#CAPPUCCINODAY: PERCHÉ A TRIESTE VE LO SERVONO IN TAZZA PICCOLA?

capo in b

L’8 novembre in Italia si festeggia il #cappuccinoday, una bevanda calda che dal nome rimanda al colore del saio dei frati cappuccini. Sembra che l’inventore del cappuccino sia Marco d’Aviano, frate appartenente all’Ordine dei frati minori cappuccini, il quale sarebbe stato inviato a Vienna nel settembre 1683 da Papa Innocenzo XI per una missione diplomatica. Trovatosi in una caffetteria viennese, il frate, con l’intento di attenuare il gusto troppo forte del caffè, avrebbe aggiunto un po’ di latte. La nuova bevanda, inconsapevolmente da lui scoperta, avrebbe assunto il nome di kapuziner, che nella lingua tedesca significa appunto “cappuccino”.

Ci sono tuttavia altri racconti legati alla “scoperta” del cappuccino. Altre fonti attribuiscono l’invenzione a Franz Georg Kolchitzky il quale fu principale artefice della liberazione di Vienna dall’assedio ottomano. In cambio del suo aiuto, gli sarebbero stati offerti molti sacchi di caffè ma a Kolchitzky, come a tutti i viennesi, il caffè alla turca non piaceva perché troppo forte quindi vi aggiunse qualche goccia di latte.

Leggende a parte, in tutta Italia il cappuccino viene servito in tazza grande e il latte schiumato a volte viene cosparso di cacao. A Trieste, invece, tale bevanda viene servita nella stessa tazzina usata per il caffè espresso, mentre se il cliente vuole il cappuccino tradizionale deve chiedere un caffè latte.

La città giuliana è nota con l’etichetta di “capitale del caffè” grazie alle numerose industrie che trattano questo tipo di prodotto e grazie anche al suo porto che da oltre due secoli è la principale meta italiana per l’importazione dei chicchi. Inoltre, Trieste faceva parte dell’impero austro-ungarico quindi non ci deve stupire il fatto che la nuova bevanda da Vienna sia stata importata in città direttamente dall’Austria. Ciò tuttavia non spiega il motivo per cui il cappuccino a Trieste sia paragonabile al caffè macchiato servito nei bar al di là del ristretto confine cittadino. Pare quindi che non ci sia risposta alla domanda: “Perché a Trieste il cappuccino è servito in tazza piccola?”.

Se siete turisti e ordinate un cappuccino, probabilmente il cameriere vi chiederà “grande o piccolo?”, senza dubitare del fatto che siate foresti. Un triestino, infatti, chiede semplicemente un capo, con la variante assai diffusa di capo in b se lo vuole servito in un piccolo bicchiere. Naturalmente è possibile chiedere anche il nero in b e tutte le sue varianti che verranno servite in vetro.

Un’altra curiosità è relativa all’espresso: a Trieste si chiede un nero. Ma se vi trovate in Friuli e siete triestini, attenzione: l’ordine sarà evaso servendovi un… bicchiere di Merlot! Infatti, ordinando al bar un vino rosso si dice “un taj di neri”, il che alle 7 del mattino, per esempio, non è proprio il massimo. Specialmente se poi volete intingervi un cornetto (o croissant oppure briosche… anche qui i termini sono diversi a seconda del luogo in cui vi trovate).

Proprio per non smentire la fama di “capitale del caffé”, a Trieste ci sono innumerevoli varianti in cui viene somministrata la bevanda. Oltre al nero e al capo in b, potete chiedere un macchiato caldo o freddo (in questo caso vi serviranno un nero con a parte il latte freddo), un gocciato, un deca (decaffeinato) nero oppure capo, ma se volete un cappuccino in tazza grande dovete chiedere un caffè latte.

E ora non mi resta altro da fare che augurare a tutti un buon cappuccino!

[fonti: ansa.it, triesteprima.it, discovertrieste.it, sangiustocaffè.com, bora.la. L’immagine è tratta da questo sito]]

ECCO URSUS, LA GRU PIU’ FAMOSA DELLA TV… GRAZIE A #LAPORTAROSSA


Ha chiuso in bellezza, con il 14.1% di share (3.471.000 spettatori), l’ultima puntata della fiction targata Rai2 “La Porta Rossa”. Ideata da Carlo Lucarelli per la regia di Carmine Elia, la fiction ha visto come protagonisti gli attori Lino Guanciale, nelle vesti di Leonardo Cagliostro, poliziotto-fantasma, Gabriella Pession che ha interpretato Anna Mayer, la moglie, nonché vedova, di Cagliostro e Valentina Romani, nei panni di una ragazza sedicenne con il potere di vedere e interagire con i morti. La trama aveva tutti ingredienti per tenere incollati davanti alla tv milioni di telespettatori, con una suspance per niente mitigata dall’assurda, se vogliamo, figura del protagonista che, da morto, riesce a risolvere i casi più difficili della sua carriera, compresa la sua morte.

Ma la vera protagonista di questa fiction, per cui è già in programma il seguito (si sa che i fantasmi non muoiono mai e a Guanciale il ruolo è assicurato!), è stata la splendida città di Trieste che, grazie alla Film Commission Friuli-Venezia Giulia, sempre più rappresenta il set ideale per cinema e tv.

Ho letto sui social e sui quotidiani commenti entusiastici sulla città giuliana: il mare, l’altopiano carsico, gli splendidi edifici, in molti dei quali ancora si respira un’atmosfera austro-ungarica, le luci che si specchiano sulle acque del golfo, i locali caratteristici come il Caffè San Marco… insomma, un set davvero strabiliante.
Ma la protagonista assoluta della fiction, nonché la più ammirata dai telespettatori e dai fan de #laportarossa, è stata senza ombra di dubbio Ursus. Lo stesso Guanciale, in un tweet, ha lasciato presagire un seguito alla fiction salutando Ursus con un arrivederci.

Per chi, come me, ha vissuto e vive a Trieste, Ursus è un’istituzione, quasi alla pari con il “melone” (l’acroterio simbolo di Trieste insieme all’alabarda) che un tempo sovrastava il campanile di San Giusto, la cattedrale cittadina. Ma cos’è Ursus?


Ursus è la gru galleggiante che ha oltre cent’anni, essendo stata varata il 29 gennaio del 1914, e che attualmente è ormeggiata a una banchina del Porto Vecchio. Dal luglio del 2011 è monumento nazionale e questo status giuridico la protegge dallo smantellamento, anche se necessita in modo evidente di un restauro, aggredita com’è da salsedine e ruggine.

Per 80 anni Ursus ebbe il primato della gru galleggiante più potente del Mediterraneo. Con i suoi quasi 80 metri di altezza e una stazza maggiore di 1000 tonnellate, fu progettata per costruire a Trieste le nuove corazzate della Marina imperiale austroungarica che avrebbero dovuto superare per dislocamento e calibro delle artiglierie la Viribus Unitis e le altre tre unità della stessa classe. Allo scoppio della prima guerra mondiale, le risorse economiche destinate alle nuove potenti corazzate furono azzerate e, di conseguenza, anche Ursus rimase un progetto irrealizzato.
Si dovette aspettare il 1930 per riprendere i lavori: infatti per costruire il nuovo transatlantico, il Conte di Savoia, la presenza di una potentissima gru galleggiante sarebbe stata indispensabile. L’Ursus fu completato nel dicembre del 1931 e iniziò subito a fornire un supporto prezioso all’attività del San Marco.

Ursus è decisamente la gru dei record: ad esempio l’installazione dei tre giganteschi giroscopi Sperry, ciascuno dalla massa di 150 tonnellate, che avevano il compito di smorzare il rollio del Conte di Savoia, fu possibile grazie al supporto di Ursus che sollevò i giroscopi a 40 metri d’altezza per favorire il loro inserimento nello scafo del transatlantico. In seguito Ursus partecipò alla costruzione della Vittorio Veneto e della Roma, le sfortunate corazzate della Marina italiana impiegate durante la seconda guerra mondiale. Infine il pontone fu di supporto alla realizzazione dell’ultimo transatlantico del nostro Paese, la Raffaello, che costituì anche l’ultima commissione prestigiosa per il cantiere San Marco di Trieste.

Protagonista di un’insolita navigazione in solitaria, la gru galleggiante fu sospinta al largo, nonostante la notevole stazza e l’ancoraggio, dalla bora che, incurante del passato glorioso di Ursus, la trattò come fosse una barchetta di carta. Era l’inizio di marzo del 2011 e il vento fortissimo portò la gru a più di tre miglia dalla costa. Fu recuperata, mentre andava alla deriva, dai rimorchiatori che l’hanno raggiunta, affrontando un mare spumeggiante e impossibile. (ne ho parlato QUI)

Insomma, una brutta avventura fortunatamente finita bene per Ursus. Mai, tuttavia, avrebbe pensato di diventare in qualche modo la protagonista di una serie televisiva. Ormai in tutta Italia è diventata una specie di star. Speriamo solo che il restauro annunciato e mai realizzato si faccia in tempi brevi, magari con il contributo della Film Commission FVG.

[immagine Ursus da questo sito; alcuni spunti per il post sono presi da questo articolo de Il Piccolo]

RITORNO ALLA NORMALITA’ (O QUASI)

assistenza-anziani
Un’altra assenza, lunga. Un altro post per spiegarne il motivo. Ma, al di là di tutto ciò che è successo nell’ultimo mese, la verità è che la voglia di scrivere – se non il tempo – è sempre poca. Troppo poca. Farò un’eccezione per raccontare un’esperienza che, nel male, ha avuto i suoi lati positivi.

C’eravamo lasciati con il post in cui auguravo a tutti un buon Natale. Ed è stato buono, in fondo.

Programmavo le mie lunghe vacanze. Troppo lunghe per molti, quelli che non sanno la fatica che si fa con il lavoro a casa e a scuola; mai abbastanza per chi, come me, si sente sempre più “spremuta” da un lavoro che si ama ma è sempre più stancante. Gli anni passano, se ne sente il peso. A casa e a scuola.

Gli anni passano per tutti. Le mamme invecchiano e, a volte, fanno passi azzardati. A volte inciampano, perché corrono come se facessero a gara con il tempo. Ma lui è più veloce di noi, non c’è nulla da fare.

C’era un tappeto nella cucina di mia mamma. Più adatto a un bagno che a una cucina. “Mamma, quel tappeto lo faccio volare giù dalla finestra!”, ho detto più volte, inciampandomi. Gliene ho comprato uno adatto, di quelli antiscivolo, niente di speciale. Un tappetino normale. “Brutto”, dice lei, e lo ripone in un angolo del ripostiglio. Là l’ho trovato, arrotolato per bene. Dopo che mia mamma il 29 dicembre, giorno del suo compleanno (non dico gli anni altrimenti mi lincia… questo è un luogo pubblico, in fondo), è inciampata nel tappeto che più le piaceva. Poco adatto a una cucina ma perfetto per rompersi il femore.

Ripenso al mese che è appena trascorso. Corri in ospedale (a 60 km di distanza), mettendo quattro cose in fretta in un borsone, senza avere idea di cosa fosse successo davvero, senza pensare che quelle quattro cose non sarebbero bastate per il periodo che mi aspettava. Lungo. Tre settimane intense di corse all’ospedale, divisa tra l’assistenza a mia mamma e quella agli altri vecchi di casa: papà e zia 88enne (lei non si offende se rivelo l’età).

Fortunatamente ero ancora in vacanza, quindi ho chiesto “solo” due settimane di aspettativa. Il tempo di organizzarmi e di capire cosa fosse meglio fare. Portare mamma e papà a casa mia? In fondo abbiamo un’ottima struttura per la riabilitazione dietro casa. E la zia? Rispedirla a casa sua (abita a Milano), come fosse un pacco? Non se ne parla. Mamma vuole aspettare di vedere come andranno le cose al suo ritorno. Ha preso un impegno, ha deciso di prendersi cura di lei, non torna indietro.

Io a casa ci sono tornata una settimana fa, eccezion fatta per il giorno dell’Epifania, perché avevo bisogno del pc per inserire i voti sul registro (oltre a far da badante ho dovuto correggere un pacco e mezzo di compiti… l’altra metà li avevo coretti prima di Natale) e di mettere nel borsone altre quattro cose. E poi rassettare la casa, lavare e stirare, per non abbandonare del tutto mio marito. Una giornata lunghissima, ore sfruttare al secondo, senza aver l’impressione di perdere tempo. Ogni tanto capita anche questo, capita soprattutto quando la tua vita è in un certo senso sconvolta. Insomma, capita quando ci si sente lontani dal solito trantran, perché forse a volte è la noia che fa sembrare le giornate troppo corte. Più siamo annoiati e più perdiamo il tempo. L’ho capito nelle tre settimane da badante.

Da una settimana sono tornata eppure non riesco ancora del tutto a riprendere quel trantran. Ero a Trieste dai miei e avevo la testa qui, pensavo ai miei allievi che erano senza supplente, ai progetti che dovevo seguire e che sono andati avanti senza di me. E’ proprio vero che tutti sono utili e nessuno è indispensabile.

Ora sono a casa e la mia testa si fa più volte al giorno quei 60 km. Ripenso a quanto sono stata indispensabile davvero in questo momento straordinario. Ripenso alle parole di mia madre: “Non avrei mai pensato che facessi tanto per noi”. Eh già, perché una figlia di solito abbandona i genitori anziani al loro destino…

Non sono stata una figlia modello, è vero. L’unica cosa di cui i miei genitori erano davvero orgogliosi è stato il mio successo negli studi. Ora credo di aver avuto il modo di riscattarmi.

Tornata in classe, ho detto ai miei allievi che questa esperienza è stata faticosa ma nello stesso tempo mi ha insegnato molto. Ad esempio, che i genitori fanno tanto per noi, ci allevano, ci educano, ci sostengono, ci fanno studiare, contribuiscono alla nostra realizzazione. C’è chi lo fa meglio e chi peggio. Ma alla fine tutti, prima o poi, presentano il conto. Arriva il giorno in cui dobbiamo rendere, almeno in parte, ciò che abbiamo ottenuto.

Io sono stata orgogliosa di farlo e continuerò a fare ciò che posso, nel miglior modo possibile, affinché mamma e papà possano dire di avere una brava figlia. Perché in fondo ciò che conta è questo.

E ora che le cose a Trieste sono sistemate (ho trovato una persona fidata che mi ha sostituita), cerco di tornare faticosamente alla normalità. Quei 60 km che, giovanissima sposa, avevo frapposto tra me e mamma ora mi pesano molto. Volevo andare il più possibile lontano da lei. Ora, però, mi sento troppo lontana.

[immagine da questo sito]

10 FEBBRAIO 2015: IL GIORNO DEL RICORDO ATTRAVERSO LE PAROLE DI MARISA MADIERI

Marisa_MadieriMarisa Madieri (Fiume 1938 – Trieste 1996), insegnante e scrittrice, moglie del germanista triestino Claudio Magris, raccolse nel suo libro Verde acqua, alcune toccanti pagine di diario – che riguardano gli anni tra 1981 e 1984 – in cui, ormai donna adulta, madre e moglie, rievoca la sua infanzia e adolescenza, segnata dall’esperienza dell’esodo da Fiume, città dov’era nata e in cui aveva vissuto fino a undici anni.

Così descrive il periodo in cui il destino degli Italiani dell’Istria fu segnato dall’esperienza amara dell’esodo:

Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu richiesta l’opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optò per l’Italia e conobbe un anno di emarginazione e persecuzioni. Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsione dell’esodo. Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per aver nascosto due valigie di un perseguitato politico che aveva tentato di espatriare clandestinamente e, catturato, aveva fatto il suo nome. Con la sua consueta ingenuità, il papà si fece cogliere con le mani nel sacco.
Quei mesi di vita sospesa, non più casa e non ancora del tutto altrove, furono da me vissuti con un profondo senso di irrealtà, non con particolare sofferenza. […] E’ così che ricordo la mia Fiume – le sue rive ampie, il santuario di Tersatto in collina, il teatro Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida – una città di familiarità e distacco. Tuttavia quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lontananza, hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici. Per molti anni dopo l’esodo non ho più rivisto la mia città e l’ho quasi dimenticata, ma quando ho avuto l’occasione di passare per Fiume […] ho provato la chiara sensazione di ritornare nella mia verità. […]
Nell’estate del 1949, ottenuto il visto per l’espatrio e dopo una breve visita a papà in carcere, partimmo da Fiume – mia madre, mia sorella, io e la nonna Madieri, già molto anziana e malata di cancro.

silos trieste

Arrivate a Trieste, le donne trovarono rifugio, assieme a molte altre famiglie di profughi, nel Silos (oggi trasformato in un parcheggio), un enorme edificio a tre piani, costruito durante l’impero asburgico come deposito di granaglie. Lo spazio era suddiviso in tanti box in cui venivano ospitati i nuclei familiari. “Entrare nel Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio”, scrive Madieri.

Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti. […] Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale. […] Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino. […] Era orribile spogliarsi la sera e coricarsi tra le lenzuola che sembravano di marmo e ancor più uscire al mattino dal tepore del letto per affrontare l’aria intorno, subito ostile, e l’acqua gelida dei lavandini. Soffrivo di raffreddori e geloni. Quando studiavo e dovevo restare a lungo ferma sui libri, la mamma mi riscaldava dell’acqua, riempiva un catino e lo poneva sotto il tavolo in modo ch’io potessi immergervi i piedi doloranti. […] Imparai ben presto ad estraniarmi completamente da tutto ciò che mi succedeva intorno e a pensare solo ai miei libri.
(M. Madieri, Verde acqua, Einaudi, 1987, passim)

La Madieri riuscì, nonostante tutto, a frequentare il liceo classico Dante Alighieri di Trieste e a laurearsi in Lingue e letterature straniere a Firenze, dove conobbe lo scrittore Claudio Magris, che sposò e da cui ebbe due figli, Francesco e Paolo. Morì a soli 58 anni nel 1996.

Nelle pagine conclusive di Verde acqua, scrive:

Fuori, la notte chiara, frusciante di stelle, custodisce volti e parole che non saprò mai dire. Molta parte della mia storia affonda in questa dolce oscurità, simile forse a quella, grande e buona, che mi accoglierà un giorno nella pace in cui già dimorano mio padre e mia madre.
Ma non provo tristezza, solo gratitudine. Se sono ritornata ad Itaca, se nei lunghi silenzi della mia vita hanno echeggiato per qualche istante le note di un valzer che i pianeti e le stelle, così lucenti stasera, danzano nell’odissea degli spazi, sento di dover ringraziare una folla di persone, anche dimenticate, che, amandomi, o semplicemente standomi accanto con la loro fraterna presenza, non solo mi hanno aiutato a vivere ma, forse, sono la mia vita stessa. (M. Maideri, Verde acqua, 27 novembre 1984)

La storia di Marisa Madieri è solo una delle tante che raccontano l’esodo dei giuliano dalmati.
Ma nel Giorno del Ricordo non possiamo dimenticare l’eccidio che si compì nelle foibe.

Diario di viaggio: Treviso, Verona, Trieste

Il bello del web è che, quando hai la fortuna di incontrare di persona un’amica di blog, scopri che è esattamente come te l’aspettavi, come se la conoscessi da sempre. A me è successo con Veronica – Scrutatrice, ragazza dolce e simpatica, oltreché bellissima.
Non perdetevi la cronaca di viaggio … l’ultima tappa è stata la mia città natale, Trieste, dove ho avuto il piacere di farle da Cicerone. Quello che lei non ha detto, lo dico io: è stato un tour piacevole ma molto faticoso. La mia città è tutta un sali-scendi e finché si scende, tutto bene, ma quando si sale … son dolori! Ne sanno qualcosa i miei polpacci e i miei glutei. Unica nota positiva di cotanta fatica: ho smaltito uno dei due chili messi su a Pasqua. C’è qualcuno che vuole farsi un giro dalle mie parti nelle prossime settimane? Devo smaltire il chilo che è rimasto. 🙂
Buona lettura!

Into The Wild

Primo giorno, domenica.

Dopo la tradizionale colazione di Pasqua (nel senso che è tradizione farla, non che la mia colazione sia stata la tradizionale colazione salata), montiamo in macchina con destinazione Veneto. Il viaggio di andata è quello che ogni automobilista desidererebbe: strade ampie, corsie vuote, niente camion e persino le stazioni di sosta deserte (ci credo, tutti “zampe sotto il tavolo” la domenica di Pasqua…)! Ci viene in mente il verso di una famosa canzone: “autostrade deserte, ai confini del mare…” Ma non ci stiamo dirigendo verso il mare, anzi. La nostra base durante questi quattro giorni sarà Preganziol, una piccola frazione di Treviso, cittadina che scopriremo essere davvero deliziosa. Arrivati a destinazione, DSC_2sistemiamo le valigie, facciamo un giro di ricognizione nell’appartamento (accompagnato dalle rituali foto ricordo della sistemazione!) ed usciamo per visitare il centro di Treviso.
La provincia veneta ha la particolarità di essere…

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LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: MILANO, TRENTO E TRIESTE LE CITTÀ PIÙ ROMANTICHE D’ITALIA

donna-che-leggeOggi è San Valentino e la buona notizia non poteva che essere dedicata all’amore, anzi, al romanticismo. Qual è la città più romantica d’Italia, secondo voi? Io direi Venezia, seguita da Verona, la città dei fidanzati più famosi della letteratura nonché i più sfortunati. Ma una sosta sotto il balcone di Giulietta fa dimenticare anche il triste epilogo.

Questa notizia, però, non riguarda i luoghi preferiti dagli innamorati per il loro aspetto. Qui si parla di letture e, rimanendo in tema, ovviamente di romanzi rosa. E in questo caso, il primato della mia città natale, Trieste, mi piace un po’ meno. Capirete perché.

Amazon.it in base alla comparazione delle vendite pro capite dello scorso anno dei romanzi rosa, includendo sia gli eBook Kindle che i libri stampati, in 48 città con più di 100.000 abitanti, ha elaborato la top ten delle città più romantiche d’Italia. Eccola:

1. Milano
2. Trento
3. Trieste
4. Bolzano
5. Monza
6. Bergamo
7. Genova
8. Novara
9. Verona
10. Cagliari

La città di Giulietta e Romeo si salva per un soffio ma, come si può vedere, a Venezia il rosa non è di moda (la città lagunare si piazza al 28° posto), forse perché si preferisce vivere l’amore fra calli e canali piuttosto che sognarlo attraverso i libri.

La capitale è fuori dalla top ten per poco, piazzandosi all’11° posto, mentre un’altra città che spesso i fidanzati scelgono come meta per un week-end romantico, Firenze, è solo 22esima.

Fin qui tutto bene. La felicità di appartenere, almeno con il cuore, alla terza città più romantica dello stivale scema moltissimo quando si scorre la classifica dei romanzi rosa più venduti. Eccola:

1. Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James
2. Cinquanta sfumature di nero di E. L. James
3. Io che amo solo te di Luca Bianchini
4. Cinquanta sfumature di rosso di E. L. James
5. Non lasciarmi andare di Jessica Sorensen
6. Ti prego lasciati odiare di Anna Premoli
7. Innamorarsi a Notting Hill di Ali McNamara
8. Qualcosa di meraviglioso di Judith McNaught
9. Léonie di Sveva Casati Modignani
10. L’uragano di un batter d’ali di Sara Tessa

Nei primi quattro posti vediamo i best seller di E. L. James. Ringrazio Luca Bianchini per essersi intromesso, anche se in modo del tutto inconsapevole, e per esprimere la mia immensa gratitudine nei suoi confronti prometto pubblicamente di leggere (non credo prima della prossima estate) il suo romanzo, che poi mi sembra si trovi già nella lista che compilo diligentemente leggendo le recensioni dei miei amici blogger divoralibri.

Insomma, accontentiamoci. Stiamo parlando di romanzi rosa, mica di pietre miliari della letteratura mondiale. In ogni caso, con i tempi che corrono e la scarsa attitudine alla lettura, possiamo anche ritenerci soddisfatti. Meglio rosa che nero, almeno secondo i miei gusti.

[fonte: Affaritaliani.it; nell’immagine: Charles Edward Perugini, “Donna che legge” da questo sito]

ALTRE BUONE NOTIZIE

Il crowdfunding anche in Italia di laurin42

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

GIORNO DEL RICORDO: “MAGAZZINO 18” DI SIMONE CRISTICCHI STASERA SU RAI 1

Cristicchi magazzino 18

Al Porto Vecchio di Trieste c’è un “luogo della memoria” particolarmente toccante. Racconta di una pagina dolorosissima della storia d’Italia, di una vicenda complessa e mai abbastanza conosciuta del nostro Novecento. Ed è ancor più straziante perché affida questa “memoria” non a un imponente monumento o a una documentazione impressionante, ma a tante piccole, umili testimonianze che appartengono alla quotidianità.
Una sedia, accatastata assieme a molte altre, porta un nome, una sigla, un numero e la scritta “Servizio Esodo”. Simile la catalogazione per un armadio, e poi materassi, letti, stoviglie, fotografie, poveri giocattoli, altri oggetti, altri numeri, altri nomi… Oggetti comuni che accompagnano lo scorrere di tante vite: uno scorrere improvvisamente interrotto dalla Storia, dall’esodo.
Con il trattato di pace del 1947 l’Italia perdette vasti territori dell’Istria e della fascia costiera, e quasi 350 mila persone scelsero – davanti a una situazione intricata e irta di lacerazioni – di lasciare le loro terre natali destinate ad essere jugoslave e proseguire la loro esistenza in Italia. Non è facile riuscire davvero a immaginare quale fosse il loro stato d’animo, con quale sofferenza intere famiglie impacchettarono tutte le loro poche cose e si lasciarono alle spalle le loro città, le case, le radici. Davanti a loro difficoltà, povertà, insicurezza, e spesso sospetto.

Simone Cristicchi è rimasto colpito da questa scarsamente frequentata pagina della nostra storia ed ha deciso di ripercorrerla in un testo che prende il titolo proprio da quel luogo nel Porto Vecchio di Trieste, dove gli esuli – senza casa e spesso prossimi ad affrontare lunghi periodi in campo profughi o estenuanti viaggi verso lontane mete nel mondo – lasciavano le loro proprietà, in attesa di poterne in futuro rientrare in possesso: il Magazzino 18. CONTINUA A LEGGERE >>>

Memoria e ricordo sono sinonimi? In parte sì ma hanno due giornate distinte dedicate. Forse “ricordo” ha un’importanza minore di “memoria”? No perché la nostra storia non ha un lato A e uno B come i vecchi 45 giri, specie se si tratta di pagine che hanno come protagonisti la sofferenza, le privazioni, il distacco, la violenza e la morte.

Il 10 febbraio è stata istituito, con la legge 30 marzo 2004 n. 92, il Giorno del Ricordo, per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Una pagina di storia per troppo ignorata, negata, coperta sotto il velo dell’omertà. Nessuno sapeva, nessuno voleva sapere. Ma le vittime ci sono state e sono molte.
Il numero dei corpi gettati nelle foibe non è stato mai individuato con precisione: c’è chi parla di 5000-10000, altri ne ipotizzano 150000 altri ancora 30000. Ma non sono i numeri a rendere meno dolorosa una tragedia né a sminuire un fatto di tale gravità.
E poi c’è l’esodo giuliano istriano e dalmata, su cui si sofferma nel suo spettacolo Simone Cristicchi. Recentemente in Toscana è stato fischiato perché c’è ancora chi non crede, c’è ancora chi sminuisce i fatti, come se ci fossero morti di serie A e quelli di serie B.
Secondo il Ministero degli Esteri le persone costrette a lasciare la propria terra e tutto le loro proprietà sono state fra i 250.000 circa (secondo i dati di una commissione presieduta da Amedeo Colella e pubblicati nel 1958) e i 270.000 stimati al termine dell’esodo.

Questa sera Rai 1 propone lo spettacolo di Cristicchi, che attualmente è in tournée, alle 23 e 50. Un orario che fa pensare a quanto poco sentito sia ancora un evento del genere. Ci sono fatti da prima serata e fatti che meritano la terza, dopo Bruno Vespa.

[immagine da questo sito]

VENT’ANNI FA A MOSTAR: UN RICORDO DI MARCO LUCHETTA, ALESSANDRO OTA E DARIO D’ANGELO

PREMESSA.
Avrei dovuto pubblicare questo articolo il 28 gennaio, purtroppo però non ho fatto in tempo. Vent’anni fa a Mostar infuriava la guerra dei Balcani, scoppiata all’indomani della dissoluzione dell’ex Jugoslavia e che vedeva contrapposte due nazioni, la Bosnia e l’Erzegovina, e tre gruppi etnici: serbi, croati e musulmani. Una guerra dimenticata, forse, ma che ha causato circa 80mila vittime, tra soldati e civili. Tra queste, anche un giornalista della Rai, Marco Luchetta, l’operatore Alessandro “Saša” Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo.
Non ho fatto in tempo a pubblicare questo post per l’anniversario, dicevo, perché non volevo fare un articolo di cronaca, non sono una giornalista. Volevo metterci il cuore, anche se ne è uscito un pezzo perlopiù informativo. Mi scuso in anticipo, specie con chi dovesse leggere questa pagina e ne sa più di me, per le inesattezze o per eventuali superficialità. Non potevo dilungarmi oltre, è evidente.
Questo mio post vuole ricordare quel tragico evento ma in particolare, senza nulla togliere alle altre vittime, la figura di Marco Luchetta che ho avuto il privilegio di conoscere. Una persona speciale che dedicava la sua vita all’adorata famiglia – la moglie Daniela, detta Dea, e i due figli Carolina e Andrea – e alla professione che aveva scelto, onorandola con l’impegno e lo spirito di sacrificio che lo distingueva.
Ricordo ancora Marco al mare, quando, libero dagli impegni professionali, non mancava mai di raggiungere i suoi cari, dedicandosi al gioco con i bambini, occasione che gli permetteva di far emergere quello spirito “fanciullino” che bene si coniugava con l’aspetto di eterno ragazzo, grazie anche alla frangia ribelle che amava portare sugli occhi.
Marco aveva 41 anni quando, quel 28 gennaio 1994, una granata pose termine alla sua breve vita, assieme ai suoi compagni di lavoro con cui condivideva un unico scopo: testimoniare gli orrori di una guerra di cui troppi, ora come allora, ignorano l’esistenza.

luchetta ota d'angelo

QUEL TRAGICO VENERDÌ
Marco, Saša e Dario, tutti dipendenti della sede Rai di Trieste, erano partiti dal capoluogo giuliano qualche giorno prima per recarsi a Mostar, città dell’Erzegovina che aveva dichiarato la propria indipendenza, in seguito allo scoppio della guerra.
Nel 1993, i croati bosniaci e i bosniaci musulmani cominciarono una lunga lotta per il controllo di Mostar. I croati lanciarono un’offensiva il 9 maggio durante la quale bombardarono senza tregua il quartiere musulmano, riducendolo in gran parte in rovina, comprese numerose moschee e case del periodo ottomano. Durante la guerra i croati crearono dei campi di concentramento per i musulmani e lo stesso fecero i musulmani per i croati.
Il conflitto nei Balcani aveva visto fin da subito Marco Luchetta come inviato Rai. La decisione di recarsi nella parte più calda della guerra, la città di Mostar appunto, fu presa per il desiderio di testimoniare le atrocità subite dalla popolazione, specialmente le donne, vittime di stupri, e i bambini. Non doveva essere un servizio come un altro, ma un vero e proprio reportage per il tg1 sui “bambini senza nome”, nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi.
Quel tragico venerdì 28 gennaio 1994 la troupe si trova in una situazione di emergenza e, raggiunta la parte est della città, in un quartiere musulmano assediato dai bombardamenti, il giornalista e i due operatori si fermano nei pressi di una cantina che funge da rifugio per decine di persone tra cui molti bambini. Proprio per salvare una di queste piccole vittime della guerra, vengono sorpresi dallo scoppio di una granata. I tre fanno scudo con il proprio corpo al piccolo Zlatko che li aveva seguiti all’esterno del rifugio. Dovevano prendere le attrezzature per le riprese e Marco stava per riaccompagnare all’interno il bambino quando la “palla di fuoco” – come dirà Zlatko – li ha centrati uccidendoli sul colpo.

luchetta figli
NON SONO MORTI INVANO
La scomparsa di Marco e dei due colleghi getta nella disperazione tre famiglie e tutti coloro che ne avevano apprezzate le doti professionali e umane.
Luchetta lasciò due figli ancora piccoli: Carolina aveva dieci anni e Andrea nove. Non so se questi piccoli orfani abbiano mai pensato quanto fosse ingiusto l’aver perso il papà a causa di un bambino sconosciuto che il genitore aveva voluto salvare. Non so nemmeno se abbiano mai considerato il loro papà un eroe. So per certo che Marco non avrebbe mai voluto essere considerato tale.
Perché la terribile perdita non sia avvenuta invano, la moglie di Marco, Daniela Schifani-Corfini, decide di far nascere una fondazione che renda indelebile il ricordo del marito e dei colleghi e possa aiutare i bambini vittime delle guerre. In breve tempo dopo la tragedia nasce la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo, cui si aggiunge il nome di Miran Hrovatin, l’operatore giuliano morto pochi mesi dopo assieme alla giornalista Ilaria Alpi, in un agguato a Mogadiscio.
Come si legge sul sito della Fondazione, la finalità è quella di supportare famiglie d’altri Paesi che, oltre al disagio di vivere o di aver vissuto recentemente guerra e/o guerriglia, hanno l’ulteriore sfortuna di avere un figlio affetto da gravi forme tumorali o che necessiti d’intervento chirurgico non fattibile in patria.
Il primo ad essere assistito dalla ONLUS appena nata fu proprio Zlatko, che allora aveva solo cinque anni. Quella maledetta granata gli aveva procurato, oltreché un comprensibile choc che gli impediva di dormire la notte senza avere incubi, un problema di udito. Dapprima fu ospitato a Trieste, assieme alla mamma ventiquattrenne, per essere curato presso l’ospedale infantile Burlo Garofalo, istituto di eccellenza non solo in regione ma a livello nazionale, e poi aiutato a raggiungere la Svezia, dove la sua famiglia poté ricongiungersi al padre che, in fuga, aveva raggiunto il Paese scandinavo.

logo fondazione luchetta

LA FONDAZIONE LUCHETTA OTA D’ANGELO E HROVATIN
In questi vent’anni la Fondazione è cresciuta molto grazie alla generosità dei cittadini e di vari enti pubblici e privati. Quotidianamente dei volontari provvedono al trasporto dei piccoli ospiti presso gli ospedali competenti per le cure necessarie, aiutando le loro famiglie nell’espletamento delle pratiche mediche, burocratiche e provvedendo a tutte le altre necessità.
All’inizio, e fino al 1998, la Fondazione è stata operativa nel ristretto spazio offerto dal primo appartamento di via Fabio Severo. Poi è nata la casa di prima accoglienza situata in via Valussi a Trieste; qui trovano posto negli anni decine di ospiti che trascorrono con i loro familiari periodi più o meno lunghi di degenza durante le cure nel vicino ospedale pediatrico.
Nel 2005 è stato possibile acquistare, da parte della Fondazione, un altro immobile, uno spazioso appartamento ubicato in via Rossetti. Pochi giorni fa, in occasione del ventesimo anniversario della morte di Marco, Saša e Dario, la Fondazione ha inaugurato a Trieste il suo terzo luogo di accoglienza: il nuovo centro di via Chiadino 7. Come rivela Daniela Luchetta, lo spazio è stato offerto gratuitamente da una famiglia che preferisce restare nell’anonimato. La struttura permetterà di ospitare una decina di persone in più.
daniela luchettaAttualmente la Fondazione, presieduta da Daniela Luchetta, ha una sede amministrativa, due case di accoglienza nel capoluogo giuliano, dieci appartamenti per nuclei familiari i cui bambini hanno bisogno di cure più protratte nel tempo, quattro autovetture per le quotidiane attività logistiche di supporto alle famiglie e ai pazienti.
Può inoltre contare sulla collaborazione di circa sessanta volontari che dedicano tempo e forze a questa piccola-grande comunità, dove convivono persone di etnia diversa, talvolta anche nemiche nel Paese da cui provengono, ma unite dalle stesse necessità e grate in ugual modo per tutto il sostegno e le amorevoli cure che ricevono. La fatica dei tanti volontari ha ottenuto, nel 2009, un riconoscimento: l’assegnazione del “Premio Barcola 2009” che il Presidente del Premio, dott. Alberto Cattaruzza, ha commentato con le seguenti motivazioni:

Sono quindi particolarmente onorato di annunciare il conferimento del Premio Barcola 16a edizione ai Volontari della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin per la loro opera inesausta a favore dei bimbi bisognosi di cure mediche e di supporto alle loro famiglie, opera che può costituire eccezionale vanto per la città di Trieste tutta.

ospiti fondazione luchetta
BAMBINI DA TUTTO IL MONDO
In due decenni la Fondazione ha ospitato centinaia di bambini e familiari da Africa, Asia, Sud America, Europa orientale e penisola balcanica. Paesi in cui era impossibile garantire cure adeguate per quei bimbi che a Trieste hanno ritrovato la speranza di superare la malattia. La percentuale di guarigione dei piccoli ospiti è molto alta ed è stimata intorno al 94%. «Oggi la Fondazione opera su due fronti – spiega la presidente Daniela Luchetta -: quello dei bambini che necessitano di cure, ospiti dei centri di via Valussi e via Rossetti, e quello dell’aiuto a famiglie in difficoltà, che si è aperto attraverso la convenzione stipulata col Comune e permette a oggi di ospitare sei nuclei familiari con bambini. Ma supportiamo anche famiglie che vivono altrove, e sono in difficoltà economica. Anche il Centro raccolta di via Valdirivo 21 (vi confluiscono vestiario e altri generi di aiuti), gestito esclusivamente da volontari, è diventato un riferimento prezioso».
Nel tempo la Fondazione ha moltiplicato il fronte dei suoi interventi cercando anche di sostenere ospedali pediatrici e orfanotrofi nelle aree del mondo che continuano a fare i conti con miseria e guerra.

UN PREMIO PER RICORDARE MARCO E I COLLEGHI
A dieci anni da quel triste 28 gennaio, nasce nel 2004 il Premio Giornalistico Internazionale “Marco Luchetta”, a ricordo dell’impegno dei quattro operatori dell’informazione, morti in guerra, di cui la gran pare dei connazionali ignora l’esistenza.
Proprio in memoria di tutte e quattro le vittime, il premio si articola in più sezioni: oltre a quella intitolata a Marco Luchetta riservata ai giornalisti professionisti della carta stampata e della televisione, c’è la sezione intitolata a Hrovatin per la fotografia, ad Ota per le immagini TV e a D’Angelo per la stampa estera. Vengono ogni anno attribuiti riconoscimenti ai migliori reportage televisivi e quelli riservati alla carta stampata.
Nell’anno d’inaugurazione si aggiudicò il premio principale proprio un amico-blogger, nonché giornalista della Rai, Pino Scaccia che in una corrispondenza per la rubrica Tv7 del Tg1 ha raccontato le condizioni in cui vivono, alla periferia di Nairobi, gli ultimi della terra, migliaia di ragazzi orfani vittime della fame, dell’aids e della droga, aiutati solo da alcuni missionari.
Nel 2012 viene istituito anche il Premio “Testimoni della Storia” riservato al giornalista che meglio ha saputo raccontare ed interpretare un fatto storico o di cronaca, un periodo, un personaggio o un luogo.

Premio-Luchetta

ANGELI PER SEMPRE
Ogni estate, nella grande e bellissima piazza dell’Unità d’Italia, affacciata sul mare triestino, o in alternativa nella splendida cornice del teatro lirico “G. Verdi”, la nostra “piccola Scala”, o del Politeama Rossetti, sede del Teatro Stabile del Friuli – Venezia Giulia, si tiene uno spettacolo in occasione dell’assegnazione del Premio Luchetta. “I Nostri Angeli” da dieci anni vengono ricordati con una manifestazione in cui si alternano momenti di dibattito ed intermezzi musicali di vario genere, dal pop al rock alla musica etnica, che rendono anche gioioso il ricordo di questi “custodi” che mai dobbiamo dimenticare.

[altre fonti, oltre al sito della Fondazione già linkato, da cui sono tratte anche le immagini: Il Piccolo, Wikipedia per Mostar, Marco Luchetta e Guerra in Bosnia Erzegovina; Il Corriere]

UN CAFFÈ AL SAN MARCO (A TRIESTE), NEL CENTENARIO DELLA SUA FONDAZIONE

caffe-san-marco
La scorsa settimana, tra Natale e Capodanno, mi sono fermata qualche giorno a Trieste, la mia città natale.
Erano anni che non potevo davvero godermi la città, tutta presta dal consueto via vai tra casa dei miei genitori e quella di mio suocero (che purtroppo non c’è più). Si può dire che mio marito ed io riuscivamo solo a goderci la splendida vista delle Rive e di Piazza Unità d’Italia, dai finestrini dell’automobile.

Quest’ultimo soggiorno a Trieste, invece, è stato caratterizzato dalla riscoperta della mia città che ho trovato davvero cambiata.

Albero Natale trieste

Ho fatto un giro nel centro, facendo da Cicerone a un mio cugino e alla sua bellissima figlia, provenienti da Lugano e di passaggio da casa dei miei. Sono riuscita a vedere dal vivo uno degli alberi di Natale più belli del mondo, situato nella splendida cornice di piazza Unità. Per dire il vero, l’albero non è un granché ma gli effetti di luce che vengono costantemente proiettati sul palazzo del municipio, cambiando forma e colori, creano un’atmosfera magica e suggestiva. Ai piedi dell’albero (donato dai “cugini” austriaci), un bel presepe a grandezza quasi naturale dà mostra di sé completando il quadro natalizio con quel pizzico di sacro che si unisce al profano.

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Sabato mattina (il 28 dicembre) ho incontrato una delle mie ex compagne di liceo con cui ho ripreso i contatti in occasione della bella festa per i 150 anni del Liceo Dante. Assieme siamo andate a bere un caffè al Caffè San Marco, uno dei più antichi e prestigiosi locali triestini. Un tempo ritrovo di letterati e gente di cultura che prediligeva l’alone asburgico di cui si ammanta il locale per i ritrovi tra intellettuali, ora frequentato da gente di tutte le età e arricchito di una libreria che occupa un’ala dell’ambiente, ormai troppo grande per le modeste frequentazioni dei triestini.
Ad un tavolo ho visto l’attrice giuliana Ariella Reggio … insomma, non è come incontrare Brad Pitt ma ci si può anche accontentare.

Una curiosità: all’interno del Caffè San Marco è stato girato, in parte, il video ufficiale della canzone “Sere Nere” di Tiziano Ferro, il cantante laziale che s’innamorò del capoluogo del Friuli-Venezia Giulia grazie all’amica Elisa (Toffoli) che l’aveva portato a Trieste in occasione della registrazione di un suo video.

Proprio oggi, in occasione del centenario, il quotidiano giuliano Il Piccolo pubblica un articolo, firmato da Claudio Ernè, sul Caffè San Marco di Trieste. Ve ne riporto qualche stralcio invitandovi a leggere l’intero pezzo a questo LINK.

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Marco Lovrinovich, nato a Fontane d’Orsera, aprì ai triestini il 3 gennaio 1914 il Caffè San Marco nell’allora Corsia Stadion, oggi via Cesare Battisti. Non immaginava minimamente di aver realizzato una macchina del tempo in cui a un secolo di distanza dal giorno dell’inaugurazione continuano a mischiarsi e a stratificarsi miti, culture, ideologie, iniziative commerciali, conferenzieri, scrittori, studenti e turisti frettolosi.
Ognuno pensa di trovare tra il bancone nero e i tavolini con la base di ghisa qualcosa di irrimediabilmente perduto in ogni altro angolo della città: il sapore residuo dell’Impero asburgico spazzato via dalla Grande guerra, l’eco affievolito della Trieste che fu emporiale e commerciale, il riverbero tremolante delle luci dei caffè viennesi nell’ultima stagione dell’Austria Felix. […]
Il Caffè invece è sopravvissuto: ha superato devastazioni e fiamme, cambi di gestione e di abitudini, avvicendamenti politici, crisi economiche, mutamenti di bandiere. Gli ottoni ritornano periodicamente lucidi, i tavolini mantengono le posizioni originarie, il pavimento si scurisce impercettibilmente di giorno in giorno. Giornali, libri, quaderni, giacche e cappotti si aprono e si chiudono. Come accadeva un secolo fa quando il San Marco era uno dei punti di riferimento degli irredentisti filo italiani.
Oggi al contrario il Caffè si propone al pubblico come un’isola dai connotati asburgici, anche se nemmeno un ritratto, un segno di quella dinastia, è esposto alle pareti. In effetti quasi nessuno cerca più il sapore del “marchio” irredentista che Marco Lovrinovich, proprietario di trattorie e depositi di vini, aveva voluto imprimere al suo nuovo elegante caffè, […]

[immagini: Caffè San Marco da questo sito e da Il Piccolo; albero di Natale da questo sito; dipinto di Livio Rosignano da questo sito]

TRIESTE: IN PIAZZA UNITÀ UNO DEGLI ALBERI DI NATALE PIÙ BELLI DEL MONDO

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Un’immagine suggestiva ha fatto entrare l’abete di Trieste tra i 28 più belli al mondo – in mezzo, fra gli altri, a quelli di Roma, New York, Lisbona, Rio de Janeiro, Washington, Toronto, Bruxelles, Londra e Praga – secondo l’edizione on-line del Sole 24 ore (cliccando sul link potete vedere le altre meraviglie natalizie).

Lo scatto, opera del fotografo Andrea Lasorte e pubblicata sul quotidiano giuliano Il Piccolo , ha avuto così tanto successo da essere rimbalzata da un sito web ad un altro, specie nei social network. Una pubblicità gratuita che, in tempi di magra, piace anche all’amministrazione comunale che invita gli internauti a divulgarla ulteriormente.
La particolare bellezza della fotografia sta anche nei giochi di luce che sono proiettati sulla facciata del palazzo del municipio.

Ora, pur non avendo io l’account su Facebook o Twitter, nel mio piccolo cerco di contribuire con il mio modesto blog e invito tutti quelli che possono ad andare a Trieste e godersi lo spettacolo. Merita davvero, parola mia.

Se siete affascinati dalla fotografia, potete divulgarla attraverso le vostre pagine Facebook e Twitter (i LINK rimandano alle rispettive pagine di “Trieste Social”).

Ah, dimenticavo: se siete nei paraggi, fatemi un fischio. 😉