RITORNO ALLA NORMALITA’ (O QUASI)

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Un’altra assenza, lunga. Un altro post per spiegarne il motivo. Ma, al di là di tutto ciò che è successo nell’ultimo mese, la verità è che la voglia di scrivere – se non il tempo – è sempre poca. Troppo poca. Farò un’eccezione per raccontare un’esperienza che, nel male, ha avuto i suoi lati positivi.

C’eravamo lasciati con il post in cui auguravo a tutti un buon Natale. Ed è stato buono, in fondo.

Programmavo le mie lunghe vacanze. Troppo lunghe per molti, quelli che non sanno la fatica che si fa con il lavoro a casa e a scuola; mai abbastanza per chi, come me, si sente sempre più “spremuta” da un lavoro che si ama ma è sempre più stancante. Gli anni passano, se ne sente il peso. A casa e a scuola.

Gli anni passano per tutti. Le mamme invecchiano e, a volte, fanno passi azzardati. A volte inciampano, perché corrono come se facessero a gara con il tempo. Ma lui è più veloce di noi, non c’è nulla da fare.

C’era un tappeto nella cucina di mia mamma. Più adatto a un bagno che a una cucina. “Mamma, quel tappeto lo faccio volare giù dalla finestra!”, ho detto più volte, inciampandomi. Gliene ho comprato uno adatto, di quelli antiscivolo, niente di speciale. Un tappetino normale. “Brutto”, dice lei, e lo ripone in un angolo del ripostiglio. Là l’ho trovato, arrotolato per bene. Dopo che mia mamma il 29 dicembre, giorno del suo compleanno (non dico gli anni altrimenti mi lincia… questo è un luogo pubblico, in fondo), è inciampata nel tappeto che più le piaceva. Poco adatto a una cucina ma perfetto per rompersi il femore.

Ripenso al mese che è appena trascorso. Corri in ospedale (a 60 km di distanza), mettendo quattro cose in fretta in un borsone, senza avere idea di cosa fosse successo davvero, senza pensare che quelle quattro cose non sarebbero bastate per il periodo che mi aspettava. Lungo. Tre settimane intense di corse all’ospedale, divisa tra l’assistenza a mia mamma e quella agli altri vecchi di casa: papà e zia 88enne (lei non si offende se rivelo l’età).

Fortunatamente ero ancora in vacanza, quindi ho chiesto “solo” due settimane di aspettativa. Il tempo di organizzarmi e di capire cosa fosse meglio fare. Portare mamma e papà a casa mia? In fondo abbiamo un’ottima struttura per la riabilitazione dietro casa. E la zia? Rispedirla a casa sua (abita a Milano), come fosse un pacco? Non se ne parla. Mamma vuole aspettare di vedere come andranno le cose al suo ritorno. Ha preso un impegno, ha deciso di prendersi cura di lei, non torna indietro.

Io a casa ci sono tornata una settimana fa, eccezion fatta per il giorno dell’Epifania, perché avevo bisogno del pc per inserire i voti sul registro (oltre a far da badante ho dovuto correggere un pacco e mezzo di compiti… l’altra metà li avevo coretti prima di Natale) e di mettere nel borsone altre quattro cose. E poi rassettare la casa, lavare e stirare, per non abbandonare del tutto mio marito. Una giornata lunghissima, ore sfruttare al secondo, senza aver l’impressione di perdere tempo. Ogni tanto capita anche questo, capita soprattutto quando la tua vita è in un certo senso sconvolta. Insomma, capita quando ci si sente lontani dal solito trantran, perché forse a volte è la noia che fa sembrare le giornate troppo corte. Più siamo annoiati e più perdiamo il tempo. L’ho capito nelle tre settimane da badante.

Da una settimana sono tornata eppure non riesco ancora del tutto a riprendere quel trantran. Ero a Trieste dai miei e avevo la testa qui, pensavo ai miei allievi che erano senza supplente, ai progetti che dovevo seguire e che sono andati avanti senza di me. E’ proprio vero che tutti sono utili e nessuno è indispensabile.

Ora sono a casa e la mia testa si fa più volte al giorno quei 60 km. Ripenso a quanto sono stata indispensabile davvero in questo momento straordinario. Ripenso alle parole di mia madre: “Non avrei mai pensato che facessi tanto per noi”. Eh già, perché una figlia di solito abbandona i genitori anziani al loro destino…

Non sono stata una figlia modello, è vero. L’unica cosa di cui i miei genitori erano davvero orgogliosi è stato il mio successo negli studi. Ora credo di aver avuto il modo di riscattarmi.

Tornata in classe, ho detto ai miei allievi che questa esperienza è stata faticosa ma nello stesso tempo mi ha insegnato molto. Ad esempio, che i genitori fanno tanto per noi, ci allevano, ci educano, ci sostengono, ci fanno studiare, contribuiscono alla nostra realizzazione. C’è chi lo fa meglio e chi peggio. Ma alla fine tutti, prima o poi, presentano il conto. Arriva il giorno in cui dobbiamo rendere, almeno in parte, ciò che abbiamo ottenuto.

Io sono stata orgogliosa di farlo e continuerò a fare ciò che posso, nel miglior modo possibile, affinché mamma e papà possano dire di avere una brava figlia. Perché in fondo ciò che conta è questo.

E ora che le cose a Trieste sono sistemate (ho trovato una persona fidata che mi ha sostituita), cerco di tornare faticosamente alla normalità. Quei 60 km che, giovanissima sposa, avevo frapposto tra me e mamma ora mi pesano molto. Volevo andare il più possibile lontano da lei. Ora, però, mi sento troppo lontana.

[immagine da questo sito]

LIBRI: “GLI SDRAIATI” di MICHELE SERRA

PREMESSA
Di solito non mi fiondo in libreria a comperare dei libri di successo, quelli di cui tutti, ma proprio tutti, parlano. Specialmente se trattano argomenti tipo la scuola o il mondo dei giovani in generale.
Anche il libro di Michele Serra ha dovuto attendere… sinceramente l’ho acquistato approfittando dell’offerta Feltrinelli di due libri a scelta al prezzo di 9,90 euro.
L’ho aperto senza troppa convinzione eppure fin dalle prime due pagine ho capito che non avrei potuto staccarmene. La lettura è stata una piacevole sorpresa.

michele-serra-repubblica-1L’AUTORE
Michele Serra Errante, classe 1954, romano di nascita ma cresciuto a Milano, è un giornalista, scrittore, autore televisivo e umorista italiano.
Dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di Lettere ma non porta a termine gli studi. Nel 1975 inizia a lavorare per l’Unità svolgendo la funzione di dimafonista (tecnico del giornale addetto alla trascrizione del pezzo che i collaboratori esterni hanno registrato al centralino), solo in seguito inizierà la carriera giornalistica in un primo tempo dedicandosi alla cronaca sportiva e in seguito agli spettacoli.
Dalla fine degli anni Ottanta entra in politica, coltivando allo stesso tempo la passione per la scrittura e collaborando anche, come autore, a degli spettacoli televisivi.
In veste di scrittore esordisce nel 1989 con un libro di racconti, Il nuovo che avanza. Nel settembre 1997 esce, dopo tre anni di lavoro, il suo primo romanzo, Il ragazzo mucca cui seguono altri scritti come Cerimonie, pubblicato nel 2002, che gli vale due riconoscimenti: il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante e il Premio Gradara Ludens.
Nel 2013 esce per Feltrinelli Gli sdraiati, giunto alla quinta edizione, cui fa seguito Ognuno potrebbe, pubblicato nel 2015. [fonte Wikipedia]

sdraiati

IL LIBRO

«Ma dove cazzo sei?
Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai. Il tuo cellulare suona a vuoto, come quello dei mariti adulteri e delle amanti offese. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva renitenza o la tua soave distrazione e non so quale sia, dei due “non rispondo”, il più offensivo.
Per non dire della mia ansia quando non ti trovo, cioè quasi sempre. Ho imparato a relegarla tra i miei vizi, non più tra le tue colpe. Non per questo è meno greve da sopportare. Ogni sirena di ambulanza, ogni riverbero luttuoso dei notiziari scoperchia la scatola delle mie paure. Vedo motorini insanguinati, risse sanguinose, overdosi fatali, forze dell’ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale.
[…] L’unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un’alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono offesi da ogni tuo piccolo passo.
Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all’insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l’orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim. D’estate il disastro è più lindo, meno suggestivo del trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l’anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. L’orbita della Terra attorno al sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio, avete relegato il tempo atmosferico tra i dettagli che bussano vanamente sulla superficie del vostro bozzolo.
In cucina il lavello è pieno di piatti sporchi. Macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli. Questa è la norma, l’eccezione (che varia, in festosa sequenza) è una padella carbonizzata, o il colapasta monco di un manico, o una pirofila con maccheroni avanzati che produce le sue muffe proprio sul ripiano davanti al frigo: un passo ancora e avrebbe trovato salvezza, ma la tua maestria nell’assecondare l’entropia del mondo sta esattamente in questo minimo, quasi impercettibile scarto tra il “fatto” e il “non fatto”. Anche quando basterebbe un nonnulla per chiudere il cerchio, tu lo lasci aperto. Sei un perfezionista della negligenza.

[…] Il divano, il tuo habitat prediletto. Vivi sdraiato.
[…] In bagno, asciugamani zuppi giacciono sul pavimento. Appendere un asciugamano all’appendiasciugamani è un’attività che deve risultarti incomprensibile, come tutte quelle azioni che comportano la chiusura del cerchio. Come richiudere un cassetto, o l’anta di un armadio, dopo averli aperti. Come raccogliere da terra, e piegare, i tuoi vestiti buttati ovunque. […] Calzini sporchi ovunque, a migliaia. A milioni. Appallottolati, e in virtù del peso modesto e dell’ingombro limitato, non tutti per terra. Alcuni anche su ripiani e mensole, come palloncini che un gas misterioso ha fatto librare in ogni angolo di casa.
Qualche apparecchio elettronico lasciato acceso, sempre. Sulle pareti della casa buia, bagliori soffusi di spie, led, video ronzanti, come le braci morenti del camino nelle case di campagna. Spesso la televisione di camera tua replica anche in tua assenza uno di quei cartoni satirici americani (Griffin o Simpson) che dileggiano il consumismo.
[…] Tutto rimane acceso, niente spento. Tutto aperto, niente chiuso. Tutto iniziato, niente concluso.» [MICHELE SERRA, Gli sdraiati, Universale Economica Feltrinelli, giugno 2016, pp. 11-14, passim]

Avrete notato – mi rivolgo ai lettori che seguono le mie “recensioni” (scusate ma le virgolette le devo mettere perché ancora non riesco a chiamare così questi miei scritti) – che al contrario del solito ho iniziato riportando alcuni passi tratti dal primo capitolo. Perché mai?
Perché sono proprio queste prime pagine che mi hanno catturata (poi, dopo gli asterischi, ne spiegherò meglio il motivo) e credo che già dall’incipit il lettore possa decidere se amare questo libro o detestarlo con tutto il cuore. In tal caso, non dovrà nemmeno prendersi la briga di acquistarlo.

Il racconto è in prima persona e tratta l’irrisolto problema della difficoltà di comunicazione tra padri e figli, tra giovani e “vecchi”. Perché non importa quale età abbiano i genitori, per i figli sono stati e saranno sempre “i vecchi”. Da questo scontro generazionale nasce, dunque, l’incomprensione, l’insofferenza, la difficoltà di farsi capire e di essere capiti. Padri e figli non si comprendono perché appartengono a due mondi diversi.

Il padre dello “sdraiato” (non si fanno mai i nomi né dell’uno né dell’altro) con sottile ironia ma anche con una più o meno velata amarezza, alterna ricordi del passato, risalenti al periodo in cui anche lui era un adolescente, e riflessioni sul presente, sul suo essere o piuttosto sentirsi un padre incapace, sconfitto in partenza, arreso di fronte a una situazione che non ha sbocchi, in cui nessuna delle due parti sembra capace di fare un passo verso l’altra.

Quanto a me, in queste contingenze (frequenti) che schiudono porte e finestre su certi abissi di indolenza filiale, e di stordita complicità materna o paterna, non è che me ne senta al riparo, non è che mi senta migliore. Riconosco nelle mie fughe, nei miei silenzi, la stessa mancanza di autorevolezza, la stessa inconsistenza. (pag. 37 dell’edizione citata)

Ecco che il narratore si chiede come mai ai suoi tempi (ah, quant’è antipatica questa espressione per indicare ciò che è perduto per sempre!) i ragazzi erano ben felici di partecipare alla vita familiare, come ad esempio il momento tanto atteso della vendemmia, mentre gli sdraiati di oggi si alzano a mezzogiorno, senza alcuna intenzione di far levataccia per una cosa stupida come raccogliere grappoli d’uva tra i filari delle viti. Gli sdraiati sono animali notturni, passano la mattinata dormendo e il resto della giornata bivaccando, con la faccia sempre incollata allo smartphone.

Che cosa può fare, allora, un padre disarmato per smuovere il figlio sdraiato? Gli propone una cosa che certamente non sarà approvata: una passeggiata in montagna al Colle della Nasca. La proposta assume, via via, le fattezze di un invito rivolto con tono di supplica («Non farlo per me. Fallo per te», pag. 41), per diventare un vero e proprio tormentone che fa capolino, ogni tot pagine, perdendo quell’aspetto argomentativo che caratterizza i primi inviti, fino ad arrivare a vere e proprie minacce (da «Quando ti vedo così pallido, penso che ti farebbe molto bene venire con me al Colle della Nasca» a «se non vieni… ti rompo la schiena a bastonate», pagg. 33 e 91).
Ma per essere più convincente il padre deve mettersi nei panni del figlio: perché mai dovrebbe essere conciliante, fare qualcosa che non desta in lui il minimo interesse?

Se vieni con me al Colle della Nasca, ti pago. Un tanto al chilometro, o un tanto per ora di cammino, ci mettiamo d’accordo, non è quello il problema. Quanti soldi vorresti, euro più euro meno, per venire con me al Colle della Nasca? Contanti? Un assegno? Un bonifico? (ibidem, pag. 49)

Siccome, però, anche la pazienza ha un limite, esauriti i vari argomenti al padre non resta che affidarsi a un mediatore paranormale: Ti ho preso un appuntamento dal famoso ipnotizzatore Tarik Agagianian. Credo che sotto ipnosi tu possa agevolmente salire insieme a me fino al Colle della Nasca. (pag. 95)
Riuscirà il nostro eroe a portare il figlio al famoso Colle della Nasca?

***

La scrittura di Serra è certamente accattivante. Quel misto di ironia e di sarcasmo, quelle descrizioni realistiche e nello stesso tempo disarmanti (soprattutto per chi non ha avuto figli o li ha troppo adulti), quel suo modo di ricordare i fatti della vita del padre protagonista facendone un impietoso confronto con gli interessi dei giovani d’oggi, non possono lasciare indifferenti. Ma non è solo lo stile la vera forza di questo libro. Lo è ancor di più l’onestà. E ancora una volta chi non ha questo tipo di esperienza alle spalle – o non la sta vivendo tutt’oggi – non può comprenderla fino in fondo.
Siamo abituati a vedere genitori che ostentano tanta sicurezza, che descrivono i figli tessendo i loro elogi. Chi non si comporta così, generalmente ha poco o nulla da dire. Leggendo questo libro è come se Serra avesse dato voce a quei genitori che preferiscono o hanno preferito tacere.

Se poi vogliamo leggere più a fondo questo scritto – che non è un vero e proprio romanzo, non è un saggio, non è un diario, è piuttosto un racconto che tenta un’intropsezione psicologica – personalmente sono portata a considerarlo un chiaro esempio di ciò che Pirandello definiva “uomorismo”. Leggiamo le pagine di Serra e ridiamo, in modo più o meno consapevole, in virtù del maggiore o minore coinvolgimento nella narrazione. Ma tutto ciò che il padre descrive di questo figlio dovrebbe far riflettere, piuttosto, sulla sofferenza intima del protagonista. Come direbbe Pirandello, leggendo avvertiamo che dietro le parole del padre, volutamente ironiche e scanzonatorie, c’è una vera e propria sofferenza: il protagonista, infatti, vorrebbe avere un figlio fatto di tutt’altra pasta e, nel contempo, vorrebbe essere tutt’altro genere di padre. Quindi, da questo avvertimento del contrario, sempre seguendo la teoria di Pirandello, arriviamo al sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. (cit.)

Come dicevo nella premessa, sono stata catturata fin dalle prime pagine. Leggendo la parte che ho trascritto, mi sono rivista e ho rivisto i miei figli, specialmente il secondogenito. Quella noncuranza, quella superficialità, la trasandatezza che fa chiedere, a noi genitori “normali”, «ma da chi avrà preso?». Una domanda che non ha risposta, per quanti sforzi si possano fare. E la ricerca dei compromessi (ne è esempio eclatante la proposta “indecente” della gita al Colle della Nasca) è l’unica cosa che può garantire la sopravvivenza dei genitori, almeno di quelli che hanno i figli sdraiati.

Durante la lettura, soprattutto della parte che riguarda la gita in montagna, ho ripensato a Petrarca e alla sua ascesa al monte Ventoso. In una lettera indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro, il poeta descrive una gita compiuta assieme al fratello Gherardo sul monte Ventoso che si trova in Provenza, dove al tempo la famiglia viveva. La descrizione di questo difficile viaggio, della faticosa salita verso la cima del monte, per il poeta aretino in realtà assume un significato allegorico: tanto più arduo è il cammino tanto più Petrarca si convince del suo eccessivo attaccamento alle cose materiali. Soltanto quando si libererà dalle passioni terrene riuscirà a raggiungere la cima, che rappresenta allegoricamente la vita spirituale.
Ora vi starete chiedendo quale possa essere il legame tra il libricino di Michele Serra e l’epistola di Petrarca. Personalmente ho considerato la proposta-tormentone che il padre rivolge al figlio, la gita al Colle della Nasca, come un iter spirituale, quasi volesse, convincendo il figlio ad accompagnarlo, convincersi a sua volta di essere un buon padre. Arrivare in cima a quel monte assieme, significa, in un certo senso, trovare un punto d’incontro, un canale di comunicazione. Se riuscirà nell’intento, nulla potrà essere come prima.

In conclusione, non c’è niente che si possa fare con “i figli sdraiati” se non continuare ad educare, correggere ciò che è sbagliato, sottolineare ciò che è giusto, sanzionare ma allo stesso tempo premiare, negoziare, far capire che i ruoli fra genitori e figli sono diversi, ma se parliamo di un rapporto fondato sul reciproco amore, è necessario a volte fare qualche passo avanti e altri indietro, se necessario. Questo, evidentemente, Michele Serra lo sa.
Quello che posso assicurare, avendo ormai i figli sufficientemente grandi per poter essere definiti adulti – o quasi! – è che gli sdraiati prima o poi si alzano.

[immagine da questo sito]

GENITORI E FIGLI: L’ABBRACCIO IN UNA APP

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Può uno smartphone sostituire l’abbraccio di mamma e papà? Certamente no ma può far sentire meno l’assenza. Così almeno sostiene una bimba di soli sei anni che ha dato l’idea per la creazione di una App “per far sentire meno alle amiche la mancanza dei genitori”.

Lia ora ha sette anni. Lo scorso anno aveva chiesto a suo papà, Erwan Macé, sviluppatore di applicazioni per Bitsmedia, compagnia singaporiana di startup specializzate nel migliorare la vita delle persone, di inventare una App. “Mi ha sbalordito”, racconta Macé a Repubblica.it, “era partita dalla constatazione che tanti adulti fanno fatica a trovare il tempo per giocare con i loro figli. Le ho dato ragione: dovevamo dargli una mano”.

Così è nata Mini Hug, piccolo abbraccio. Il signor Macé dichiara di aver trovato nella piccola Lia un valido aiuto per creare l’applicazione.
L’abbiamo sviluppata insieme ed è stato fantastico – afferma Macè – : un bagaglio di esperienze. Un perfetto esempio di buon tempo trascorso insieme. Anche il nome l’ha scelto lei, io avevo pensato a Liapp, facendo un gioco di parole con il suo nome. Ma, devo ammetterlo, la sua idea è stata di gran lunga migliore”.

L’applicazione è gratuita, molto semplice da utilizzare e per ora è distribuita in 9 lingue, non in Italiano.
Ma di che cosa si tratta? Su Repubblica.it si legge che l’app consente agli utenti di creare un profilo per ogni figlio e annotare qualsiasi attività svolta con lui: dalla mezz’ora trascorsa a fare i compiti, al gioco di società, passando per la passeggiata al parco. Ogni esperienza equivale a dei punti, in modo da annotare i progressi fatti e persino competere con altri parenti, condividendo i propri risultati sui social network e stimolandosi a vicenda.

Nel leggere la notizia ho pensato subito al vecchio gioco elettronico Tamagotchi. Lo ricordate? I bambini dovevano prendersi cura sin dalla nascita di un cucciolo appartenente a una specie aliena, chiamata appunto Tamagotchi, e dargli il necessario per farlo crescere ed essere suo amico, evitandone la morte.
Ho pensato a Mini Hug come ad un gioco in cui i bambini dovessero in qualche modo insegnare ai genitori ad essere bravi, affettuosi, a prendersi cura dei propri figli.
Purtroppo la vita non è un gioco e credo che l’affetto di una madre e di un padre non si possa esprimere attraverso una semplice applicazione per telefonini. E poi, lo dicono anche gli esperti, non ha importanza la quantità di tempo che i genitori dedicano ai figli (specie nella società moderna in cui procreare è un lusso che obbliga, nella maggior parte dei casi, a lavorare tanto i padri quanto le madri), quanto la qualità.

Ho ripensato anche ai miei figli, quand’erano piccoli, e alla fortuna che hanno avuto nell’avermi quasi sempre presente. Il quasi è dovuto al fatto che nella loro infanzia ho dovuto fare la pendolare, studiare per un corso di perfezionamento all’università e per la terza abilitazione ottenuta quanto il primogenito aveva sette anni e suo fratello cinque.

Mai ho fatto mancare ai miei figli un abbraccio. Anzi, sono piuttosto “oppressiva”, come dicono loro. Me li sbaciucchio anche ora che hanno 26 e 24 anni!

Una settimana fa ho dovuto consolare il secondogenito afflitto dalle pene d’amore.
Lui è sempre stato un po’ scostante, da piccolo era molto indipendente, non voleva avermi attorno. Durante l’adolescenza era trasgressivo, voleva fare quel che gli pareva e non sopportava le regole. Quando gli dicevamo “è per il tuo bene”, sorrideva con un ghigno come volesse dire “ma non sapete che cosa sia il mio bene!”.

Crescendo è cambiato, ora è più affettuoso e coccolone. Vederlo piangere sulla mia spalla, poterlo stringere forte, baciargli i capelli … mi ha fatto tornare indietro nel tempo, con la differenza che quand’era piccolo non mi ascoltava mai e ora, invece, ha seguito i miei consigli.

Chiudo la parentesi e ritorno al topic. Onestamente non so quanto possa essere utile questa applicazione. Le stesse cose si possono fare anche senza l’utilizzo dello smartphone. Si prende una bella lavagnetta e si scrivono lì le cose che mamma e papà fanno assieme ai pargoli. La questione del punteggio, poi, non mi piace per niente. I figli hanno già molto da rimproverare ai genitori, ci manca solo che rinfaccino un punteggio scarso o l’impegno modesto con cui si dedicano a loro.
La condivisione sui social network, poi, è a dir poco deleteria, non meno della competizione fra parenti.

Insomma, c’è ancora qualcosa che si possa fare come “ai vecchi tempi”? Amare, per esempio. E un abbraccio non può essere sostituito da nessun aggeggio tecnologicamente avanzato. Almeno, io la penso così.

[immagine da questo sito]

logo pollicinoAGGIORNAMENTO DEL POST, 05/08/2014

Allo stesso argomento ha dedicato un post la dott.ssa Marzia Cikada, psicologa e psicoterapeuta, sul suo blog Pollicino Era un Grande: Bambini, APP e quando il tempo libero si trasforma in frustrazione. Ovviamente l’approccio è da professionista, mentre la mia voleva essere solo una riflessione sui tempi che cambiano, non sempre in meglio.
Da leggere, perché molto interessante, il contributo di Marzia.

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: PAPA’ PERCORRE 300 KM A PIEDI PER SALVARE LA VITA AL FIGLIOLETTO

ferejIl papà di Ferej, sei anni, vive in un piccolo villaggio dell’Eritrea e per salvare il suo bambino, affetto da una grave malformazione al cuore, ha percorso a piedi circa 300 km in due settimane per portarlo in un campo ospedaliero di Asmara. Qui operano dei medici italiani provenienti dall’Ospedale pediatrico apuano (Opa) di Massa (Massa Carrara).

La commovente storia di questo padre che ha salvato il figlio da morte certa è raccontata dagli stessi medici italiani che hanno impiantato un pacemaker nel petto del piccolo.
“Il padre – spiega Nadia Assunta, tra i dottori che hanno operato il bambino – lo ha portato stremato al campo dopo giorni di cammino. Arrivavano da un piccolissimo paesino dell’Eritrea, avevano mangiato e bevuto pochissimo, erano entrambi disidratati. Ferej aveva un solo ventricolo, e un cuore grande quanto tutto il suo torace, oltre ad alcune ustioni sul corpo, perché lì i santoni lo curavano provocandogli bruciature. Era praticamente morto, ora lo vedete giocare in piena salute, anche se il suo cuoricino rimarrà sempre malato”.

Ora il bambino si trova in Italia, a Massa, per la convalescenza. Nel campo di Asmara, infatti, non poteva essere garantita a Ferej un’adeguata assistenza. Presto, tuttavia, potrà riunirsi alla sua famiglia.

La storia di Ferej è tenerissima soprattutto considerando il gesto del padre che ha messo a rischio la sua stessa vita per proteggere il figlio. Sono molti, comunque, i bambini poveri che vivono in condizioni disagiate e bisognosi di cure che vengono soccorsi in strutture adeguate nel nostro Paese, perlopiù finanziate dalle Onlus.
Ricordo, ad esempio, la Fondazione Luchetta (di cui ho parlato in questo post) che da vent’anni si occupa della salute dei bambini vittime di guerre o più in generale della povertà, provenienti da ogni parte del mondo.

[LINK della fonte]

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BAMBINO CONTESO: MAMMA PRESIDIA LA CASA DI ACCOGLIENZA DOVE SOGGIORNA IL FIGLIO

bambino contesoRicordate il caso del bambino conteso da mamma e papà che ha fatto scalpore nell’ottobre scorso?
Il fatto accadde a Cittadella, in provincia di Padova, un caso apparentemente privato, come presumo ce ne siano tanti in Italia, che divenne di dominio pubblico perché il filmato che riprendeva il prelevamento del bimbo dalla scuola elementare, con l’intervento della Polizia di Stato, fu trasmesso dalla Rai nel corso di una puntata di “Chi l’ha visto?“.

Allora intervenni in un post per difendere l’operato della poliziotta, “rea” di aver risposto alla zia del bambino, la quale energicamente protestava contro il provvedimento, ““io sono un’ispettrice di polizia, lei non è nessuno”. Da allora i riflettori si sono spenti sul caso, com’era giusto che fosse. Ma oggi sul quotidiano “Il Gazzettinola madre del bambino torna a far parlare di sé e lo fa, com’era prevedibile, in modo alquanto plateale.

La signora, infatti, sta presidiando da 48 ore la casa di accoglienza nella quale ha trovato ospitalità il figlio, dopo che un giudice le ha tolto la patria potestà affidandola al padre in via esclusiva. Ricordo che il genitore, di professione avvocato, si era rivolto al tribunale in quanto, dopo la separazione dalla donna, gli era stato impedito di vedere il bimbo con regolarità e, anzi, la famiglia dell’ex aveva fatto quadrato attorno al piccolo per proteggerlo, a loro dire, da un padre violento con cui lui non voleva stare. Fatto sta che il giudice ha dato ragione al papà e ha disposto il provvedimento, discutibile nei modi finché si vuole, che gli è parso più giusto.

La mamma del bambino, dicevo, ora non intende muoversi dalla sua “postazione” davanti alla casa di accoglienza dove soggiorna anche l’ex marito. Non per volontà sua, come sembra.
La donna spiega così la sua presa di posizione: «Da qui non mi muovo finché non mi verranno date delle spiegazioni. Ho portato pazienza, ma le condizioni paritetiche decise dal decreto del giudice, non vengono assolutamente rispettate. Non posso più stare in silenzio. Se fino ad ora la situazione si poteva dire accettabile, adesso non lo è più. Al mio ex sono concesse cose che io non posso fare, ma che non dovrebbe fare neppure lui perché il decreto parla chiaro. Ha portato mio figlio in casa sua dal 23 al 26 febbraio, mentre dovrebbe rimanere nella struttura. Lui più volte ha dormito nella casa quando invece non potrebbe».

Da parte sua il padre del piccolo non commenta la decisione dell’ex moglie, limitandosi a ricordare il provvedimento che ha portato all’allontanamento del bambino dalla casa materna: «Non prendo posizione su quanto detto dalla signora, dico solo che non vuole che mio figlio venga a casa mia e sta presidiando la struttura. Solo questo basta per far capire la situazione. Sono bloccato qui da due giorni perché, se io esco, ha detto che succederanno delle cose, non so cosa. Per decisione del tribunale sono io l’affidatario unico, ho la patria potestà. Quella della mia ex moglie è decaduta, c’è l’ordine di allontanamento come pure per la sua famiglia».

A questo punto mi chiedo: a cos’è servito tutto il clamore suscitato dal video andato in onda su Rai 3? Il caso, come si può notare, non è molto diverso da altre vicende che, purtroppo, vedono coinvolti dei minori contesi fra genitori e in cui giungere ad un accordo sembra impossibile.
Per quanto possano essere discutibili le decisioni prese dal tribunale dei minori, credo che le si debba accettare e, casomai, discutere civilmente la questione, in privato, per il bene del bambino conteso. Gesti plateali come quello fatto ad ottobre non servono a nulla se, dopo quasi cinque mesi, si è esattamente al punto di partenza.

BAMBINO TRASCINATO VIA DA SCUOLA: PERCHE’ IO STO CON L’ISPETTRICE

Finora mi sono astenuta dal commentare qui la vicenda accaduta a Cittadella, che vede protagonista un bambino di dieci anni conteso dai due genitori e il suo allontanamento dalla madre, avvenuto a seguito di una sentenza del Giudice e portato a termine, in modo assai discutibile, alla fine di una mattinata scolastica. L’ho fatto, però, intervenendo con svariati commenti sul blog di Diemme e di Pino Scaccia, nonché sulle pagine de Il corriere on line.

Se ho deciso di scriverne qui ora è perché sono letteralmente esterrefatta dalle minacce, anche di morte, lanciate sul web, nei più disparati siti, all’ispettrice di polizia, la più alta in grado la mattina di mercoledì davanti alla scuola frequentata dal bambino.
Nel video girato dalla zia del minore si sente l’ispettrice che, pressata dalle domande della zia stessa, la quale per tutta la durata delle riprese continua ad insultare con vari epiteti tutti i presenti, rei di aver eseguito un’operazione voluta da un giudice, dice: “Io sono un ispettore di polizia lei non è nessuno”. Battuta infelice, forse, ma che va correttamente interpretata e contestualizzata.

Chi ha guardato il video ha rivolto in particolare l’attenzione sulle scene, certamente drammatiche, in cui si vede il bimbo prelevato con la forza in primis dal padre e, in second’ordine, da alcuni agenti in borghese che evidentemente cercavano di aiutare il genitore ma soprattutto di evitare che il piccolo si facesse male. L’attenzione sull’ispettrice è stata focalizzata esclusivamente per la frase già riportata e subito condannata. Forse, però, bisognerebbe porre attenzione allo stato d’animo di quella donna che, evidentemente, non si aspettava che gli eventi precipitassero. Eventi di cui si sentiva responsabile, per il suo grado, ma dai quali probabilmente era toccata in quando madre.

Scarsa attenzione, forse, è stata prestata anche alle domande della zia che voleva sapere perché non c’era stata la sospensiva dell’esecuzione della sentenza. Cosa che, in quanto parente del bambino ma non genitrice, non aveva alcun diritto di chiedere. L’ispettrice, visibilmente provata, con la frase incriminata, e interpretata quasi come un abuso di autorità, voleva semplicemente dire: “io sono un’ispettrice di polizia e sto facendo il mio lavoro, lei non è nessuno, nemmeno la madre del bambino, mi sta facendo domande cui non posso rispondere e ci sta insultando tutti da mezzora ed è proprio ora che la smetta”. Mi pare che, considerando la sua posizione e nel suo stato d’animo, così può essere interpretata la sua riposta.

La cosa che più fa indignare, secondo me, è che tutti si sono scagliati contro la polizia, prima ancora di sapere che chi ha usato violenza sul bambino è stato proprio il padre, e che il capo della polizia Manganelli si sia profuso immediatamente in scuse, senza un preventivo accertamento sullo svolgimento dei fatti, lasciandosi trasportare dall’onda d’indignazione mediatica che il fatto aveva provocato.

Come ho scritto altrove, confermo la mia posizione: la zia ha fatto male a riprendere il tutto ma soprattutto a mandare il video a “Chi l’ha visto?”. Ha suscitato tanto clamore per una vicenda privata, come ce ne sono tante, purtroppo, senza pensare che proprio lei con questa mossa ha sommato violenza alla violenza nei confronti del nipote. Non lo sostengo solo io, ho sentito testimonianze di psicologi e pedagogisti che la pensano esattamente in questo modo.

Qualcuno dice: meno male che c’era la zia altrimenti tutto sarebbe passato sotto silenzio. Io replico: perché, il clamore mediatico serve davvero a risolvere una questione delicata come questa? Girare un video e darlo in pasto all’opinione pubblica gioverà al piccolo Leonardo? Forse può essere una testimonianza della violenza del padre nei confronti del figlio e, quindi, un punto a suo sfavore, nella causa di affidamento della potestà genitoriale. Ma all’episodio hanno presenziato in tanti, le testimonianze ci sarebbero state comunque. Quel video, invece, aggiunge poco o nulla ai fatti, in particolare, offre delle prove inconfutabili sul comportamento della zia e del nonno del bambino che, infatti, sono stati denunciati per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale. Una sorta di boomerang, insomma. Purtroppo non indolore nemmeno per il bambino.

MENO SUPERMARIO PIÙ SUPER PAPÀ


Non lo nascondo: a me Mario Balotelli non sta troppo simpatico. Un po’ gasato e pieno di sé. Ma, d’altra parte, non è colpa sua: ha 22 anni ed è milionario, è osannato dai tifosi e dagli allenatori (vedi l’occhio di riguardo nei suo confronti da parte di Prandelli, ct della nazionale), chi non lo sarebbe al posto suo?

Alla fine della partita di ieri, conclusasi con la pesante sconfitta dei quattro gol subiti da parte della Spagna, le lacrime del SuperMario più famoso del momento hanno fatto il giro del mondo. In quelle lacrime ho letto, personalmente, tutta la sua giovane età e la fragilità che in fondo si nasconde dietro il suo atteggiamento da Hulck.

Archiviati gli europei con la delusa speranza di vittoria, Mario può piangere di gioia: fra qualche mese sarà papà. La sua compagna (per alcuni ex ma sembra che il rapporto si stia ricucendo, forse anche grazie all’arrivo di un bebè), Raffaella Fico, la cui pancetta non era passata inosservata nei giorni scorsi, ha annunciato di essere in attesa di un bambino. Mario lo sa, come ha dichiarato la compagna, e ha appreso la notizia esprimendo un’immensa felicità: “Mi hai dato la notizia più bella del mondo, mi ha detto – ha spiegato la Fico – E il giorno dopo, in campo, ha segnato due gol».

Forse sarà un po’ meno SuperMario ma speriamo che sia davvero un SuperPapà.

[notizia de Il Corriere]

LE GEMELLINE SIAMESI NON CE L’HANNO FATTA: HA CESSATO DI BATTERE IL LORO UNICO CUORE

Ha smesso di battere l’unico cuore che Lucia e Rebecca, le gemelline siamesi nate al Sant’Orsola di Bologna lo scorso giugno, avevano in comune.

Il caso aveva imposto una riflessione soprattutto in considerazione del fatto che, in previsione di un intervento chirurgico di separazione, una delle due neonate non avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere. E poi, la situazione era nota ai genitori durante la gravidanza ma la mamma aveva deciso di non abortire. (ne ho parlato QUI)

«Abbiamo fatto loro assaporare la vita anche se ci hanno proposto di non farlo, cioè con l’aborto», dicono i genitori. «Le abbiamo accompagnate in questo breve ma intenso percorso — hanno aggiunto — resterà in noi la gioia di averle potute accogliere pur nella sofferenza di averle dovute lasciare così prematuramente».

Con tutto il rispetto per il dolore di questi genitori che hanno perso le loro figlie, onestamente non comprendo né condivido quella frase: “Abbiamo fatto assaporare loro la vita“. Perché? Hanno forse capito qualcosa della vita quelle due creaturine vissute in un incubatrice, all’interno di un “freddo” reparto ospedaliero, senza neppure vedere la luce del sole?

Scusate la sincerità. Forse sembrerò cinica ma ribadisco che questo dramma umano, pietoso finché volete, poteva essere evitato.

LA MORTE DELLA PICCOLA ELENA: UN PAPÀ ESEMPLARE CON UNA MOGLIE SPECIALE


Non ce l’ha fatta la piccola Elena, “dimenticata” dal padre per cinque ore nell’automobile sotto il sole cocente. Il suo piccolo cuore ora batte nel corpicino di un altro bambino. Così anche il suo fegato e i reni hanno salvato la vita ad altri bimbi sfortunati. Ma la tragedia della piccola Elena, morta a soli 22 mesi, deve far riflettere sull’evento che l’ha portata alla morte. Perché un padre che dimentica la figlia, a prima vista, è solo un padre degenere, un disgraziato, un uomo che non merita nemmeno di essere chiamato tale. Ma Elena aveva una mamma speciale che nemmeno per un attimo ha pensato di aver sposato un mostro, nemmeno per un istante ha mediato di lasciare quell’uomo che le ha strappato dall’abbraccio la figlioletta. No, la mamma di Elena continua a ripetere, da giorni, che il marito è un papà esemplare e che quello che è successo a lui, può succedere a tanti padri amorevoli.

Lucio Petrizzi, quella maledetta mattina, era convinto di aver portato Elena all’asilo, affidandola alle cure delle maestre. Ma la bimba all’asilo non è mai arrivata. È rimasta per cinque ore chiusa nell’automobile del papà che si è semplicemente dimenticato della sua presenza. Un professionista, superimpegnato, come tanti. Ma lo stress fa brutti scherzi. La testa piena di pensieri, azioni che si fanno in modo automatico, senza riflettere, a volte ci si muove e il corpo se ne va per conto suo, come un automa, senza star dietro al cervello. Certo, succede a tanti. E quella bimba “dimenticata” è la prova che molte volte si è travolti dagli impegni, sia familiari sia professionali, tanto da non ragionare più. Com’è che si dice? Si è fuso il cervello.

Quello della povera Elena si è fuso davvero. Si è fuso a causa del sole che batteva sulla carrozzeria di quell’automobile e che l’ha trasformata in una sorta di fornace. Danni gravissimi, si è detto in un primo momento. Danni irreparabili, è stato l’annuncio di ieri. Di fronte ad un elettroencefalogramma piatto o quasi, una piccola speranza si è accesa per altri genitori, forse altrettanto impegnati e stressati. Sicuramente, però, dei genitori meno fortunati di quelli che aveva la piccola Elena.

Davanti alle telecamere, Chiara Sciarrini, in attesa di una bambina, la sorellina che la piccola Elena non potrà mai conoscere, in lacrime difende il marito, accusato di omicidio colposo e di abbandono di minore: «Non c’entra nulla. Non ho mai accusato Lucio e mai lo farò perché lui non è colpevole», aggiungendo che «Quello che è capitato a lui può capitare a ognuno di noi, perché non ci si ferma mai».

Già, non ci si ferma mai. Il ritmo cui siamo costretti quotidianamente ci fa girare come trottole. E a volte il destino si fa beffe di noi.

Ma io, con tutta la comprensione di cui è capace una madre, di fronte ad una tragedia immane come questa non credo sarei stata così coraggiosa. Forse questo si chiama amore, ma la maggior parte delle volte l’amore non basta.

[immagine tratta da questo sito; LINK della fonte]

AGGIORNAMENTO DEL POST, 25 MAGGIO 2011

Erano in tanti, tantissimi a Campli, al funerale di Elena, la bimba di 22 mesi che ha commosso tutta Italia, morta dopo tre giorni di coma per un edema cerebrale dopo essere stata incredibilmente dimenticata sull’auto dal padre che, invece di portarla all’asilo, l’ha lasciata nel parcheggio dell’Università per cinque ore. C’era anche lui in chiesa, l’amato papà, Lucio Petrizzi, aggrappato alla piccola bara bianca, sorretto da don Mazzitti che non lo ha lasciato un attimo, quasi a volerlo difendere dagli sguardi cattivi di chi pensa: «ma come ha potuto…». Ma papà Lucio ha già sofferto tanto, è già stato punito nel modo più atroce perdendo così la sua piccolina e tutti lo sanno che il senso di colpa che lo sta affliggendo potrà forse mitigarsi con il tempo, ma non potrà mai essere cancellato. Tutti hanno capito.

LA COMPRENSIONE – Dopo la moglie, Chiara Sciarrini, incinta all’ottavo mese, che per prima lo ha assolto: «Mio marito non ha colpe», anche le maestre di asilo, i colleghi di lavoro, gli abitanti di Campli hanno compreso il dolore di un uomo che chissà quante volte si chiederà: «Elena ha pianto? Mi chiedeva aiuto e io non c’ero… perché non c’ero…». Per Lucio non ci sono state accuse. Solo parole di consolazione e incoraggiamento: «Siete genitori meravigliosi, poteva capitare a tutti». «A tutti noi poteva succedere quello che è successo – scrivono i genitori dei bimbi dell’asilo nido frequentato da Elena, in una lettera letta da una delle maestre -. Caro Lucio, non attribuirti colpe che non hai. Troverete la forza di ricominciare, illuminati dalla luce di una nuova vita». Fulvio Marsilio, preside della facoltà di Veterinaria dell’Università di Teramo, dove Lucio lavora come docente e Chiara come ricercatrice, al termine della cerimonia ha sottolineato che nei giorni scorsi «oltre 200 studenti si sono raccolti per un minuto di silenzio in segno di solidarietà. Tornate presto tra noi – ha detto -, la vita ci dà tanto e può toglierci tutto». «È una tragedia che ha coinvolto tutta la comunità camplese, una fatalità che può succedere a tutti» ha commentato il sindaco di Campli, Gabriele Giovannini: «Ho ricevuto tantissime telefonate in questi giorni su casi simili, genitori che dimenticano i figli a scuola – ha detto il sindaco – c’è un qualcosa che ci porta a correre continuamente e crea un blackout nella memoria. È un problema dei tempi odierni, il correre sempre, lo stress: leggevo su una rivista scientifica online che in casi di stress ci possono essere momenti di blackout».

L’OMELIA – «Dio ha preso in braccio Elena, questa piccola creatura. Chissà che grande luce splenderà nel cuore di Lucio e Chiara» ha detto il parroco della chiesa Santa Maria in Platea, don Antonio Mazzitti nella sua omelia. «L’incidente è un fatto umano, non battete le mani per dare un sollievo a papà e mamma?», ha detto il sacerdote invitando i genitori di Elena, Lucio Petrizzi e Chiara Sciarrini, a salire sull’altare per accendere una candela e deporre un vestitino bianco sulla bara della figlia.

PALLONCINI – Davanti alla chiesa di Santa Maria in Platea, quando la bara della piccola Elena ha varcato la soglia sono stati liberati in aria tantissimi palloncini bianchi e gialli. Un lungo applauso e le campane a festa hanno poi accompagnato i genitori di Elena. Forse tanta solidarietà e tanti messaggi aiuteranno Lucio e Chiara a sopravvivere a un dolore tanto profondo e a ricominciare con energia e amore a essere ancora una volta genitori.

Cristina Marrone per Il Corriere

BAMBINO DI NOVE ANNI NON PUÒ TORNARE A CASA DA SCUOLA DA SOLO. LA MADRE SI RIVOLGE AL TRIBUNALE


Ci sono delle situazioni che richiedono una certa libertà di scelta, nell’ambito educativo, da parte della famiglia di un minore. Decidere che il figlio, anche se in giovanissima età, possa far ritorno da scuola a casa autonomamente è una di queste. I genitori, che lavorano e quindi non possono andare a prendere il figlio al termine delle lezioni, sanno valutare sia la “maturità” del bambino, la sua affidabilità e la pericolosità che il percorso può offrire ad un bambino di nove anni.

D’altro avviso, però, è una dirigente scolastica di una scuola primaria di Buja (Udine) che ha vietato ad uno scolaro di quarta elementare di rincasare da solo. Nonostante le rimostranze della famiglia, la dirigente in persona ha riaccompagnato il bimbo una volta, poi ha delegato …. i Carabinieri.
Un comportamento inaccettabile, a detta della mamma che non ha accolto favorevolmente, com’è logico, una denuncia per abbandono di minori, subito rientrata, tra l’altro. Un atto dimostrativo da parte della dirigente, insomma.

Un eccesso di zelo da parte della dirigente? Forse. Ciò che appare inspiegabile è il fatto che questa nuova dirigente ha revocato l’autorizzazione, attraverso la quale si sollevava la scuola da ogni responsabilità nel caso nessuno venisse a prelevare il bambino, regolarmente concessa durante lo scorso anno scolastico. Una dichiarazione che, a quanto mi risulta, è accettata di frequente nelle scuole primarie; addirittura c’è qualche dirigente che accoglie la richiesta di autorizzazione con delega a terzi, chiedendo il nominativo della persona che ha il compito di riaccompagnare a casa lo scolaro nel caso i familiari siano impossibilitati a farlo.

Che dire? Forse la signora è una madre snaturata? Parrebbe, visto che a suo dire il percorso di circa duecento metri tra casa e scuola è privo di pericoli, mentre per la dirigente non lo è affatto. Ovvero, la dirigente ha commissionato alla Polizia Municipale una perizia dalla quale risulterebbe che il tragitto percorso dal bambino non sarebbe privo di pericolosità.

Del caso ora si sta occupando il Tribunale dei Minori: il giudice ha dato otto giorni di tempo alle parti (scuola e famiglia) per trovare un accordo.
Io, però, sto pensando a quel bambino che ora si starà chiedendo come mai fino all’anno scorso, quando era ancora più piccolo, potesse rientrare da solo e adesso non è più in grado di farlo. Chissà se qualcuno gli ha chiesto che ne pensa di queste beghe legali?

[fonte: Messaggero Veneto]

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