IL PESO DELLA BELLEZZA

modella anoressica
L’Authority britannica sulla pubblicità (l’Advertising Standards Authority) ha bloccato la campagna di Saint Laurent apparsa sulla rivista «Elle», nell’edizione per il Regno Unito, poiché in copertina la modella appare «pericolosamente magra».

La foto incriminata è quella che ho postato sotto il titolo. La ragazza è sdraiata, vestita nero, con due gambe esilissime e lo scheletro che l’Authority ha definito dalla «gabbia toracica sporgente».

Nel Regno Unito è in atto una campagna per prevenire l’anoressia nel mondo della moda. In particolare nel 2013 è nato il movimento «Say no to Size Zero» (no alla modella di taglia zero) fondato dalla modella Katie Greeen dopo che, a suo dire, fu licenziata da Wonderbra per essersi rifiutata di perdere peso.

Anche in Italia sono molti gli stilisti che hanno eliminato le taglie XXS (38-40, per intenderci) ed è in atto un radicale cambiamento nei costumi anche per quanto riguarda le aspiranti Miss Italia che possono indossare la 46 per essere ammesse al concorso. Anche se dobbiamo considerare che tale taglia, se portata da ragazze alte anche più di 180 cm, non è poi così small.

tess-venere

C’è poi addirittura una controtendenza: al grido di “grasso è bello”, ecco spuntare le modelle cury. Molte di esse hanno un bellissimo corpo, perfettamente proporzionato, qualcuna è un po’ in sovrappeso ma nessuna è obesa. Se escludiamo Tess Holliday (foto in alto), alta 165 cm, che porta con disinvoltura una taglia 56 e con le sue misure (124-124-132) può consolare molte di noi. Perché in fondo la bellezza non ha peso.

E soprattutto la felicità non si misura in chili sulla bilancia pesapersone.

Ad ogni modo, c’è sempre la giusta via di mezzo. E’ il caso di Candice Huffin (foto sotto), 90 chili di grazia e fascino, nonostante qualche rotolino di grasso di troppo.

CANDICE-Modella

[Link delle fonti per foto e testi: LINK1 LINK2]

SUI FIGLI DELLE COPPIE OMOSESSUALI IO STO CON DOLCE&GABBANA

Dolce-e-gabbana-e-Elton-John
Infuria la polemica tra i noti stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, omosessuali dichiarati da anni, ex coppia nella vita, e il cantante inglese Elton John. Il motivo di tale discordia è costituito dalle dichiarazioni fatte dalla coppia di stilisti sul concetto di famiglia e dalla definizione data ai figli delle coppie gay: bambini sintetici.

Com’è noto, Elton John e il compagno David Furnish, che da poco sono convolati a nozze, hanno due figli nati da madri surrogate. Nel sentire che Dolce e Gabbana, in un’intervista su Panorama, hanno difeso la famiglia tradizionale, sono montati su tutte le furie dichiarando di fare un bel falò dei loro abiti che portano la firma dei due stilisti siciliani. Non contenti, hanno inneggiato al boicottaggio del marchio di moda con l’hashtag #BoycottDolceGabbana, raggiungendo i 4000 like sul loro profilo Instagram in poche ore.

Vediamo, a questo punto, quali sono state le dichiarazioni di Domenico Dolce:

«Non l’abbiamo inventata mica noi la famiglia. L’ha resa icona la Sacra famiglia, ma non c’è religione, non c’è stato sociale che tenga: tu nasci e hai un padre e una madre. O almeno dovrebbe essere così, per questo non mi convincono quelli che io chiamo figli della chimica, i bambini sintetici. Uteri in affitto, semi scelti da un catalogo. E poi vai a spiegare a questi bambini chi è la madre. Procreare deve essere un atto d’amore, oggi neanche gli psichiatri sono pronti ad affrontare gli effetti di queste sperimentazioni. La vita ha un suo percorso naturale, ci sono cose che non vanno modificate. E una di queste è la famiglia».

Da parte sua, Elton John ha definito quello degli stilisti un pensiero antico, per nulla al passo coi tempi, proprio come la loro moda.
Ma Domenico Dolce non sembra lasciarsi scalfire dalle dichiarazioni del cantante britannico né pare tema un calo del volume d’affari. Tant’è che ha replicato:

«Sono siciliano e sono cresciuto con un modello di famiglia tradizionale, fatto di mamma, papà e figli. So che esistono altre realtà ed è giusto che esistano, ma nella mia visione questo è quello che mi è stato trasmesso, e con questi i valori dell’amore e della famiglia. Io sono cresciuto così, ma questo non vuol dire che non approvi altre scelte. Ho parlato per me, senza giudicare le decisioni altrui».

Che dire? Amo la musica di Elton John ma questa volta sto con Dolce&Gabbana … anche se non faccio pazzie per la loro moda. Tra l’altro non me la posso permettere!

[fonte: La Stampa; immagine da questo sito]

BELEN VS SIMONA MOLINARI: LO STILE, C’È CHI CE L’HA E CHI NO

SANREMO: SECONDA SERATA
Ricordate il festival di Sanremo 2012 e la farfallina inguinale sfoggiata da Belen Rodriguez scendendo dalla famosa scalinata? Se non ve lo ricordavate, vi rinfresco la memoria con la foto sotto il titolo.

E vi ricordate la querelle nata attorno agli slip: ce l’ha oppure no? E tutto il business nato attorno ai famosi slip invisibili che, grazie a Belen, sono andati a ruba?

Ecco, ora guardate la mise della cantante Simona Molinari. Così si è presentata sul palcoscenico di Sanremo.

DIETRO …
Sanremo:  Quarta Serata

… E DAVANTI
nude-look-di-simona-molinari

Che dire? Indossa un abito nude look che potrebbe far inorridire i benpensanti, esattamente quanto ha fatto storcere due anni fa il naso la farfallina della Rodriguez. Eppure io trovo che sia semplicemente splendida, per nulla volgare, una dea. Fantastica.

Insomma, lo stile, c’è chi ce l’ha e chi no.

[foto Molinari 1 dal Corriere.it e 2 da questo sito]

Pianeta blu (jeans)

Anch’io avevo dedicato un post ai jeans un po’ di tempo fa (Buon-compleanno a voi amati jeans). Molto interessante il post di Nina che ribloggo volentieri.

Le Journal de Nina

james dean

L’univesro nascosto dietro cio’ che comunemente identifichiamo come un paio di pantaloni talvolta é stupefacente. Il capo d’abbigliamento più utilizzato al mondo, da persone appartenenti ad ogni classe sociale e di ogni età, apre orizzonti molteplici…

Un mini glossario da esploratore potrebbe essere utile al fine di approcciarsi in modo differente a cio’ che sembre più comune.

COWBOY: l’origine del jeans é storicamente legata alla figura del cowboy (oltre a quella più classica dell’operaio). Cio’ é testimoniato dagli archivi della Lewi’s negli USA, dove sono conservati gelosamente un numero considerevole di pantaloni vissuti, consumati, rattoppati, dal valore inestimabile, e dall’età incalcolabile (per chi non é esperto come noi).Jean cowboy 1950

GIAPPONE: l’unico Paese dove il tessuto denim viene ancora prodotto secondo il processo tradizionale (e fedele). Credo sia superficiale soffermarsi sul valore…

COLLEZIONISMO: sono moltepici i collezionisti del jeans, oggetto considerato tuttaltro che banale da chi pratica una vera e propria caccia…

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SE L’ABITO NON FA IL MONACO E GLI SHORTS NON FANNO LA SGUALDRINA

lato b
Da un po’ di giorni fa discutere sul web una riflessione dello scrittore Marco Cubeddu sulla moda femminile dell’estate: indossare gli shorts, non solo per andare in spiaggia, ma anche in città.
La perplessità di Cubeddu, che scrive sulle pagine del quotidiano Il secolo XIX, nasce dall’aver osservato che questo capo di abbigliamento è particolarmente amato dalle giovanissime. Così racconta:

Qualche settimana fa ero a Roma, per lavoro. Trascorrevo la pausa pranzo a Villa Borghese, sdraiato su una panchina. Quando, a un certo punto, sono stato travolto da una nube di “quartine” in shorts. Con “quartine”, a Roma, si intendono quelle di quarta ginnasio, cioè quattordicenni. Era appena finita la scuola. E le strade si sono riempite di ragazzine di 2a e 3a media. Non solo in shorts, ma anche in “minishorts” (il jeans arrivava molto più in alto della fine dei glutei). Alcune si toglievano le magliette e restavano in reggiseno. Altre, con le magliette bagnate per i gavettoni, il reggiseno non lo indossavano.

Qualche tempo dopo Cubeddu racconta l’episodio mentre è in compagnia di amici. Una delle donne presenti commenta: “non possono lamentarsi se poi le stuprano”.

Questa è la frase incriminata da cui subito Cubeddu prende le distanze osservando: Ovviamente, non esiste e non deve esistere nessuna giustificazione o attenuante per azioni tanto barbare.

Ecco, secondo me il punto è questo: non è l’abito che fa il monaco, quindi non sono gli shorts a fare le sgualdrine, ma è la mente malata di certi uomini il problema.

Io ho vissuto la mia adolescenza negli anni Settanta. Chi li ricorda, avrà notato che nella moda ci sono i corsi e ricorsi storici. E questa è l’estate del revival degli shorts, delle zeppe (che non piacciono agli uomini ma tanto a noi checcene …) e dei gonnelloni. Si va da un estremo all’altro: o troppo coperte o troppo scoperte, o rasoterra con le espadrillas o arrampicate sulle zeppe, preferibilmente quelle di corda. proprio come si usava negli anni Settanta e nel mio guardaroba e nella scarpiera avevo mezze dozzine di esemplari di ciascuna specie.

Ora sono certa che qualcuno dirà: ma erano altri tempi. Sicuramente: erano tempi in cui si poteva girare tranquillamente in shorts senza che uomini in calore ci sbavassero dietro. Si limitavano a guardare e ad apprezzare (chi non ha ricevuto almeno un complimento dai tanti militari di leva che allora giravano a frotte in città?). Guardare e non toccare, come il cartello che gli ortolani esponevano sulle merci fresche di giornata.

Erano altri tempi soprattutto per ciò che riguarda gli orari d’uscita delle giovanissime.
Cubeddu nel suo post si riferisce ad un’osservazione fatta a Villa Borghese in pausa pranzo. Credo che in quella circostanza le ragazzine in pantaloncini non avessero nulla da temere. Diverso è il discorso se parliamo di discoteca e uscite notturne.

Una cosa è incinfutabile: noi ragazzine degli anni Settanta non potevamo uscire la sera dopo cena, a meno che non fossimo accompagnate da persone adulte. Io ho un fratello maggiore di sei anni e spesso al mare, perché in città non era pensabile uscire la notte, mi era permesso andare con lui e i comuni amici (non che lui ne fosse felice, intendiamoci!).

Ora pare che le giovanissime abbiano tutti altri orari. Questo, tuttavia, dipende dall’educazione ricevuta in famiglia e dalla fiducia che si ripone nella prole, ovviamente. Io non ho figlie femmine ma ho avuto le mie belle gatte da pelare con i figli adolescenti che volevano uscire tutte le sere d’estate. Un vero e proprio braccio di ferro. Figuriamoci con le femmine …

Per convincere i genitori, le ragazze che fanno? A volte s’inventano accompagnatori più grandi e anche qui mi pare il caso di dire che ai miei tempi eventuali “accompagnatori” dovevano presentarsi ai genitori, preferibilmente ben vestiti e con modi gentili, e solo dopo lunga e attenta ispezione da parte della madre, più che da quella del padre, si poteva strappare un consenso che aveva, comunque, carattere eccezionale. Uno strappo alla regola, nulla di più. Ma ora? Ho l’impressione che questa eventualità sia da scartare perché verrebbe considerata una vera e propria onta da parte della ragazzina in questione che, con aria da vittima incompresa, sarebbe ben pronta ad obiettare: ma non vi fidate di me!

La maggior parte delle volte, però, l’opzione preferita è quella del “così fan tutte“. Quindi, se tutte le 14-15enni possono uscire la sera e andare in discoteca, che problema c’è? Il problema è che se tutte son pronte a dire che le altre possono, nessun genitore, a meno che non ingaggi un investigatore, sarà mai in grado di verificare che le altre mamme e gli altri papà permettono alle loro figlie di uscire la sera e fare le ore piccole.

belen shorts
Tornando all’abbigliamento, il problema basilare è, a mio parere, quello dell’imitazione.
La moda, si sa, è contagiosa. Se sulle pagine delle riviste (non solo, anche quelle dei quotidiani on line più seguiti) si vedono attrici e cantanti che vanno a fare shopping indossando short striminziti – comprese le neomamme come la Rodriguez che, tuttavia, credo sia più invidiata dalle mamme normali, quelle che a fine gravidanza si trovano ancora dieci chili da smaltire e una pancia che sembrano ancora al quinto mese, che imitata dalle ragazzine – è palese che quel capo d’abbigliamento sia il preferito dalle giovanissime. Se la moda fosse quella di andare in giro con il burqa, sarebbe lo stesso.

A questo proposito, Cubeddu osserva: Siamo così convinti che mettersi il velo sia prigione e i minishorts siano libertà? No, non lo siamo, almeno io non lo sono.
La questione è culturale: una donna che indossa il velo lo fa, nella maggior parte dei casi, perché costretta ma nello stesso tempo convinta che sia la cosa più giusta da fare. Dicono che il velo preservi da sguardi indiscreti e che garantisca alle donne la rispettabilità che meritano. Su questo si potrebbe discutere fino a domani ma è fin troppo evidente che i punti di vista sarebbero antitetici perché la cultura che abbiamo noi in occidente non collimerà mai con quella orientale, specie quella dei Paesi islamici.

Detto questo, mi chiedo: gli shorts sono sinonimo di libertà? Secondo me lo sono come qualsiasi altro capo di abbigliamento che scegliamo di indossare. Purché il luogo sia quello adeguato.
Ad esempio, come non approvo che i maschi si presentino a scuola con i bermuda, allo stesso modo non gradirei vedere le ragazze con gli shorts nei corridoi scolastici. Uso il condizionale perché in effetti non ne ho mai vista una. Se lo facessero (ammesso che il dirigente non ponga un veto come ha fatto qualcuno per i bermuda maschili e per i leggins indossati dalle femmine), più che di libertà si tratterebbe di provocazione. In quel caso l’abbigliamento verrebbe sentito come sfida e sarei quasi d’accordo con l’osservazione fatta dall’amica di Cubeddu.

Ma quando, qualsiasi sia la moda, ciò che si indossa viene portato con naturalezza, seguendo le tendenze, pur senza lasciarsi andare all’omologazione, e preferibilmente con buon gusto (insomma, con qualche chilo in più e la cellulite strabordante sarebbe il caso di rassegnarsi ai gonnelloni piuttosto che portare i pantaloncini), non si tratta di provocazione né di libertà. Non dobbiamo criminalizzare la moda né pensare che un abito sia più conveniente di un altro. I veri criminali sono quelli che vedono malizia dove non c’è e soprattutto pretendono di avere con la forza ciò che non si limitano a guardare e apprezzare.

[LINK della fonte; immagine da questo sito]

ADDIO OTTAVIO, RE DEI COLORI

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Ottavio Missoni, scomparso oggi all’età di 92 anni, era nato a Ragusa nel 1921, anche se aveva passato tutta la sua infanzia e giovinezza a Zara. Diceva che, quando ci nasci, la terra dalmata non si può mai scordare così come lo stilista non aveva mai dimenticato la “sua” Trieste, in cui aveva vissuto la prima età adulta, aperto “bottega” (un semplice laboratorio di maglieria in società con l’amico Giorgio Oberweger) e conosciuto Rosita Jelmini che sposerà nel 1953, dopo cinque anni di fidanzamento.

Ma Ottavio Missoni non è stato solo un creativo al telaio, dal quale sono usciti gli splendidi e unici capi di maglieria, quasi arazzi, conosciuti in tutto il mondo. Ottavio era anche uno sportivo e per anni si dedicò all’atletica leggera, specialità in cui ottenne prestigiosi riconoscimenti.
Durante la seconda guerra mondiale combatté nella battaglia di El Alamein e venne fatto prigioniero dagli alleati. Dopo avere passato 4 anni in un campo di prigionia in Egitto, nel 1946 fece ritorno in Italia, a Trieste, dove si iscrisse al Liceo Scientifico intitolato all’irredentiscta Guglielmo Oberdan.

La moglie di Missoni, Rosita, apparteneva ad una famiglia agiata che possedeva una fabbrica di scialli e tessuti ricamati a Golasecca, in provincia di Varese. Fu così che i due sposi ben presto lasciarono Trieste spostando l’intera produzione artigianale a Sumirago, che diventò il quartier generale della Maison.

Come non aveva mai dimenticato la Dalmazia, sua terra d’origine, Ottavio non aveva mai scordato Trieste, la città adottiva che l’aveva accolto esule e dove aveva mosso i primi passi nell’attività in cui, più tardi, avrebbe espresso al meglio tutto il suo talento creativo.
Nel 1983 la città giuliana gli conferì il premio San Giusto d’Oro, riconoscimento per quei “triestini” (naturali o adottivi!) che portano alto il nome di Trieste nel mondo. Missoni non smise mai di ritornare nella città della bora e non mancava ai raduni degli esuli dalmati. Nel 2008 l’allora sindaco Di Piazza lo insignì della cittadinanza onoraria.

Una vita, quella di Missoni, dedita alla famiglia e al lavoro. Per questo fin dal suo primo trasferimento a Sumirago aveva deciso di stabilire nel paese in provincia di Varese l’azienda e la residenza. Un matrimonio felice e duraturo, quello con Rosita, rallegrato dalla nascita di tre figli: Vittorio, nato nel 1954, Luca nel 1956 e Angela nel 1958. Lo sorso gennaio Ottavio dovette affrontare con forza la scomparsa del primogenito: l’aereo da turismo su cui viaggiavano Vittorio Missoni e la moglie scomparve presso Los Roques, in Venezuela. Una tragedia che ha portato con sé tanto dolore e speranza ma che non ha restituito i corpi degli sventurati.

Un dolore dal quale forse Ottavio non si era mai ripreso.
Ora spero che padre e figlio si siano riuniti in un altro mondo, forse meno colorato. Ma i colori di Missoni, assieme al suo sorriso buono, rimarranno sempre nei cuori di chi l’ha amato e stimato nella lunga carriera. Un successo che non gli ha mai fatto perdere l’umiltà che caratterizza la gente dalmata e giuliana, gente che ha dovuto combattere per la propria terra e che la porta per sempre nel cuore, anche quando vive lontana dalle sponde blu dell’Adriatico.

Addio, Ottavio. Possa un soffio della “tua” bora portarti questo saluto.

Ottavio Missoni

REGGISENO MON AMOUR … ADIEU?

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Ha da poco festeggiato il suo primo secolo eppure il reggiseno pare destinato a finire in qualche cassettone assieme ad altri “cimeli d’abbigliamento”.

Una recente indagine, infatti, ha rivelato che portare il reggiseno sarebbe addirittura controproducente. Pare che il suo uso indebolisca i muscoli pettorali e impedisca al seno di reggersi da solo. In altre parole: una volta tolto, se portato per molti anni, il seno cadrebbe inesorabilmente. Al contrario, non portandolo affatto, i muscoli si allenerebbero da soli e sarebbero in grado di sostenere … l’impalcatura!

La ricerca, curata dal professor Jean-Denis Rouillon, specialista di medicina sportiva del Centre Hospitalier Universitaire di Besancon, in Francia, ha coinvolto 130 volontarie, d’età compresa tra i 15 e i 35 anni, alcune delle quali hanno accettato di rinunciare al reggipetto. Tutte si sono sottoposte ad una regolare misurazione del seno e i risultati hanno dimostrato una maggior resistenza del seno a cadere in quelle donne che hanno rinunciato al push-up e simili.

Nell’articolo francese in cui vengono riportati i risultati della ricerca, si legge una cosa alquanto inquietante: A l’âge de 25 ans, les seins d’une femme sur deux présente des signes de relâchement (All’età di 25 anni il seno di una donna su due inizia a presentare dei segni di cedimento).
Posso assicurare che per me non è stato così, appartenendo alla generazione di ragazzine che negli anni ’70 se ne andava in giro tranquillamente senza reggiseno. Allora si usava e non vi dico che spettacolo offrivamo noi giovanette quando era necessario correre per prendere al volo l’autobus alla fermata!
Fatto sta che dopo due allattamenti, protratti per 7 mesi ciascuno, e alla mia non più giovanissima età del reggiseno non avrei proprio bisogno, anche se lo indosso per non sentirmi a disagio e poi, grazie al mio secondogenito, ho guadagnato addirittura una misura! Per questo credo che il risultato della ricerca francese possa essere attendibile.

Tuttavia ora al reggiseno non rinuncio: ne ho una trentina di tutti i colori e forme, con pizzo e senza pizzo, sexy e sbarazzini …. insomma, sono troppo belli per buttarli via.

QUANDO INDOSSARE LE CALZE ERA SINONIMO DI ELEGANZA

storia calze
Non so se l’avete notato: da qualche tempo va di moda non indossare le calze (o i collant) in tutte le stagioni. Specie nello star system uscire di casa con le gambe coperte, d’inverno soprattutto, per recarsi a qualche serata mondana, alle sfilate di moda, a qualche trasmissione televisiva come ospiti, alla consegna di un premio o semplicemente per fare shopping in centro, pare sia diventato molto out. Insomma, sotto il cappotto niente … o quasi.

Ricordo un matrimonio a cui partecipai, appena ventenne, in pieno luglio. La temperatura era prossima ai 30° eppure mia madre mi obbligò ad indossare un collant velatissimo perché, diceva, andare a nozze senza calze era una cosa davvero da cafoni. Così, con addosso il mio bel vestitino di seta pura color rosa (confezionato dalle mani di fata della mia mamma), i collant e il cappellino in testa, in tinta con l’abito e con tanto di veletta (altro accessorio cui non si deve rinunciare mai, secondo la genitrice, in occasione di un matrimonio), uscii di casa e … fui derisa da tutti. Ecco il prezzo che si deve (doveva?) pagare per essere eleganti. Ma, come diceva l’amato Poeta: tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico (lo lascio al maschile ché è meglio).

Per il mio matrimonio scelsi di indossare le calze e il reggicalze, uno di quelli che mia mamma indossava negli anni Cinquanta, tutto di raso e pizzo guarnito con un piccolo nastro di seta azzurro … la tradizione che impone alla sposa di indossare qualcosa di vecchio e di azzurro era salva. Naturalmente nessuno ebbe da dire alcunché, anche perché nessuno mi sollevò la vaporosa gonna dell’abito da sposa né io l’alzai, come si usa, per fare vedere la giarrettiera.

Insomma, per la mamma non è concepibile andare a teatro o a qualche cerimonia pubblica senza indossare le calze. Ma quando sono state inventate?

Già nelle tombe dei faraoni egizi sono stati ritrovati frammenti di calze lavorate a maglia, mentre si sa che gli antichi Romani avvolgevano le gambe con fasce di tela o lana. L’uso delle calze (parola che deriva da calcea, d’uso nel latino tardo settentrionale, derivata dal maschile calceus che indicava la scarpetta di cuoio fine indossata in casa oppure nella commedia teatrale, che a sua volta sembra derivare da calx, “tallone”) era un tempo esclusiva delle donne più ricche e comunque non era un vezzo poiché una signora non poteva andare in giro mostrando le gambe. Fu così che solo nel Medioevo, dopo il 1300, si diffusero le calze di panno e di seta, lunghe fino al ginocchio e quasi sempre di colore rosso.

Solo intorno al 1400 le dame veneziane diffusero la moda delle calze lunghe, antenate della più moderna calzamaglia, ricamate a mano e impreziosite da trine e merletti.
Nel 1589 l’inglese William Lee inventò il primo telaio per produrre le calze in serie. La produzione divenne sempre più imponente con il passare dei decenni, fino ad arrivare, nel Seicento, alla nascita della potente corporazione inglese dei “calzettai”.

Durante il Rinascimento fecero anche la loro comparsa le prime giarrettiere che, in verità, erano solo dei laccetti che stringevano le calze sulle gambe.
Nel Seicento si impose il corsetto, una specie di guaina che avvolgeva il corpo della donna da sotto il seno fino al ventre, composto da tela rinforzata da stecche. Ben presto divenne l’indumento intimo per eccellenza; nell’Ottocento, infatti, tutte le donne volevano avere il “vitino da vespa” (Rossella O’Hara docet).

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Proprio nel XIX secolo l’utilizzo delle calze, di lana o seta, ebbe il suo exploit. Poiché era sconveniente per una donna mostrare le gambe, le calze portavano un decoro (intarsio o ricamo) sul collo del piede o sulla caviglia. Erano sorrette dalla giarrettiera che, secondo una leggenda, fu inventata da Gustav Eiffel (sì, proprio quello della torre parigina!), ma in realtà fu il merciaio Fereol Dedieu a idearne, nel 1876, un prototipo destinato ad essere sostituito dal più comodo reggicalze, creato dal sarto Paul Poiret attorno al 1910. Pare che l’immagine di Marlene Dietrich, seducente nel suo reggicalze nero, che comparve nella locandina del film L’angelo azzurro, abbia contribuito a lanciare questo
indumento intimo.

marlene dietrich

Fu, però, soltanto negli anni Trenta che l’uso delle calze si impose definitivamente, grazie all’invenzione della fibra di nylon, la prima fibra sintetica definita “resistente come l’acciaio e delicata come una ragnatela”. La ditta che ne iniziò la produzione si trovava negli Stati Uniti d’America.
Il chimico francese Eleuthère Irènèe DuPont de Nemours, immigrato nello stato americano del Delaware, nel 1802 aveva aperto un impianto per la produzione di polvere nera. Da quella piccola azienda di tipo familiare nel 1938 uscì il nylon inventato da Wallace H. Carothers.
La vendita delle calze di nylon all’inizio fu esclusiva di pochi negozi di Wilmington, il centro in cui aveva sede la DuPont de Nemours. Ma la richiesta che ben presto provenne da tutto il Paese, convinse la piccola azienda a distribuire il prodotto sul mercato americano. Dopo il primo anno le vendite avevano già raggiunto la quota di 64.000.000 paia, decretandone il successo.

Erano calze eleganti con la cucitura dietro la gamba che aveva il pregio di impreziosire l’arto femminile. Tant’è che quando, con lo scoppio della II Guerra Mondiale, la produzione fu interrotta, le donne si disegnavano sulle gambe quella cucitura posteriore, quasi potessero rinunciare alle calze ma non al vezzo.
Negli anni Cinquanta si assiste a un vero e proprio boom: le calze di nylon rinunciano alla cucitura ma vengono prodotte in svariati colori e velature. La produzione lievita e i costi diminuiscono, portando l’indumento intimo alla portata di tutte le gambe, o quasi.

sofia loren

Quando, negli anni Sessanta, sempre grazie al marchio DuPont, viene lanciato sul mercato un nuovo materiale sintetico, la lycra, inizialmente utilizzata nelle calze medicali, il passo verso i collant è breve. Contemporaneamente all’invenzione della minigonna, idea geniale dell’inglese Mary Quant, s’impone il collant di pizzo, antesignano dei più moderni collant decorati in modo vario e dei nuovissimi footless (o leggins che dir si voglia). Siamo arrivati agli anni Settanta e la fantasia delle case produttrici di collant pare sfrenata. Contemporaneamente tornano di moda le calze ma le giarrettiere e i reggicalze sono definitivamente chiusi nei bauli delle nonne e bisnonne: è ormai giunta l’ora delle autoreggenti.

Insomma, da questa breve “storia della calza” si può dedurre che la storia della biancheria intima è parallela a quella della liberazione femminile: il cambiamento dei modi di vestire segna il passaggio dalla condizione sociale di costrizione a quella di libertà. Sembra quasi che ora si sia imboccata la strada a ritroso oppure che la libertà vada intesa, oggi, come esibizione della nudità, libertà conquistata dopo aver messo nel cassetto le calze e i collant. Peccato, però, che non tutte le donne siano delle top model (anche loro, comunque, non sono perfette) e che così si mettano a nudo anche i difetti: cellulite, in primis, ma anche fragilità capillare, vene varicose, rughe dovute all’età, pelle cascante per le più magre e cuscinetti adiposi per le più in carne.

E chiamiamola libertà. A me pare solo mancanza di buon gusto.

anne-bancroft

[immagine sotto il titolo da questo sito; immagine da “Via col vento” da questo sito; immagine Marlene Dietrich da questo sito; foto di Sofia Loren da questo sito; foto di Anne Bancroft da questo sito. FONTI: abitiantichi.it, wikipedia, calze.com, liberaeva.com]

MODA’ A SANREMO CON UN BRANO DELLA COLONNA SONORA DI “BIANCA COME IL LATTE …”

Non ho seguito molto, almeno finora, Sanremo ma devo dire che la canzone dei Modà, “Se si potesse non morire”, mi ha colpito molto. Lo stile è quello, inutile negarlo, un po’ ripetitivo rispetto ad altri successi. Però, ascoltando le parole e seguendo la melodia, questo pezzo mi raccontava qualcosa di nuovo e, nello stesso tempo, di già sentito.

Ho scoperto solo da qualche minuto – non seguo molto giornali e tv che parlano del festival della canzone italiana, in questi giorni – che il pezzo dei Modà è uno dei brani compresi nella colonna sonora del film, in uscita il 4 aprile, tratto dal best seller di Alessandro D’Avenia Bianca come il latte rossa come il sangue. Alessandro ne ha dato notizia sul suo blog da cui ho scaricato il video sotto.

Buon ascolto e buona visione … aspettando il 4 aprile.

BUON COMPLEANNO A VOI, AMATI JEANS


Il 20 maggio 1873 vennero brevettati, negli Stati Uniti d’America, i mitici pantaloni, amati da molte generazioni e tuttora di gran moda: i blue jeans. Per la precisione, il brevetto fu depositato a San Francisco da Levi (nato Loeb) Strauss e Jacob Davis (nato Youphes). I neosoci decisero che il marchio «Levi’s and Jacob’s» era troppo lungo, quindi scelsero il più breve Levi’s, da allora e per sempre sinonimo dei pantaloni di tela blu di cui si celebra il 139° compleanno. Un’età che il capo di abbigliamento più venduto al mondo di certo non dimostra.

Il tessuto dei jeans, simile al Denim (di Nimes) ma più leggero, nasce a Genova. Si tratta di un tipo di fustagno molto resistente e leggero. Dal nome Gènes (Genova in francese) viene chiamato jean o jeane ed è già presente sul mercato europeo sin dalla fine del Medio Evo, mentre la sua trasformazione in pantalone da lavoro è da far risalire all’800, quando viene utilizzato per gli scaricatori del porto.

Probabilmente nessuno avrebbe mai immaginato che quest’umile pantalone da lavoro avrebbe avuto un successo planetario. A partire dal 1850 che il termine jeans viene utilizzato per identificare non il tessuto ma un determinato modello di pantaloni. Il modello di pantaloni lanciato dai soci Levi Strauss e Jacob Davis aveva cinque tasche e si era rivelato particolarmente adatto ai cercatori d’oro. Dopo circa un secolo, dagli anni ’40 del ‘900, i jeans diventano, prima negli Stati Uniti e poi in Europa, un capo di gran moda.

Oggi i jeans si indossano a tutte le età ed hanno le fogge più varie: larghi, stretti, a zampa sul fondo (stanno tornando di moda), a sigaretta, a vita bassa o bassissima, strappati, consumati, rattoppati … Il colore tipico dei jeans, blu scuro, ormai non è che una delle molteplici varietà di tinte in cui vengono prodotti questi pantaloni. Più o meno colorati, vengono prodotti e messi in vendita già lavati e poco importa se portandoli si sbiadiscono o in certe parti si consumino più che in altre. I jeans vanno vissuti e sono ancora più belli quando dimostrano i segni dell’età. Anzi, talvolta maggiormente apprezzati sono proprio quelli che escono direttamente dalla fabbrica consumati. Così non ci dobbiamo nemmeno dar la pena di farlo noi portandoli.

Dal lontano dì in cui i Levi’s sono comparsi sul mercato, non c’è casa di moda che non li abbia in catalogo. Certo, i prezzi sono diversi a seconda della firma. Ma ci si può accontentare anche di un paio anonimo se li sappiamo portare.


Ma i jeans hanno anche una storia da raccontare. Nei Paesi dell’ex area comunista, non so per qual motivo, non venivano prodotti o venduti. Negli anni Settanta a Trieste ci fu un vero e proprio boom economico favorito dall’arrivo in massa, ogni sabato, dei cittadini della ex Jugoslavia che ne compravano in quantità “industriali”, con il probabile intento di rivenderli clandestinamente nel loro Paese.
A quei tempi fecero affari d’oro i venditori ambulanti che avevano le loro bancarelle in piazza Ponterosso, sul canale che dalle rive porta alla chiesa di Sant’Antonio Vecchio. Increduli di fronte alle richieste esagerate di quel tipo di merce, i venditori iniziarono a specializzarsi nella vendita dei jeans e divennero ricchissimi. La prosperità economica li portò a costruirsi le ville sull’altopiano carsico o sull’incantevole strada costiera dalla quale si accede alla città giuliana. Ville che fino a quel momento erano un’esclusiva dei ricchi industriali e professionisti triestini.

Come sempre capita, questo boom ebbe anche i suoi risvolti negativi: presi dall’euforia dei nuovi acquisti, gli slavi (in dialetto sciavi, parola che effettivamente veniva usata con un certo disprezzo dai triestini inorriditi da un’invasione che veniva paragonata ad un’orda barbarica) spesso abbandonavano per strada, ovunque capitasse, i loro pantaloni per indossare i jeans nuovi di zecca. La città durante il sabato si trasformava ed era realmente invivibile. Gli slavi bivaccavano sul sagrato della chiesa di Sant’Antonio, il cui ingresso principale si affaccia su una bella scalinata, creando non poco disagio ai passanti.

Con il trascorrere degli anni, specialmente dopo la caduta del muro di Berlino, questa invasione è andata sempre più scemando. Così ora i triestini possono godersi la loro vita tranquilla, caratterizzata da una certa ripetitività – le “vasche” in Viale, la passeggiata sul Corso, il caffè in piazza Unità d’Italia -, e il loro shopping in santa pace. Del boom economico, però, non è rimasta neppure l’ombra e tutto a causa dei jeans che ora vengono prodotti e venduti ovunque.

Gli anni sono passati anche per me. Non sono più la ragazzina viziata che faceva fare chilometri ai genitori per poter acquistare, prevalentemente in Veneto, i jeans Fiorucci, i preferiti. Ma quei pantaloni tanto amati occupano sempre lo spazio privilegiato nel mio guardaroba. Strappati o meno, con le borchie o con gli strass, blu scuri o chiari, loro continuano ad essere sempre i miei amati jeans.

[fonti: Il Corriere e thisismyworld; immagine sotto il titolo da questo sito]