“FUORI ERA PRIMAVERA” E ADESSO È INVERNO. COS’È CAMBIATO?


Gabriele Salvatores mi perdonerà se ho preso in prestito il titolo del suo bellissimo docufilm sul lockdown della primavera scorsa per fare una riflessione sul tempo attuale che non sembra molto diverso rispetto a quel periodo, ahimè.

Era l’11 marzo 2020 quando il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il “Decreto #IoRestoaCasa” costrinse tutti entro le mura domestiche, consentendo l’uscita esclusivamente per necessità, lavoro e salute, sospendendo le attività commerciali al dettaglio, i servizi di ristorazione, le celebrazioni religiose, vietando gli assembramenti di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Con una nuova ordinanza, adottata congiuntamente dal ministro della Salute e dal ministro dell’Interno il 22 marzo, vietava a tutte le persone fisiche di spostarsi in qualsiasi comune diverso da quello in cui si trovavano, facendo chiudere i battenti a una serie di altre attività (come barbieri, parrucchiere, estetiste…) non ritenute necessarie.

Molti italiani sentirono per la prima volta la parola #lockdown (letteralmente “blocco”). Tutti confinati a casa, senza poter frequentare le scuole (la Dad, “Didattica a distanza”, fino ad allora semisconosciuta, venne imposta a tutte le scuole di ogni ordine e grado, mentre i nidi d’infanzia e le scuole materne rimasero chiusi), senza potersi recare in palestra o al cinema oppure a teatro. Niente shopping, gli unici acquisti possibili furono i generi alimentari, prodotti per l’igiene e la pulizia, giornali e tabacchi. I centri commerciali chiusero i battenti, in attesa di una riapertura che sembrava molto lontana. Tutti i servizi di trasporto furono praticamente decimati, i distributori di benzina iniziarono a ridurre gli orari di apertura: in giro c’era ben poca gente.

Queste misure vennero più volte prorogate fino al 3 maggio 2020, in presenza di un’emergenza sanitaria che non sembrava poter migliorare e, anzi, peggiorava sempre più, mandando al collasso gli ospedali. Il #COVID_19 non dava tregua. Un virus che sembrava lontano si era ormai diffuso su tutto il pianeta: per la prima volta l’11 marzo 2020 il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus in conferenza stampa aveva parlato di “pandemia”. D’altronde i numeri non lasciavano margine al dubbio: il numero di casi di COVID-19 al di fuori della Cina era aumentato di 13 volte e il numero di paesi colpiti era triplicato con più di di 118.000 casi in 114 paesi, 4.291 vittime, mentre altre migliaia stavano lottando contro il coronavirus negli ospedali.

Un’altra parola inglese caratterizzò gran parte delle attività lavorative: lo smartworking, traducibile con “lavoro agile”. “Agile” perché chi poteva lavorava da casa, limitando al massimo gli spostamenti. Chi non aveva questa possibilità, poté godere della Cassa integrazione in deroga, anche se dovette aspettare mesi prima di vedere il becco di un quattrino. Licenziamenti bloccati o, per meglio dire, solo rimandati. La crisi economica incombeva, nessuno poteva sapere quando e soprattutto come le attività sarebbero riprese. L’unica consolazione, se così si può dire, fu che la crisi era generalizzata e tutti i Paesi della UE ne erano colpiti.

Due mesi di lockdown misero in standby le relazioni, sia affettive sia amicali sia parentali. Le videochiamate conobbero un vero e proprio boom. Persino i nonni impararono a usare lo smartphone, per non sentire troppo la lontananza dei propri cari. In tv i palinsesti cambiarono, con un prolificare di talkshow in cui gli ospiti erano presenti ognuno dalla propria casa, rigorosamente via skype o altri canali di diffusione. I set delle fiction bloccati, così come quelli dei film. Molti attori iniziarono, se non l’avevano sperimentato prima, a raccontare le loro storie su Instagram. Chat e social ormai erano diventati l’unico mezzo per sentirsi vivi e ancora in grado di comunicare.

Comunicare cosa? Prima di tutto la speranza. L’hashtag #andràtuttobene divenne in breve lo slogan che tutti gridavano o scrivevano, anche su lenzuola appese alle finestre, sullo sfondo multicolore dell’arcobaleno.

Fuori era primavera e la complicità del bel tempo e della temperatura mite ci ha fatto godere di terrazzini, terrazze e balconi che fino ad allora erano stati solo un ambiente in più, poco sfruttato, da pulire. Si iniziò a vivere più fuori che dentro casa, per chi ne aveva la possibilità. Via social ci si metteva d’accordo sull’ora in cui affacciarsi per intonare l’inno di Mameli. Un amor di Patria che fino a quel momento era rimasto confinato nello spazio temporale dei pochi minuti che precedono il calcio d’inizio delle partite della Nazionale.

Abbiamo assistito a concerti improvvisati dai balconi a tutte le ore. In un silenzio tombale, un canto di speranza.

Ma fuori dal nostro microcosmo protetto la vita continuava a pulsare: quella dei tanti medici, infermieri e personale sanitario che, con turni impossibili da sopportare, lavoravano per salvare le vite di chi, affetto dal Covid19, aveva qualche speranza di guarigione. E altre vite si spegnevano. Uomini e donne con il camice e la mascherina stavano al capezzale dei malati più gravi per dare loro un conforto che nessun familiare poteva portare, nel momento dell’addio. Tanti morti, di tutte le età. Troppi anche per trovare una degna sepoltura facilmente, specie in Lombardia, la regione più colpita nella prima ondata di questa maledetta pandemia. Ecco che sullo schermo della tv sfilavano mestamente, nelle strade deserte e silenziose, i carri militari usati per portare i cadaveri nei forni crematori di altre regioni. Un requiem senza musica accompagnato da molte lacrime silenziose.

Poi arrivò l’estate e a molti parve che il Covid19 fosse un lontano ricordo. Alla riapertura delle attività commerciali sembrò che la vita, repressa per troppo tempo nelle quatto pareti domestiche, dovesse esplodere. Ne aveva tutti i diritti.

Quell’#andràtuttobene all’improvviso diventò un #èandatotuttobene. Tutti fuori perché il diritto alle vacanze, ai viaggi, al divertimento, ai balli in discoteca, alle feste notturne in spiaggia, era sacrosanto dopo mesi di clausura. E il Covid si è sentito di nuovo forte. Gli italiani avevano fatto i bravi per tanto tempo, ormai lui, il malefico, si era quasi rassegnato.

Le feste ferragostane hanno offerto un nuovo slancio ai contagi, la riapertura delle scuole a metà settembre ha dato la mazzata finale. Tutti sappiamo come siamo arrivati ad oggi, non serve che ne faccia la cronaca. Sappiamo che il sacrificio richiesto dalla politica, per poter passare un Natale sereno, è risultato vano. Ormai siamo in balia dei colori che caratterizzano le regioni del bel Paese e della nostra bandiera si è salvato solo il rosso, il peggiore.

Fuori è inverno e non va tutto bene. Eppure si è deciso che le attività devono riprendere, gli studenti delle scuole superiori devono tornare nelle aule scolastiche, seppur poco o nulla sia stato fatto per mettere davvero in sicurezza le scuole.

La disobbedienza civile è la molla che ha spinto, di recente, molti esercenti a prorogare l’orario di apertura oltre i limiti concessi. #Ioapro è il nuovo slogan.

Sulla scuola da settimane il dibattito è acceso, tra Governo e Regioni ormai è scontro aperto e anche da parte di studenti e docenti la stanchezza di mesi di Dad si fa sentire. Gruppi modesti di genitori vincono i ricorsi al Tar per mandare nuovamente a scuola i figli. Abbiamo un ministro dell’Istruzione che sostiene l’inadeguatezza della Didattica a distanza (nonostante l’abbia inventata lei, la primavera scorsa, quando nessun docente o studente l’aveva mai sperimentata), e con lei anche gruppi, sempre modesti, di studenti che rivendicano il diritto allo studio ma soprattutto alla socialità. Però sono proprio molti di loro a uscire di pomeriggio e ad ammassarsi nei bar, rigorosamente senza mascherina. Non si può dire che non abbiano altre occasioni per socializzare.

La mascherina ormai è un accessorio, come la sciarpa e i guanti. Eppure ci sono i cosiddetti nomask che rivendicano il diritto a non utilizzarla, negando l’evidenza. E, in piena campagna vaccinale che procede a rilento, con ritardi nelle consegne delle fiale, ci sono i novax che “manco morto mi vaccinerò”.

Non stiamo bene, non va tutto bene. I numeri ci dicono che l’emergenza è reale: ad oggi in Italia i casi ammontano a 2,37 Mln, le guarigioni totali sono 1,73 Ml, i decessi 81.800. Un’intera città di medie dimensioni letteralmente scomparsa.

Ancora centinaia di morti ogni giorno, solo nell’ultima settimana 3.557, il 13 % in più rispetto ai sette giorni precedenti, di nuovo in aumento per la prima volta da fine novembre (dati relativi a venerdì 15). Il numero totale dei contagi ci dice che almeno una persona su 25 che vive in Italia è stata contagiata, ma contando le migliaia di casi mai testati e quelli sfuggiti ai conteggi perché asintomatici, la percentuale è certamente più alta.

Domani in molte regioni i ragazzi delle scuole superiori ritorneranno a scuola. Nessun pericolo, le scuole sono sicure, dice Azzolina. Poche ore fa il ministro della Salute Speranza ha convocato con urgenza il CTS che però non si è espresso con convinzione sulla riapertura, demandando la responsabilità ai presidenti delle Regioni. Eppure Walter Ricciardi, professore di Igiene all’Università Cattolica e consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, nel corso di una intervista a La Stampa ha espresso la sua contrarietà alla ripresa delle lezioni in presenza in quanto “è sconveniente perché ogni attività di massa in questa fase va bloccata”. Non solo, la ripresa delle lezioni potrebbe vanificare gli sforzi che si stanno facendo con la campagna vaccinale.

Lo stesso Ricciardi, ammettendo il fallimento della suddivisione territoriale per zone colorate, invoca un lockdown totale, considerando anche la presenza sul nostro territorio di più varianti del Covid19 come quella inglese, che porterebbe al 95% l’immunità di gregge contro il 75% auspicato finora, e la brasiliana la quale ha costretto a interrompere le comunicazioni con il Paese sudamericano.

Fuori è inverno e la situazione non è migliorata rispetto alla stagione in cui fioriscono i peschi. Perché mai non si riesce ad accettare un altro sacrificio con lo stesso spirito che ci ha sorretti la scorsa primavera?

LINK AL VIDEO DEL FILM DI SALVATORES

VERITÀ E BUGIE SUL COVID-19

Il Covid-19 non fa più paura. Dall’ormai lontano febbraio pare che la situazione sia migliorata, l’epidemia in Italia è sotto controllo, nonostante il sorgere di focolai in alcune regioni, le terapie intensive sono semivuote, pochi i malati ricoverati in altri reparti, pochi anche i decessi, sempre paragonandoli al numero dei peggiori momenti, ormai si pensa al mare, alle vacanze, alla discoteca, ai divertimenti. Soprattutto, a settembre le scuole devono riaprire senza restrizioni di sorta: tutti in aula appassionatamente. Ci abbracceremo, ci baceremo, tutto sarà come prima. Abbiamo bisogno di normalità.

Tutto giusto, per carità. Ma siamo proprio sicuri che fra meno di due mesi il Covid-19 sarà un lontano ricordo?

Chi lo può dire? Gli esperti, sentenzierà con tono assolutamente certo qualcuno. Sì, ma quali esperti? Possiamo davvero fidarci di quanto dicono, spesso in contraddizione l’uno con l’altro?

Io non ho tutte queste certezze. Non posso dimenticare l’inizio di questa brutta storia, quando la Cina sembrava lontana, quando eravamo sicuri che ci saremmo salvati semplicemente bloccando i voli da quel Paese, quando esperti virologi, come la dott.ssa Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano, si divertivano a ridicolizzare i “colleghi” più cauti, voci autorevoli del mondo della medicina, specialmente della microbiologia e virologia, che avevano fin da subito messo tutti in allerta. Figuriamoci, il Covid-19 è poco più di un’influenza, sosteneva la Gismondo, anzi i decessi sono pochi, meno di quanti ne causi il virus stagionale, muoiono i vecchi e comunque chi è già afflitto da altre patologie.

Qualcuno ha provato a smentirla. Non faccio nomi e cognomi perché, purtroppo, questa vicenda che riguarda la salute pubblica che è un bene comune, è diventata una questione politica. Io non mi schiero mai dalla parte di chi condivide le mie idee politiche (anche se, obiettivamente, so più da quale parte non stare che da quale parte stare) su questioni che richiedono soprattutto il buonsenso. Un’opinione personale, in questi casi, rimane tale se non supportata da fatti obiettivi, inconfutabili. Ho dato credito alla dott.ssa Gismondi fidandomi della sua chiara fama (personalmente non l’avevo mai sentita nominare, come la maggior parte di noi, ma il curriculum è di tutto rispetto) poi ho iniziato a ragionare con la mia testa affidandomi alle statistiche. Non c’è stato bisogno di ulteriori smentite riguardo alle affermazioni forse troppo precipitose della virologa: ci hanno pensato i fatti stessi.

Ha taciuto per molto tempo, la dott.ssa Gismondo. L’ha fatto, credo, affidandosi al buonsenso. Qualcuno ne ha chiesto il licenziamento? No.

C’è, tuttavia, chi sta lontano dalle provette e dai microscopi dei laboratori, sta in corsia, persone che indossano camici di colore diverso ma tutte unite dalla stessa passione per la propria professione, dalla stessa coscienza con cui si sono assunte e si assumono la responsabilità nei confronti di questo virus insidioso che nel mondo continua a mietere vittime: i medici e il personale sanitario in genere. Queste sono le sole persone che hanno potuto toccare con mano la gravità della situazione nei momenti peggiori, che hanno dovuto arrendersi, impotenti, di fronte alla morte di migliaia di persone, che hanno trovato la forza di rimanere in piedi ore ed ore, senza mai guardare l’orologio, che hanno stretto le mani a chi non ce l’ha fatta, che hanno accarezzato per l’ultima volta i pazienti privati della vicinanza dei propri cari. Non sono eroi, come tengono a precisare, hanno fatto il loro dovere, dimostrando dedizione nei confronti della professione che hanno scelto consapevoli che la loro missione è quella di salvare la vita e non di lasciarla andare via. Eppure sono stati testimoni di morte, gli unici a essere rimasti in stretto contatto con il maledetto Covid-19 che ha portato via anche molti di loro. Queste sono le cose che non dobbiamo mai dimenticare.

Ora c’è un infermiere di Cremona che mette in guardia: il Covid-19 non è un lontano ricordo, i contagi aumentano, le persone si ammalano, alcune gravemente.

Ci mette la faccia e il nome, nel testo postato sul suo account Facebook: Luca Alini. Dice cose inconfutabili:

Il coronavirus non si è dimenticato di fare il suo lavoro e da bravo virus fa quello che deve: infetta nuovi ospiti per sopravvivere. Niente di più e niente di meno. Noi esseri umani, invece, dall’alto della nostra intelligenza ed evoluzione tecnologica e scientifica, facciamo finta che non esista, qualcuno pensa non sia mai esistito […] anche se per fortuna la situazione non è grave “come a febbraio o a marzo o all’inizio di aprile, quando i Covid erano 30 su 30 in reparto più altrettanti ricoverati in altri reparti, quando su 30 pazienti 26 erano ventilati”, non possiamo permetterci di dimenticare che “il virus esiste, non è magicamente sparito e sta mietendo ancora vittime in altre parti del mondo. Da noi ha già dato, ma non sta scritto da nessuna parte che non possa ricominciare a farsi vivo”. (LINK all’articolo da cui è tratto il passaggio)

Si è attirato un sacco di critiche quell’infermiere. Ha dovuto cancellare il post, dopo che l’Azienda sanitaria dell’ospedale presso cui lavora, attraverso le parole del Direttore sanitario Rosario Canino, si è affrettata a ridimensionare l’allarme: “Non sono i casi gravi di marzo. Ci sono stati dei ricoveri in questi giorni in reparti ordinari, in parte legati a focolai già noti”.

C’è chi accusa Luca Alini di procurato allarme, chi ne chiede a gran voce il licenziamento. Eppure le parole del suo post sono dettate dalla saggezza e soprattutto dalla consapevolezza di chi ha dovuto far fronte a un’emergenza inattesa e che certamente non può essere smentita dato che i numeri parlano da sé: quasi 35mila vittime, più di 240mila casi accertati. I casi crescono e decrescono con effetto altalena, i morti ci sono ancora sebbene in numero limitato. Ma questo quadro non dà garanzie per il futuro, dice solo l’unica cosa certa: il virus c’è, non è sparito. Se poi diamo un’occhiata a ciò che accade nel mondo, la pandemia sfiora i 12,5 milioni di contagi da Covid-19, di cui 3 milioni solo negli Stati Uniti.

Allora non iniziamo a dire ciò che ci ha tratti in inganno mesi fa: sì, ma l’America, settentrionale o meridionale che sia, è lontana e i voli dai Paesi non sicuri sono stati bloccati. Esattamente questo accadde alla fine di gennaio per i voli dalla Cina, eppure il coronavirus è entrato di prepotenza nel nostro Paese da ogni dove, seguendo strade alternative. Non certo per sua iniziativa.

Che cos’ha detto di sbagliato l’infermiere cremonese? “Non sta scritto da nessuna parte che non possa ricominciare a farsi vivo”. Nulla che possa essere oggettivamente smentito.

La stessa Gismondo sull’eventualità dello scoppio di nuovi focolai in autunno, ha recentemente dichiarato: «Certamente ci saranno ancora focolai e saranno più di adesso. Ma noi, a differenza di quanto è accaduto a marzo, non verremo colti di sorpresa».

Che il virus ci abbia giocato un brutto scherzo, per di più in pieno clima carnevalesco, è sicuro. Sulla sorpresa avrei delle riserve. Quando si viene colti di sorpresa significa che quello che è accaduto non era prevedibile. Il Covid-19 non era previsto, certamente, ma le falle del nostro sistema sanitario hanno messo in luce la poca disponibilità di chi ci governa, e ci ha governato, a prevenire o almeno a gestire situazioni di emergenza. Da noi si preferisce curare piuttosto che prevenire – nonostante il motto “prevenire è meglio che curare” – ma quando si ha di fronte un nemico invisibile che non può essere affrontato con armi certe (una cura sicura ancora non c’è e il vaccino chissà quando verrà prodotto e con quali costi), allora emerge non solo la difficoltà di curare ma anche, a volte, l’impossibilità di farlo per mancanza di uomini e mezzi.

Le conseguenze dei tagli alla Sanità – come del resto quelli alla scuola – sono di fronte agli occhi di tutti. Questa è una certezza.

Ma forse c’è un’altra verità da non sottovalutare: la mancanza di responsabilità da parte di chi, contro ogni evidenza scientifica, fa finta che tutto andrà bene, che nessun pericolo è imminente e che, nella peggiore delle ipotesi, l’esperienza ci salverà. Così vediamo la noncuranza di quelli che si accalcano nelle strade della movida, nelle spiagge perché di sacrifici ne abbiamo fatti tanti durante il lockdown e abbiamo bisogno di ossigenarci (anche i malati di Covid19 avrebbero avuto bisogno di maschere di ossigeno che non c’erano…), di quelli che non indossano la mascherina anche se dovrebbero, tanto non serve, e che non rispettano la distanza di sicurezza. Li abbiamo di fronte agli occhi, ogni giorno, quando siamo al supermercato o facciamo la fila alla Posta e ci stanno appiccicati addosso. Nei luoghi aperti non serve, così io che la indosso sempre proteggo chi mi incrocia sul marciapiede standomi a pochi centimetri mentre io non sono affatto protetta.

Cosa abbiamo imparato dalle interminabili settimane di segregazione? A che cosa è servito quel sacrificio? Sicuramente ad arginare il fenomeno e a rendere, per quanto possibile, meno grave la situazione. Se allentiamo le difese, in nome della vita da vivere che è un diritto sacrosanto specialmente dopo la reclusione, tutto potrebbe ricominciare da capo.

Non voglio essere catastrofista e in verità cerco di guardare al futuro con ottimismo. Forse quello che mi manca è la fiducia nel genere umano che, una volta passata la tempesta, si dà alla pazza gioia infischiandosene del senso civico che dovrebbe essere lo strumento migliore per vivere la collettività con equilibrio e mirando al bene comune. Perché le cose capitano, oggi a me domani a te, ma se collaboriamo forse ce la caviamo meglio entrambi.

Questa è l’unica verità che conosco.

[immagine Gismondo da questo sito; immagine Alini da questo sito]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: ECCO IL DOGGYBAR PER GLI AMICI CANI


Si tratta di un brevetto targato Friuli. Il Doggybar è stato, infatti, inventato da un da un cormonese, Marco Mersecchi, assieme al team con cui collabora nella sua azienda di design.

Il nuovo dispositivo, che potrebbe essere visibile a breve all’esterno di molti locali non solo nella città di Cormons (Gorizia), è costituito da una ciotola che nella forma ricorda proprio gli amici cani. Il Doggymar è dotato di un piccolo contenitore in cui si può posizionare dell’acqua o delle crocchette per far felici i miglior amici dell’uomo e anche i padroni.

«È un’idea che mi è venuta prima di addormentarmi – racconta Mersecchi – Il giorno dopo ne ho parlato con i miei collaboratori e ci siamo messi subito all’opera, brevettando il piccolo manufatto in pochissimo tempo. È un servizio pet-friendly in più».

Questa invenzione è giustificata soprattutto dall’incremento notevole dei cani e gatti, ma più in generale degli animali da compagnia, osservato negli ultimi anni nel nostro Paese. Secondo i dati recenti, in Italia 60 milioni di animali abitano nelle nostre case. Oltre ai cani e ai gatti, gli animali da compagnia per eccellenza, si contano i pesci, i più diffusi per numero, ma anche altre specie come furetti e rettili.

All’inizio del 2015 i cani registrati, tramite tatuaggio o microchip, erano poco più di 6 milioni; in tre anni sono diventati 10 milioni, con un incremento del 40%.

A Cormons l’amore verso gli animali è diffuso. I dati ufficiali disponibili (relativi alla fine del 2015) parlano infatti di oltre 1200 cani censiti nelle varie famiglie: su un totale di circa 7500 abitanti, ne deriva che c’è un cagnolino più o meno ogni sei cormonesi, praticamente uno ogni due famiglie. Non stupisce, dunque, che Marco Mersecchi abbia pensato a brevettare il Doggybar, con la speranza che il suo dispositivo possa presto diffondersi anche al di fuori della regione Friuli – Venezia Giulia.

Allora grazie Marco, per aver pensato ai migliori amici dell’uomo.

[Fonte: Il Piccolo anche per l’immagine: altra fonte: zampefelici.it]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: IL SOGNO DI “DONNA LUPITA”


Anche questa settimana una buona notizia che conferma quanto sia attuale il detto “non è mai troppo tardi”.

Donna Lupita è una signora messicana che, dopo aver dedicato la vita al duro lavoro nei campi, ha pensato di recuperare ciò che le era stato vietato in gioventù: imparare a leggere e scrivere. In meno di quattro anni ha recuperato tutte le elementari e le medie, frequentando corsi di istruzione per adulti. Non contenta, ha deciso di iscriversi in un istituto superiore perché il suo sogno è quello di diventare maestra. Ma non esclude di continuare gli studi all’università.

Non ci sarebbe nulla di speciale se la signora in questione non avesse… 96 anni! I capelli grigi tradiscono la sua età, la pelle è rovinata dal duro lavoro nei campi di grano e di fagioli o al mercato dove vendeva i polli. Guadalupe Palacios – questo il suo vero nome- da pochi giorni siede tra i banchi della scuola superiore di Tuxtla Gutierrez. L’obiettivo è finire le superiori a 100 anni, iscriversi all’università e diventare «chissà, un giorno» maestra d’asilo.

Per ora afferma di non poter frequentare le lezioni con regolarità, per impegni familiari seri. Nell’aula scolastica che l’accoglie è circondata da compagni che hanno 80 anni meno di lei e sicuramente avranno molto da imparare da questa tenace e arzilla nonnina.

[Fonte del post e immagine Corriere.it]

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

LE DONNE

VIRGINIA-WOOLF-

Le donne hanno illuminato come fiaccole le opere di tutti i poeti dal principio dei tempi. […] I nomi si affollano alla mente, e non richiamano l’idea di donne mancanti “di personalità e di carattere”. Infatti, se la donna non avesse altra esistenza che nella letteratura maschile, la si immaginerebbe una persona di estrema importanza, molto varia; eroica e meschina, splendida e sordida; infinitamente bella ed estremamente odiosa, grande come l’uomo, e, pensano alcuni, anche più grande.
Ma questa è la donna nella letteratura. Nella realtà, come osserva il professor Trevelyan, veniva rinchiusa, picchiata e malmenata.

Ne emerge un essere un essere molto strano e composito. Immaginativamente, ha un’importanza enorme; praticamente, è del tutto insignificante. Pervade la poesia, da una copertina all’altra; è quasi assente dalla storia. Nella letteratura, domina la vita dei re e dei conquistatori; nella realtà, era la schiava di qualunque ragazzo i cui genitori le avessero messo a forza un anello al dito. Dalle sue labbra escono alcune tra le parole più ispirate, alcuni tra i pensieri più profondi della letteratura; nella vita reale non sapeva quasi leggere, scriveva a malapena, ed era proprietà del marito.

[da Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, prima pubblicazione 24 ottobre 1929]

Ho letto il saggio di Virginia Woolf l’estate scorsa. Devo essere sincera: non l’ho gradito molto. Tuttavia, recentemente l’ho riscoperto. L’occasione mi è stata data da una domanda rivolta ad un’allieva durante l’orale dell’Esame di Stato (che domani finalmente si conclude).

Partendo da questa citazione (per la verità molto ridotta rispetto al passo riportato), ho chiesto alla candidata quale fosse, secondo lei, la donna più celebrata della letteratura italiana di tutti i tempi. Avevo in mente Dante e la sua Beatrice… e chi, sennò?

Lascio da parte l’esame e mi soffermo qui a riflettere sulle parole della scrittrice inglese, che non possiamo fare a meno di condividere. La pubblicazione del saggio risale al 1929, eppure queste considerazioni non sono così lontane da una certa realtà, distante da noi occidentali, eppure abbastanza vicina, considerando il fenomeno dell’immigrazione, specie quella che interessa le popolazioni provenienti dall’area islamica.

Recentemente Papa Francesco ha difeso la dignità della donna.
«Come cristiani,- ha detto in occasione dell’udienza generale in piazza San Pietro, lo scorso aprile – dobbiamo diventare più esigenti a tale riguardo. Per esempio: sostenere con decisione il diritto all’uguale retribuzione per uguale lavoro; perché si dà per scontato che le donne devono guadagnare meno degli uomini? No! Hanno gli stessi diritti. La disparità è un puro scandalo!»

Com’è nel suo stile, non “assolve” nemmeno i testi sacri.
«È una forma di maschilismo, – ha proseguito – che sempre vuole dominare la donna. Facciamo la brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ‘Ma perché hai mangiato il frutto?’, e lui: ‘Lei me l’ha dato’. E la colpa è della donna. Povera donna! Dobbiamo difendere le donne, eh!”.

Ma davvero è sempre colpa della donna?

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: A LONDRA PANCHINE-LIBRO PER RILANCIARE LA LETTURA

panchine letterarie londra
Non sono solo gli Italiani poco amanti della lettura, evidentemente. Gli Inglesi sembrano passarsela meglio, dato che secondo un sondaggio della National Literacy il 53% dei giovani londinesi si definisce lettore appassionato e anche i piccolissimi dichiarano di essere sempre alla ricerca di un buon libro e di una bella storia.
Ciononostante, a Londra, camminando per uno dei numerosi quartieri – da Notting Hill a Portobello Road, da Chelsea a Soho, da King’s Cross a Westminster – in questo periodo capita di ritrovarsi seduti su una panchina a forma di libro.

Le 50 «book benches» (panchine-libro) sono state decorate da cinquanta artisti, tra i quali molte giovani promesse, e realizzate a forma di libro aperto. Gli artisti si sono ispirati ad una serie di libri (tutti famosissimi) ambientati nella capitale del Regno Unito. Si tratta di un progetto, denominato «Books about Town» e promosso da The National Literacy e dalla Wild in Art, che ha lo scopo di ricordare a tutti i passanti quanto sia bello leggere ma ha anche un obiettivo umanitario: le panchine, infatti, saranno battute all’asta dal Southbank Centre di Londra il 7 ottobre per raccogliere fondi in favore della National Literacy Trust allo scopo di combattere l’analfabetismo nelle zone più povere della città.

La gamma di autori, libri e personaggi rappresentati nelle panchine va da Geoffrey Chaucer a Shakespeare, da Lewis Carroll ad alcune firme contemporanee, come Helene Fielding, autrice del Diario di Bridget Jones, da James Bond a Hercule Poirot, da Peter Pan all’orsetto Paddington.

L’orso Paddington è un personaggio della letteratura inglese ma non autoctono, in quanto immigrato dal Perù, amatissimo dai bambini e protagonista di diverse storie. La panchina a lui dedicata si trova naturalmente alla Paddington Station ed è firmata dalla matita di Michelle Heron.

Un altro personaggio, diventato un cult e amato da generazioni di piccoli e grandi lettori, è Mowgli, protagonista de “Il libro della giungla”, ritratto, assieme ai suoi amici – Shere Khan, Bagheera e Baloo e Kaa – nella panchina a lui dedicata e firmata da Ruth Green.

Non poteva mancare, per i più grandi, la Book Bench dedicata ad Agatha Christie che, cosa forse ignota a molti, scrisse anche romanzi rosa con lo pseudonimo di Mary Westmacott.
I due artisti che hanno ideato e pensato la panchina alla famosa giallista, Tom Adams e Mandii Pope, hanno scelto tra tutte le creazioni di Agatha Christie «Hercule Poirot and the Greenshore Folly».

Ma non si può pensare al “giallo” senza tenere nel debito conto l’agente segreto di Sua Maestà più famoso al mondo: James Bond, agente 007. Anche il personaggio creato da Ian Lancaster Fleming, giornalista, militare e scrittore inglese, ha la sua Book Bench disegnata da Freyja Dean.

E se Agatha Christie è l’autrice più tradotta, più dello stesso Shakespeare, anche il più famoso drammaturgo inglese ha la sua panchina a forma di libro. La creatrice, Lucy Dalzell, vi ha riprodotto di fronte e sul retro – tutte le panchine sono completamente decorate – riferimenti alle opere più importanti di Shakespeare, da “Sogno di una notte di mezza estate” all’indimenticabile storia d’amore di “Romeo e Giulietta”.

Sono tutte bellissime queste panchine letterarie. Vi invito a scoprirle, in buona parte, a questo LINK da cui ho tratto anche l’immagine postata sotto il titolo e che ha ispirato l’intero post.

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LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: IL CAMPEGGIO IN CITTA’ PER CONOSCERSI MEGLIO

campeggio in città
Passare le vacanze in città non è più da “sfigati” come una volta. Ormai, come ho scritto QUI, le città non si svuotano nemmeno a Ferragosto. Però rimanere dentro le quattro mura domestiche, sempre le stesse, per 12 mesi all’anno è davvero triste. Perché allora non provare una vacanza diversa, pur rimanendo in città e senza spendere molto?

La notizia proviene da Amsterdam dove, in tre parchi cittadini, l’Oosterpark, il Rembrandtpark e il Noorderpark, è stato allestito un campeggio per vacanzieri con tanta voglia di fare nuove conoscenze, cosa non sempre facile in una grande città dove i contatti umani sono sempre sfuggenti.

L’iniziativa è già collaudata e si è ripetuta nel periodo di Ferragosto. «De Buurtcamping – In camping con i vicini» è nata dall’idea di Roderik Schaepman, olandese residente nella capitale ma nato e cresciuto in Drente, la regione più verde e tranquilla dell’Olanda.

«Volevo che anche in una grande città ci fosse quell’atmosfera cordiale e accogliente, come nel paesino di 400 abitanti in cui sono nato – racconta Schaepman -. E poi in un camping è molto facile entrare in contatto. Il nostro motto è Power to the crowd, se metti insieme tante persone con tutti i loro talenti vengono fuori delle cose bellissime: nuovi rapporti di lavoro, relazioni romantiche, iniziative sociali. Poi fra i nostri ospiti abbiamo accolto anche alcuni senza tetto, che al camping si sono sentiti accettati come tutti gli altri. Se ci si mette insieme si possono raggiungere obiettivi insperati e migliorare veramente il mondo. L’idea del nostro camping può funzionare in ogni parco del pianeta».

La quota per partecipare era davvero esigua: 20 euro a persona per tutti i tre giorni, più 20 euro per la tenda. Nei tre parchi si sono ritrovate più di 700 persone, di cui un terzo rappresentato da quelli che hanno un sussidio per vivere o comunque un reddito annuo lordo al massimo di 21.000 euro, coloro che quindi non possono permettersi di andare in vacanza. Un altro terzo costituito dai volontari, che organizzano le più svariate attività durante il soggiorno e fanno sì che il campeggio funzioni e il restante terzo è rappresentato da persone comuni che vivono nel quartiere.

Un’esperienza che non è servita soltanto a familiarizzare tra vicini ma anche a divertirsi. Molte sono state, infatti, le attività proposte: lezioni di yoga, trattamenti di shiatsu e fisioterapia, lettura dei tarocchi, corsi per fare il pane o i cup-cakes, per la corsa di fondo o per imparare a dipingere. I genitori hanno potuto persino prenotare una ninna-nanna che veniva cantata davanti alla tenda per far addormentare i bambini.

A me sembra davvero una bella idea e non solo per chi non si può permettere una vacanza fuori porta. Anzi, potrebbe essere un’occasione per imparare cose nuove, per dare una mano a chi ha bisogno e per mettere al servizio della collettività il proprio talento.

E voi che ne dite? Sarebbe possibile organizzare una cosa del genere nelle nostre grandi (ma anche in quelle più piccole) città?

QUI potete vedere il VIDEO girato lo scorso anno.

[fonte: Corriere.it; immagine da questo sito]

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NON ABBIAMO MAI TEMPO PER LEGGERE? TUTTE SCUSE

1856 - Alfred Stevens (jeune femme lisant)

La lettura, in quanto occupazione inesorabilmente solitaria, implica una sensazione di egoismo che è difficile da sostenere con serenità. Una madre che esasperata dal caos domestico si chiude in cucina a stirare prenderà questo piccola azione di barricamento come legittima e giustificata; la stessa madre che si chiude marito e figli fuori dalla camera da letto per leggere mezzora in santa pace lo percepirà come un lusso che è ingiusto concedersi.

Da lettrice che ha sempre mille cose da fare e crede di non avere mai il tempo per leggere, concordo pienamente con questa riflessione di Matteo B. Bianchi (QUI potete leggere l’intero articolo, molto interessante).

Quant’è vero che consideriamo, a volte, la lettura un lusso che non possiamo permetterci, qualcosa che ci svia dai doveri. Un piacere che, immancabilmente, viene dopo ciò che ci sentiamo obbligati a fare. Tuttavia, non pensiamo quasi mai al tempo che sprechiamo durante la giornata, quando accendiamo pigramente la tv anche se non c’è proprio nulla di interessante da vedere, oppure quando stiamo incollati davanti al monitor del pc in attesa di qualcosa di interessante da scoprire.

Concedersi il lusso della lettura, sottraendo il tempo ai doveri, non è cosa da biasimare, né dobbiamo pensare che la lettura ci impegni maggiormente, specie a livello mentale, dello stare in ozio sul divano con il televisore acceso o alla scrivania davanti al computer.

Forse dovremmo volerci un po’ più bene e regalarci qualche ora piacevole in compagnia di un buon libro. E pazienza se non riusciamo a leggere più di 10 o 20 pagine alla volta. C’è sempre il tempo per recuperare.

P.S. detto da una che trova sempre qualsiasi scusa per non leggere durante il periodo scolastico … però è anche vero che con gli occhiali da presbite mi stanco molto, dovendo già leggere o i testi scolastici o i compiti degli studenti. Aggiungo, anche se sono consapevole che possa sembrare una scusa, che faccio molta fatica a concentrarmi e quindi trovo meno impegnativo accendere la tv o stare al pc. 😦

[nell’immagine: Jeune Fille Lisant – 1856 Alfred Stevens (1823-1906) da questo sito]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: UN’OASI DI PACE AL TEMPO DELLA CRISI

marinaleda
Possibile che esista un luogo, in questi tempi di crisi, in cui vivere in pace, senza preoccupazioni di sorta, in completa armonia con la natura e i propri simili? Forse non sono tante le oasi di pace, oggigiorno, ma un luogo simile c’è e si trova in Spagna, a Marinaleda, poco più di 100 km da Siviglia.

Tremila abitanti che vivono in comunità, collaborando per produrre ciò che serve, senza ricchi né poveri. Tutti lavorano per lo stesso salario: 47 euro al giorno per sei giorni la settimana. La grande ricchezza di questo piccolo paese è la terra: tutti gli abitanti lavorano per la grande cooperativa agricola “Humar”, creata dagli stessi lavoratori che garantisce la piena sussistenza a tutti, riuscendo anche ad esportare peperoni, carciofi, legumi, olio d’oliva anche all’estero, in Italia e persino in Venezuela.

In questa novella Shangri-La made in Spain basta mettere a disposizione la propria forza lavoro per esercitare il proprio diritto alla casa: nessun mutuo e nessun interesse da versare ad istituti di credito.
Il terreno e il progetto, infatti, sono a carico del Municipio, il denaro lo presta a tasso zero il governo andaluso e la quota mensile da versare per l’acquisto la decidono in assemblea gli stessi cittadini, anticipando solo 15 euro.

La vita a Marinaleda scorre felice anche per le famiglie: l’asilo pubblico costa solo 12 euro mensili, una piscina è accessibile per tutta l’estate a soli 3 euro.
Il paese ha strade intitolate a personaggi come Salvador Allende oppure veri e propri valori umani: solidarietà, fraternità o speranza. La gente può godersi le aree verdi curate dalla comunità e in completa tranquillità: non esiste criminalità tanto da non essere necessaria nemmeno la polizia. Con un bel risparmio di denaro pubblico.

EscudoMarinaledaQuale mai potrà essere il simbolo di Marinaleda? Ovviamente è una colomba che vola sul paese ed intorno la scritta: “Marinaleda – Una utopia hacia la paz”.
Un’utopia? Una realtà da imitare, piuttosto. E in Italia, sarebbe possibile mettere in pratica un progetto simile?
Purtroppo temo di no.

[LINK della fonte]

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CHI HA PAURA DEGLI OMOSESSUALI?

omosessualità
Omofobia: è proprio la parola che non riesco a digerire. Se guardiamo all’etimologia, deriverebbe da due termini greci: ομοίος [homoios] (stesso, medesimo) e fobos (paura). Ne consegue che la parola dovrebbe rimandare a una “paura dello stesso”, ma non ha senso. Dovremmo, dunque, considerare il prefisso “omo” come un’abbreviazione del termine “omosessuale” e allora ci siamo: omofobia significa “paura dell’omosessuale”. Sì, ma perché paura? Chi ha paura dell’omosessualità?

 

Effettivamente è proprio quella “fobia” che porta fuori strada. Il suffisso “fobia”, infatti, rimanda a un concetto clinico (claustrofobia= paura degli ambienti chiusi, aracnofobia= paura dei ragni …) ma nel caso in questione è chiaro che la paura non c’entra nulla. Dovremmo dire piuttosto “avversione” e in effetti con questo termine si indica un comportamento avverso, di conseguenza intollerante e discriminante, nei confronti della pratica omosessuale.

 

Ma c’è, tuttavia, qualcuno che ha paura dell’omosessualità, che teme il “diverso”, ciò che si discosta dai canoni consueti. Si teme, in altre parole, che venga infranto l’equilibrio naturale delle cose. Spaventa la possibilità che i gay si sposino, che possano adottare dei bambini, spaventa, quindi, il solo concetto di “famiglia omosessuale” che pure esiste di fatto, se non per legge (almeno non qui da noi).

 

Le ricerche psicosociali evidenziano come l’omofobia sia maggiormente legata a caratteristiche personali quali: anzianità, basso livello di istruzione, idee religiose fondamentaliste, l’essere autoritari oppure avere atteggiamenti tradizionalisti rispetto ai ruoli di genere. Non è un caso, a mio avviso, che la maggior parte delle persone che nutrono avversione nei confronti del mondo gay, appartengano al genere maschile. Se ci pensate bene, dà molto più fastidio agli uomini pensare alle relazioni omosessuali piuttosto che alle donne. E questo accade, secondo me, perché i maschi, più delle femmine, sono portati a ricondurre l’omosessualità alla sfera prettamente sessuale, in altre parole a ciò che accade a una coppia gay, in tal caso di uomini, sotto le lenzuola. Tutto ciò trascurando la sfera affettiva che, sempre secondo il mio punto di vista, ha una centralità importante anche nelle relazioni omosessuali, che ci piaccia oppure no.

 

Ho sentito questa riflessione come un atto dovuto prima di affrontare, non senza imbarazzo, un discorso che in qualche modo è collegato al post precedente, in cui trattavo il programma governativo francese ABCD de l’ègalitè, a proposito del superamento del concetto di famiglia tradizionale.

Già allora ho chiarito che il mutamento sociale che ha portato a ciò non mi disturba a patto che, per non discriminare i nuovi modelli, non si demoliscano le tradizioni consolidate (poter festeggiare la festa della mamma o del papà, potersi firmare con la dicitura “mamma” e “papà” e non genitore 1 e 2 …).  Da qui a dire che “ho paura” del mondo gay ce ne vuole.

 

Il commento di un lettore, che preferisco non nominare, mi ha lasciata perplessa. Ho deciso di non pubblicarlo anche perché, se avessi voluto replicare, avrei occupato tanto spazio da superare quello concesso all’articolo. Di qui la decisione di questo nuovo post.

Ma c’è anche un altro motivo per cui ho preso la decisione di non pubblicare quel commento: il tono sprezzante con cui veniva affrontato l’argomento, con una tale sicumera da lasciare spiazzata me che pure sono una con pochi peli sulla lingua. Senza contare gli appellativi ormai desueti, anche perché, quelli sì, considerati omofobi, con cui la persona in questione si riferiva agli omosessuali.

 

Il lettore a un certo punto dice: «me ne infischio del ”politically correct” quando c’è in gioco il futuro e la dignità dei nostri figli». Ora, io sono molto aperta di fronte alle opinioni degli altri, anche se, in caso di divergenza, difendo con le unghie e con i denti le mie. C’è una cosa che, tuttavia, non sopporto: il fatto che chi scrive qui dimentichi che questa è casa mia e che sono io a stabilire le regole. Basta dare un’occhiata al disclaimer sulla homepage e si capisce che i commenti che giudico offensivi o formulati facendo uso di parole che ritengo inaccettabili non passeranno il filtro della moderazione.

Detto questo, se il lettore, persona che conosco e che ha goduto nei mesi passati della mia stima, se ne infischia del politically correct, io no.

 

adozioni-gay

Proseguendo nella sua esternazione, il lettore presagisce il futuro della società (non so se mondiale o solo italiana) basata sulle unioni tra due uomini o due donne, con la possibilità di adottare dei figli il cui destino sarebbe segnato: diventare essi stessi omosessuali.

È ovvio che non c’è nulla di scientificamente provato in ciò, anzi, sembra che al contrario i figli di coppie gay abbiano, essi sì, la fobia di diventarlo a loro volta (attenzione, non mi baso su studi specifici ma solo sul “sentito dire”).

 

Sono sincera: non sono favorevole all’adozione da parte delle coppie omosessuali, l’ho detto più volte, fidandomi del parere di chi è più esperto di me. Ho affrontato questo discorso altrove e naturalmente ognuno tira l’acqua al suo mulino quindi è logico che ci saranno sempre delle controargomentazioni da parte di chi ha interesse a difendere una legge che permetta l’adozione all’interno di una coppia gay.

Ma anche ammettendo che i bambini con i genitori dello stesso sesso crescano in perfetta sintonia con il mondo che li circonda, non subiscano traumi di sorta, non vengano derisi da chi ha una mamma e un papà e percepiti come “diversi” (si sa che i primi a discriminare sono proprio i più piccoli, anche se l’educazione ricevuta conta moltissimo), so che in Italia l’adozione è un percorso accidentato per le coppie eterosessuali. Quindi, prima di aprire alle coppie omosex sarebbe utile rendere l’adozione meno complessa per i coniugi, altrimenti sarebbero proprio le coppie etero a venir discriminate.

 

Tornando al nostro lettore, nonostante gli studi abbiano dimostrato che l’omosessualità non è una malattia né un capriccio, piuttosto una questione genetica, egli nega si tratti di disfunzioni ormonali o fisiologiche ma solo di ricercata depravazione e di triviale amoralità, confermando le ipotesi accreditate secondo le quali l’omofobia si fonda su dei preconcetti che investono la sfera etica. Stiamo attenti: l’etica è qualcosa di diverso dalla religione, nel senso che esiste una morale laica del tutto svincolata dalla fede e basata piuttosto sul pregiudizio, nel vero senso della parola: “giudicare a priori” senza, quindi, solide argomentazioni.

 

Ciò non toglie che, volenti o nolenti, la diffusione del Cristianesimo ha un ruolo predominante sui costumi di una società.

antica roma omosex

Se consideriamo, infatti, l’antica Roma, l’omosessualità, strettamente maschile (quella femminile era considerata una mostruosità) era una pratica accettata e condivisa, che poteva dare ancor più prestigio agli uomini di potere. Il padrone si prendeva ogni libertà nei confronti dello schiavo giovane, il cosiddetto puer, ed egli era onorato di prestare tali particolari servigi al padrone. Da parte sua, il padrone dimostrava il suo potere sottomettendo lo schiavo ai suoi voleri, fossero pure quelli sessuali. Ciò almeno fino al matrimonio: poi gli “amichetti” dovevano vivere nell’ombra, veri e propri concubini che attendevano pazientemente che il loro amato padrone lasciasse il talamo nuziale per passare sotto le loro lenzuola. E guai se la moglie veniva a conoscenza di questi rapporti omosessuali! Ne era profondamente gelosa, molto di più rispetto alle amanti femmine. (sull’amore nell’antica Roma suggerisco la lettura di Dammi mille baci di Eva Cantarella, Feltrinelli editore … illuminante”!)

 

Poi, come dicevo, è arrivato il Cristianesimo e con la sua morale ha fatto piazza pulita di tali turpitudini … almeno a parole. L’esempio di Sodoma e Gomorra poteva bastare per dissuadere le relazioni omosessuali che, tuttavia, continuavano ad esistere nell’ombra.

 

In conclusione mi chiedo: come si fa a considerare tutto ciò un tabù al giorno d’oggi?

E poi, se lo stesso Papa Francesco, a proposito dell’omosessualità, ha detto: “Chi sono io per giudicare?”, chi siamo noi per farlo?