purgatorio – a proposito, guarda un po’, dei superbi – riferendosi alla gloria terrena scrive:

Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato
.

Il mondan romore, la fama, è un alito di vento e come tale ha vita breve. A meno che chi l’ha ottenuta, per qualche merito o soltanto per simpatia, non sappia gestirla al meglio. E come si fa a mantenere il successo? Trattando bene i fan, per prima cosa.

Mattia Briga non ha studiato il canto del Purgatorio, o se l’ha studiato a scuola, quella “normale”, ha dimenticato la lezione.

Ma veniamo ai fatti. Una ragazzina, che per vendicarsi del trattamento avuto da parte dell’adorato – ormai ex – rapper ha postato sul profilo Facebook anche un filmato, racconta che dopo otto ore di fila per riuscire ad avvicinarsi al suo idolo, non solo non è riuscita ad ottenere l’autografo, perché non recava con sé il cd, irreperibile a suo dire, ma è anche stata allontanata a malo modo da Briga e dalle guardie che cercavano di trattenere l’esultanza delle orde di fan.

Così Federica Fusco, la fan delusa, racconta l’accaduto: L’uomo [la guardia, NdR] gli spiega che ero priva di cd e lui, con una faccia schifata, gli dice di “No, non posso” e mi fa andare avanti. Provo ancora a chiedere una foto ma la guardia, sotto suo ordine, mi spinge e mi fa uscire.

Non so se dopo quanto esternato dalla giovane, Mattia si sia concesso un sano momento di riflessione. Certamente Federica gli ha impartito una lezione che non è inclusa nei programmi della scuola di Maria. Il testo pubblicato sulla pagina Fb si conclude con queste parole:

Caro Briga, con tutti i soldi che stai guadagnando comprati un po’ di umiltà.

Eh no, cara Federica, l’umiltà non si compra. Non c’è mastercard che tenga.

[foto e fonte della notizia da questo sito]

I GIOVANI E LA MAFIA: VIAGGIO IN SICILIA SULLE ORME DELLA LEGALITÀ

no mafia
La mafia, assieme alla Shoah, è uno di quegli argomenti che, nei programmi scolastici, hanno uno spazio limitato ad una sola giornata: il 23 maggio (Giornata della legalità) l’uno, il 27 gennaio (Giornata della Memoria) l’altro. Per il resto dell’anno, eventi come la strage di Capaci – avvenuta il 23 maggio 1992 – e la liberazione dei prigionieri nel campo di sterminio di Auschwitz – avvenuta il 27 gennaio 1945 – possono essere tranquillamente ignorati.

Forse dell’Olocausto, se non altro perché occupa un capitolo nei libri di Storia, qualcosa si dice. Ma della mafia, quando si parla a scuola? Quasi mai, almeno da noi al Nord.

Eppure ci sono scuole, sparse in tutta la penisola, in cui si cerca di avvicinare i giovani a queste realtà scomode. L’educazione civica impone che nelle aule si parli di diritti negati e di legalità. Difficile, però, farlo in tutte le classi e rivolgersi a bambini e ragazzi di ogni età.

Nelle scuole superiori, tuttavia, questi argomenti devono trovare spazio.

Nel mio liceo, ad esempio, ogni anno un gruppo di allievi, provenienti da tutte le classi quarte e quinte, volontariamente aderiscono alla proposta di un viaggio-pellegrinaggio ad Auschwitz. Ne tornano arricchiti a livello culturale ed emotivo, anche se quest’ultimo spesso coincide con uno choc che rende difficile la ripresa della vita di tutti i giorni, allegra e spensierata, immersa nelle comodità di ogni tipo.

Della mafia è molto più difficile parlare, considerando anche che noi stessi docenti dobbiamo ancora imparare molto, prima di salire in cattedra. E cosa c’è di meglio di un viaggio d’istruzione un po’ speciale? Qualcosa che eviti di fare entrare la mafia in classe, come un qualsiasi altro argomento di studio, ma faccia in modo di portare i ragazzi sui luoghi in cui questa piaga ha operato e, ahimè, continua ad operare.

Una delle mie classi quest’anno ha aderito al progetto culturale che da molti anni l’associazione Addiopizzo porta avanti nelle scuole siciliane e no. Attorno ai volontari di questa associazione, che timidamente hanno mosso i primi passi in questa direzione qualche anno fa, è sorta una vera e propria agenzia turistica che propone alle scuole un tour tra Palermo e le località d’interesse culturale più o meno vicine.
Dall’inizio alla fine di questo viaggio gli studenti sono accompagnati dai volontari di Addiopizzo che tengono le loro “lezioni” sui luoghi ancora segnati dall’efferatezza dei crimini mafiosi.

Al loro ritorno, dai resoconti degli allievi ho potuto capire quanto questa esperienza li abbia arricchiti.
Hanno raccontato di essere stati a Capaci e in via D’Amelio, a Brancaccio sulle orme di Padre Pino Puglisi, nei luoghi che Peppino Impastato ha più volte calpestato con i suoi cento e più passi. Ma hanno potuto anche vedere le bellezze del sito archeologico di Agrigento e, proprio nei pressi, varcare l’uscio di quella che fu la casa dello scrittore Pirandello. Hanno assaggiato le prelibatezze siciliane, soprattutto i dolci tipici, ma, per quanto riguarda il salato, non hanno apprezzato particolarmente l’utilizzo generoso dell’aglio (immagino che i più preoccupati fossero i compagni di stanza e le coppie di innamorati) e soprattutto una pasta con i ceci assaggiata – ma per lo più lasciata nel piatto – in un’azienda agricola sorta nei luoghi confiscati alla mafia.

Le foto ricordo li immortalano sulla spiaggia di Mondello, dove hanno cercato di catturare quanto più sole possibile per compensare la primavera piovosa tipica del Nord-Est, ma anche sulla collina di Capaci dove campeggia la scritta “NO MAFIA”.

Hanno imparato che la libertà va conquistata e non considerata semplicemente un diritto.
Hanno capito che la Storia non è solo quella che si studia sui manuali e che l’approccio che avviene attraverso l’anima e il corpo vale molto più di mille parole scritte.

Forse sono troppo giovani per comprendere una cosa così grande fino in fondo ma, come c’insegna Seneca, «ciò che il cuore conosce oggi, la testa comprenderà domani».

[immagine da questo sito]

MA VENERDÌ 17 NON ERA IERI?

venerdì17Non sono superstiziosa. Oddio, un pochino sì ma se c’è un numero che non mi spaventa è il 17.

Il 17 giugno di quasi 36 anni fa è iniziata la storia d’amore con mio marito, sicché non ho motivo per temere quel numero.

Venerdì, poi, è il giorno consacrato a Venere, la dea dell’amore. Perché mai dovrebbe portare sfiga?

L’origine di questa superstizione, come molte altre, risale a molto molto tempo fa. Già nell’Antica Grecia, i seguaci di Pitagora detestavano il 17 perché collocato fra due numeri perfetti, il 16 e il 18. Nell’Antico Testamento si legge che il giudizio universale iniziò il 17esimo giorno del secondo mese. Forse, però, l’origine di questa superstizione risale all’età medievale. Sulle tombe, i Romani scrivevano VIXI, ho vissuto, per decretare l’inesorabile termine della vita con la morte. Si pensa che durante il Medioevo, essendo l’analfabetismo molto diffuso, la scritta venisse confusa con XVII, il 17 secondo il sistema numerico romano.

Il venerdì, invece, è ritenuto un giorno sfortunato perché, nella tradizione cristiana, è il giorno della morte di Gesù Cristo.

Ma perché scrivo tutto questo oggi? Perché ieri, nonostante le superstizioni, tutto è filato liscio, mentre oggi …

Il sabato al lavoro è una giornata leggera: solo tre ore di lezione in due classi. Eppure mi è pesata così tanto, complice forse una settimana di lavoro intenso dovuto al fatto che giovedì c’era anche il ricevimento pomeridiano dei genitori, che sarebbe stata adatta all’altra data, quella di venerdì 17.

Per farla breve, mi sono arrabbiata con una classe la prima ora e ho continuato ad incazzarmi nell’altra classe la terza. Non è da me.

È un periodo particolare. A quasi sei mesi dalla mia rovinosa caduta sul marciapiede, non sono ancora guarita del tutto. Le mie settimane scorrono tra lezione al mattino, lavoro pomeridiano per la scuola (leggi: correzione compiti, soprattutto), fisioterapia, piscina ed esercizi quotidiani in casa. Non esco quasi più, per svago, intendo. Non ho il tempo di stare al pc e sto trascurando non solo i miei blog (di cui aggiorno regolarmente solo le pagine che servono ai miei studenti), ma anche i blog degli amici e questo mi dispiace moltissimo. Se c’è una cosa che ho imparato in tanti anni da blogger è che, se non ti fai sentire con regolarità, nessuno ti si fila più. Pazienza.

Posso aggiungere che, sempre in tema di rotture, da novembre in poi si sono rotti:

1. il mio computer (non conviene ripararlo e non ne ho ancora comprato uno nuovo)
2. la macchina del caffè (sostituita)
3. la mano di mio marito (guarito)
4. il dito del mio precedente fisioterapista (ora vado da un altro … il sesto!)
5. la lavastoviglie (sto ancora lavando tutto a mano ma fortunatamente a breve arriva quella nuova)
6. la lavatrice (aveva trent’anni ma non era il momento … già sostituita anche perché i panni a mano non li lavo!)

Senza contare che, ancora prima di rompermi la spalla, si era rotto il tablet nuovo di zecca. 😦

Ecco, credo che se oggi ho sbraitato un po’, possa essere più che comprensibile.

Buon sabato 18 a tutti. 🙂

[immagine da questo sito]

GLI ALUNNI CRESCONO, LE PROF INVECCHIANO…

prof-cattiva
Ieri in segreteria a scuola, mentre stavo incollando i fogli del verbale nel quadernone (essì, dobbiamo ancora incollare…), sento una delle impiegate che parla ad un ragazzo. Al momento penso che sia un allievo del liceo ma poi, captando alcuni frammenti di conversazione, capisco che si tratta di un tirocinante.

Per i non addetti ai lavori chiarisco che i tirocinanti sono ragazzi laureati che devono frequentare il TFA (Tirocinio Formativo Attivo) per poter aspirare a diventare insegnanti.
Lì per lì penso, senza staccare il viso dal quadernone dei verbali, che bisognerebbe fare un monumento a questi giovani armati di buona volontà. Mi sembra quasi impossibile che, dopo tutto quello che si sente dire sulla scuola e sulla professione di insegnante, ci siano ancora dei trentenni, o giù di lì, che hanno voglia di salire in cattedra.

Mentre sono immersa in questi pensieri e continuo il mio lavoro di incollatura, sento che l’impiegata, rivolta a qualcun altro – forse un collega – chiede: “Ma allora cosa gli devo dire?”. Capisco che si riferisce al giovanotto e replico, pur non essendo stata interpellata: “Che deve armarsi di tanto coraggio!”

Alzo gli occhi, lo guardo, abbozzo un sorriso e lui: “Salve prof!”. Rimango interdetta. Strabuzzo gli occhi, più che altro perché per fare il lavoro di concetto cui mi ero dedicata con grande zelo, devo usare gli occhiali da presbite (e che vi vuole, per incollare qualche pagina! direte. Ho bisogno degli occhiali, che ci devo fare?) e quando alzo lo sguardo al di sopra del fusto (quello degli occhiali, non intendo il giovanotto), vedo tutto sfuocato.

Lui allora mi spiega che era stato un mio allievo in un altro liceo, più di dieci anni fa. Al momento non me lo ricordo ma, non appena mi dice nome e cognome, ecco che il suo viso mi torna familiare. Non è cambiato molto, in fondo. Quella classe me la ricordo bene: tutte femmine, due soli maschi. “No, prof – mi corregge – eravamo in quattro…”. Ok, vuol dire che voi due eravate più simpatici degli altri due.

Alla fine, quando realizzo che lui è lì in veste di aspirante docente, che fra qualche tempo poterebbe essere un mio collega, esclamo: “Oddio, come sono vecchia …”. Lui sorride ma non ha il coraggio di smentirmi. Eh, sì che sono vecchia, accidenti. Però poi ci rifletto su e aggiungo: “Ma se non hai fatto fatica a riconoscermi significa che almeno sono invecchiata bene”. 🙂