LA MAMMA DI GAIA: “L’HO UCCISA IO”. PERCHE’ SI ABBANDONANO ANCORA I BAMBINI IN AUTO?

Angioletto
Gaia aveva soltanto un anno e mezzo. La mamma Michela l’ha abbandonata nell’auto, sotto il sole rovente, per quattro ore. Inutili i tentativi di salvare la piccola che è morta diciotto ore dopo l’accaduto all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. (maggiori particolari su questa notizia QUI)

Non è la prima volta che accade, purtroppo. Padri e madri superstressati che a un certo punto vanno in tilt: la chiamano amnesia dissociativa. In parole semplici, quando si svolgono azioni ripetitive, si è convinti di aver fatto quel qualcosa che andava fatto, anche se invece non è così.

Il papà di Elena, quello di Jacopo, ora la mamma di Gaia. Genitori distrutti che mai potranno dimenticare.
Probabilmente, come già accaduto in passato, la signora Michela non sarà condannata per omicidio colposo. Ma a lei non basterà la vita intera per scontare la sua colpa. «L’ho uccisa, l’ho dimenticata in auto, sono io la responsabile della morte di mia figlia», ha urlato. Nessun tribunale la condannerà ma lei di certo non si perdonerà mai di aver lasciato la bimba in macchina, convinta di averla portata all’asilo nido come tutti i giorni.

Io non giudico quella mamma. Non mi aggiungerò al coro di chi, con estrema sicurezza, dice: “A me non sarebbe mai capitato”.
Sono una mamma, i miei figli sono grandi ma non ho dimenticato la fatica, il senso di inadeguatezza, le notti insonni, quella sensazione di non farcela… Non credo alle mamme che dichiarano di aver cresciuto i figli senza mai un cedimento, senza alcuna fatica. Balle.

Però, nel leggere questa triste notizia, una domanda me la pongo: “Perché ancora capita di abbandonare i figlioletti nell’automobile, in pieno sole?”.

Dopo i fatti che ho nominato, sono stati “inventati” e distribuiti sul mercato molti dispositivi, anche i più fantasiosi, per impedire che tragedie come quella di Elena, Jacopo e ora Gaia si ripetano. Basta fare un giro su Google per capire che disgrazie simili si potrebbero evitare.

Ma evidentemente chi non utilizza tali dispositivi, è convinto che “A me non potrà mai accadere”. E invece succede e per questo c’è bisogno di una legge. In Parlamento dall’ottobre 2014 è depositata una proposta di legge per introdurre nuove disposizioni nel Codice della Strada, in forza delle quali diventi obbligatorio adottare un sistema di allarme che segnali la presenza del bambino nel seggiolino del veicolo.

Tutto è fermo. Forse quest’ennesima tragedia smuoverà le coscienze dei nostri governanti?
O forse, per ora, è più importante il referendum sulle riforme costituzionali di ottobre.

[immagine da questo sito]

FERRAGOSTO IN CITTA’

Vignetta-Ferragosto-Ferragosto in città, e dov’è la novità?

Una volta le città si svuotavano veramente non solo a Ferragosto ma per tutto il mese. Trovare un negozio aperto era un’impresa. Per la spesa non si poteva fare affidamento sui grandi supermercati di oggi. C’erano i piccoli negozi di alimentari a gestione familiare che, però, in agosto tenevano le saracinesche abbassate per tutto il mese. Il titolare ti portava la spesa a casa con il sorriso, senza chiederti nulla in cambio. Si chiamava “cortesia”. Ormai è una parola che forse qualcuno associa ai romanzi cavallereschi o alla poesia in lingua d’Oc, se è istruito, o al massimo all’auto che qualche officina meccanica ti impresta per il tempo che ci vuole a ripararti la macchina.

Un tempo le ferie erano sacre e nessuno ci rinunciava. Magari si risparmiava tutto l’anno ma quelle due settimane (a volte anche un mese intero) si passavano fuori casa. Il riposo era un diritto. A casa non ci si riposava.

Ora le cose sono cambiate. Il traffico di qualche Ferragosto fa è solo un ricordo. Tutti a casa o quasi. Il meteo, poi, almeno qui al Nord Est, sembra complice di questa crisi che pare non finire mai. Non fa che piovere: che ci sia lo zampino del governo? Il vecchio detto è più che mai attuale.

Per caso ho scovato una vecchia filastrocca di Gianni Rodari. Leggendola mi sono resa conto di quanto sia attuale.

Ferragosto

soleFilastrocca vola e va
dal bambino rimasto in città.

Chi va al mare ha vita serena
e fa i castelli con la rena,
chi va ai monti fa le scalate
e prende la doccia alle cascate…

E chi quattrini non ne ha?
Solo, solo resta in città:
si sdrai al sole sul marciapiede,
se non c’è un vigile che lo vede,
e i suoi battelli sottomarini
fanno vela nei tombini.

Quando divento Presidente
faccio un decreto a tutta la gente;

“Ordinanza numero uno:
in città non resta nessuno;
ordinanza che viene poi,
tutti al mare, paghiamo noi,
inoltre le Alpi e gli Appennini
sono donati a tutti i bambini.
Chi non rispetta il decretato
va in prigione difilato”.

Che dite, gliela mando @matteorenzi via Twitter?

Comunque sia, BUON FERRAGOSTO A TUTTI!

[immagine da questo sito]

VENT’ANNI FA A MOSTAR: UN RICORDO DI MARCO LUCHETTA, ALESSANDRO OTA E DARIO D’ANGELO

PREMESSA.
Avrei dovuto pubblicare questo articolo il 28 gennaio, purtroppo però non ho fatto in tempo. Vent’anni fa a Mostar infuriava la guerra dei Balcani, scoppiata all’indomani della dissoluzione dell’ex Jugoslavia e che vedeva contrapposte due nazioni, la Bosnia e l’Erzegovina, e tre gruppi etnici: serbi, croati e musulmani. Una guerra dimenticata, forse, ma che ha causato circa 80mila vittime, tra soldati e civili. Tra queste, anche un giornalista della Rai, Marco Luchetta, l’operatore Alessandro “Saša” Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo.
Non ho fatto in tempo a pubblicare questo post per l’anniversario, dicevo, perché non volevo fare un articolo di cronaca, non sono una giornalista. Volevo metterci il cuore, anche se ne è uscito un pezzo perlopiù informativo. Mi scuso in anticipo, specie con chi dovesse leggere questa pagina e ne sa più di me, per le inesattezze o per eventuali superficialità. Non potevo dilungarmi oltre, è evidente.
Questo mio post vuole ricordare quel tragico evento ma in particolare, senza nulla togliere alle altre vittime, la figura di Marco Luchetta che ho avuto il privilegio di conoscere. Una persona speciale che dedicava la sua vita all’adorata famiglia – la moglie Daniela, detta Dea, e i due figli Carolina e Andrea – e alla professione che aveva scelto, onorandola con l’impegno e lo spirito di sacrificio che lo distingueva.
Ricordo ancora Marco al mare, quando, libero dagli impegni professionali, non mancava mai di raggiungere i suoi cari, dedicandosi al gioco con i bambini, occasione che gli permetteva di far emergere quello spirito “fanciullino” che bene si coniugava con l’aspetto di eterno ragazzo, grazie anche alla frangia ribelle che amava portare sugli occhi.
Marco aveva 41 anni quando, quel 28 gennaio 1994, una granata pose termine alla sua breve vita, assieme ai suoi compagni di lavoro con cui condivideva un unico scopo: testimoniare gli orrori di una guerra di cui troppi, ora come allora, ignorano l’esistenza.

luchetta ota d'angelo

QUEL TRAGICO VENERDÌ
Marco, Saša e Dario, tutti dipendenti della sede Rai di Trieste, erano partiti dal capoluogo giuliano qualche giorno prima per recarsi a Mostar, città dell’Erzegovina che aveva dichiarato la propria indipendenza, in seguito allo scoppio della guerra.
Nel 1993, i croati bosniaci e i bosniaci musulmani cominciarono una lunga lotta per il controllo di Mostar. I croati lanciarono un’offensiva il 9 maggio durante la quale bombardarono senza tregua il quartiere musulmano, riducendolo in gran parte in rovina, comprese numerose moschee e case del periodo ottomano. Durante la guerra i croati crearono dei campi di concentramento per i musulmani e lo stesso fecero i musulmani per i croati.
Il conflitto nei Balcani aveva visto fin da subito Marco Luchetta come inviato Rai. La decisione di recarsi nella parte più calda della guerra, la città di Mostar appunto, fu presa per il desiderio di testimoniare le atrocità subite dalla popolazione, specialmente le donne, vittime di stupri, e i bambini. Non doveva essere un servizio come un altro, ma un vero e proprio reportage per il tg1 sui “bambini senza nome”, nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi.
Quel tragico venerdì 28 gennaio 1994 la troupe si trova in una situazione di emergenza e, raggiunta la parte est della città, in un quartiere musulmano assediato dai bombardamenti, il giornalista e i due operatori si fermano nei pressi di una cantina che funge da rifugio per decine di persone tra cui molti bambini. Proprio per salvare una di queste piccole vittime della guerra, vengono sorpresi dallo scoppio di una granata. I tre fanno scudo con il proprio corpo al piccolo Zlatko che li aveva seguiti all’esterno del rifugio. Dovevano prendere le attrezzature per le riprese e Marco stava per riaccompagnare all’interno il bambino quando la “palla di fuoco” – come dirà Zlatko – li ha centrati uccidendoli sul colpo.

luchetta figli
NON SONO MORTI INVANO
La scomparsa di Marco e dei due colleghi getta nella disperazione tre famiglie e tutti coloro che ne avevano apprezzate le doti professionali e umane.
Luchetta lasciò due figli ancora piccoli: Carolina aveva dieci anni e Andrea nove. Non so se questi piccoli orfani abbiano mai pensato quanto fosse ingiusto l’aver perso il papà a causa di un bambino sconosciuto che il genitore aveva voluto salvare. Non so nemmeno se abbiano mai considerato il loro papà un eroe. So per certo che Marco non avrebbe mai voluto essere considerato tale.
Perché la terribile perdita non sia avvenuta invano, la moglie di Marco, Daniela Schifani-Corfini, decide di far nascere una fondazione che renda indelebile il ricordo del marito e dei colleghi e possa aiutare i bambini vittime delle guerre. In breve tempo dopo la tragedia nasce la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo, cui si aggiunge il nome di Miran Hrovatin, l’operatore giuliano morto pochi mesi dopo assieme alla giornalista Ilaria Alpi, in un agguato a Mogadiscio.
Come si legge sul sito della Fondazione, la finalità è quella di supportare famiglie d’altri Paesi che, oltre al disagio di vivere o di aver vissuto recentemente guerra e/o guerriglia, hanno l’ulteriore sfortuna di avere un figlio affetto da gravi forme tumorali o che necessiti d’intervento chirurgico non fattibile in patria.
Il primo ad essere assistito dalla ONLUS appena nata fu proprio Zlatko, che allora aveva solo cinque anni. Quella maledetta granata gli aveva procurato, oltreché un comprensibile choc che gli impediva di dormire la notte senza avere incubi, un problema di udito. Dapprima fu ospitato a Trieste, assieme alla mamma ventiquattrenne, per essere curato presso l’ospedale infantile Burlo Garofalo, istituto di eccellenza non solo in regione ma a livello nazionale, e poi aiutato a raggiungere la Svezia, dove la sua famiglia poté ricongiungersi al padre che, in fuga, aveva raggiunto il Paese scandinavo.

logo fondazione luchetta

LA FONDAZIONE LUCHETTA OTA D’ANGELO E HROVATIN
In questi vent’anni la Fondazione è cresciuta molto grazie alla generosità dei cittadini e di vari enti pubblici e privati. Quotidianamente dei volontari provvedono al trasporto dei piccoli ospiti presso gli ospedali competenti per le cure necessarie, aiutando le loro famiglie nell’espletamento delle pratiche mediche, burocratiche e provvedendo a tutte le altre necessità.
All’inizio, e fino al 1998, la Fondazione è stata operativa nel ristretto spazio offerto dal primo appartamento di via Fabio Severo. Poi è nata la casa di prima accoglienza situata in via Valussi a Trieste; qui trovano posto negli anni decine di ospiti che trascorrono con i loro familiari periodi più o meno lunghi di degenza durante le cure nel vicino ospedale pediatrico.
Nel 2005 è stato possibile acquistare, da parte della Fondazione, un altro immobile, uno spazioso appartamento ubicato in via Rossetti. Pochi giorni fa, in occasione del ventesimo anniversario della morte di Marco, Saša e Dario, la Fondazione ha inaugurato a Trieste il suo terzo luogo di accoglienza: il nuovo centro di via Chiadino 7. Come rivela Daniela Luchetta, lo spazio è stato offerto gratuitamente da una famiglia che preferisce restare nell’anonimato. La struttura permetterà di ospitare una decina di persone in più.
daniela luchettaAttualmente la Fondazione, presieduta da Daniela Luchetta, ha una sede amministrativa, due case di accoglienza nel capoluogo giuliano, dieci appartamenti per nuclei familiari i cui bambini hanno bisogno di cure più protratte nel tempo, quattro autovetture per le quotidiane attività logistiche di supporto alle famiglie e ai pazienti.
Può inoltre contare sulla collaborazione di circa sessanta volontari che dedicano tempo e forze a questa piccola-grande comunità, dove convivono persone di etnia diversa, talvolta anche nemiche nel Paese da cui provengono, ma unite dalle stesse necessità e grate in ugual modo per tutto il sostegno e le amorevoli cure che ricevono. La fatica dei tanti volontari ha ottenuto, nel 2009, un riconoscimento: l’assegnazione del “Premio Barcola 2009” che il Presidente del Premio, dott. Alberto Cattaruzza, ha commentato con le seguenti motivazioni:

Sono quindi particolarmente onorato di annunciare il conferimento del Premio Barcola 16a edizione ai Volontari della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin per la loro opera inesausta a favore dei bimbi bisognosi di cure mediche e di supporto alle loro famiglie, opera che può costituire eccezionale vanto per la città di Trieste tutta.

ospiti fondazione luchetta
BAMBINI DA TUTTO IL MONDO
In due decenni la Fondazione ha ospitato centinaia di bambini e familiari da Africa, Asia, Sud America, Europa orientale e penisola balcanica. Paesi in cui era impossibile garantire cure adeguate per quei bimbi che a Trieste hanno ritrovato la speranza di superare la malattia. La percentuale di guarigione dei piccoli ospiti è molto alta ed è stimata intorno al 94%. «Oggi la Fondazione opera su due fronti – spiega la presidente Daniela Luchetta -: quello dei bambini che necessitano di cure, ospiti dei centri di via Valussi e via Rossetti, e quello dell’aiuto a famiglie in difficoltà, che si è aperto attraverso la convenzione stipulata col Comune e permette a oggi di ospitare sei nuclei familiari con bambini. Ma supportiamo anche famiglie che vivono altrove, e sono in difficoltà economica. Anche il Centro raccolta di via Valdirivo 21 (vi confluiscono vestiario e altri generi di aiuti), gestito esclusivamente da volontari, è diventato un riferimento prezioso».
Nel tempo la Fondazione ha moltiplicato il fronte dei suoi interventi cercando anche di sostenere ospedali pediatrici e orfanotrofi nelle aree del mondo che continuano a fare i conti con miseria e guerra.

UN PREMIO PER RICORDARE MARCO E I COLLEGHI
A dieci anni da quel triste 28 gennaio, nasce nel 2004 il Premio Giornalistico Internazionale “Marco Luchetta”, a ricordo dell’impegno dei quattro operatori dell’informazione, morti in guerra, di cui la gran pare dei connazionali ignora l’esistenza.
Proprio in memoria di tutte e quattro le vittime, il premio si articola in più sezioni: oltre a quella intitolata a Marco Luchetta riservata ai giornalisti professionisti della carta stampata e della televisione, c’è la sezione intitolata a Hrovatin per la fotografia, ad Ota per le immagini TV e a D’Angelo per la stampa estera. Vengono ogni anno attribuiti riconoscimenti ai migliori reportage televisivi e quelli riservati alla carta stampata.
Nell’anno d’inaugurazione si aggiudicò il premio principale proprio un amico-blogger, nonché giornalista della Rai, Pino Scaccia che in una corrispondenza per la rubrica Tv7 del Tg1 ha raccontato le condizioni in cui vivono, alla periferia di Nairobi, gli ultimi della terra, migliaia di ragazzi orfani vittime della fame, dell’aids e della droga, aiutati solo da alcuni missionari.
Nel 2012 viene istituito anche il Premio “Testimoni della Storia” riservato al giornalista che meglio ha saputo raccontare ed interpretare un fatto storico o di cronaca, un periodo, un personaggio o un luogo.

Premio-Luchetta

ANGELI PER SEMPRE
Ogni estate, nella grande e bellissima piazza dell’Unità d’Italia, affacciata sul mare triestino, o in alternativa nella splendida cornice del teatro lirico “G. Verdi”, la nostra “piccola Scala”, o del Politeama Rossetti, sede del Teatro Stabile del Friuli – Venezia Giulia, si tiene uno spettacolo in occasione dell’assegnazione del Premio Luchetta. “I Nostri Angeli” da dieci anni vengono ricordati con una manifestazione in cui si alternano momenti di dibattito ed intermezzi musicali di vario genere, dal pop al rock alla musica etnica, che rendono anche gioioso il ricordo di questi “custodi” che mai dobbiamo dimenticare.

[altre fonti, oltre al sito della Fondazione già linkato, da cui sono tratte anche le immagini: Il Piccolo, Wikipedia per Mostar, Marco Luchetta e Guerra in Bosnia Erzegovina; Il Corriere]

STORIA DI ORDINARIA DISCRIMINAZIONE: BAMBINO DISABILE DEVE PAGARE 1000 EURO PER L’ASSISTENZA AL CAMPO ESTIVO

Non è la prima volta che accade. Fatti come questo, spiacevolissimi, accadono spesso anche se la maggior parte delle volte rimangono tra le “quattro mura domestiche”. Anche lo scorso anno ho pubblicato, sul blog laprofonline, la vicenda di un bimbo autistico al quale, in un primo tempo, non era stato concesso di frequentare un centro estivo a Roma. I tagli, che prevedono la riduzione del personale, impediscono, infatti, di poter offrire ai bambini disabili un servizio “particolare”, ovvero una persona che si occupi esclusivamente di lui. Ma le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano come fanno ad accudire al figlio se non possono contare su un servizio pubblico?

Il caso reso noto oggi, accaduto a Lorenzo, un bambino di otto anni che vive a Spino d’Adda, nel cremonese, è ancora più deplorevole, se così si può dire. Lorenzo è disabile al 100% causa epilessia congenita; pur essendo stato regolarmente iscritto dalla famiglia ad un campo estivo, non può venire accolto a meno che i genitori non sborsino 1000 euro per l’assistenza al bimbo, per di più per un tempo inferiore a quello programmato.

La questione è stata sollevata dalla Fie, Federazione Italiana Epilessie, che ha denunciato «il comportamento delle istituzioni gravemente discriminatorio, lesivo della dignità umana e dei diritti civili: si pone in aperto contrasto con la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, che lo Stato italiano ha ratificato, con la Costituzione e con la legge 67/2006 che vieta ogni tipo di discriminazione a causa di disabilità». Come spiega il portavoce della Fie, alla famiglia è stato richiesto un contributo otto volte maggiore rispetto alla quota prevista per gli altri bambini.

In un primo momento sembrava che il sindaco in persona avesse preso a cuore la vicenda e avesse promesso di provvedere, a spese del comune, all’integrazione della cifra richiesta. Ma dev’esserci stato un ripensamento in quanto venerdì, poco dopo le 21, con una mail, l’assessore ai servizi sociali chiedeva alla famiglia se intendesse avvalersi di 136 ore di assistenza, cioè meno di quelle necessarie. Il resto, a carico della famiglia, per una cifra aggiuntiva superiore ai 1000 euro.

Domani comincerà il campo estivo. Lorenzo ci sarà?

[Fonte Il Corriere]

GRAN BRETAGNA: CONTRACCETTIVI ALLE TREDICENNI ALL’INSAPUTA DELLE FAMIGLIE

Una cosa del genere qui in Italia scatenerebbe una sorta di insurrezione. Qui le famiglie devono essere avvertite di tutto ciò che succede ai loro figli, specialmente nell’ambito della scuola. Quando qualcosa con va a genio ai genitori, sono subito pronte le denunce. Talvolta molto discutibili.

Secondo quanto riporta il Daily Telegraph, una campagna governativa contro le gravidanze delle teenager (molto frequenti anche perché le ragazze madri possono usufruire di agevolazioni e sussidi di ogni tipo, compresa l’assegnazione di una casa – per noi qualcosa di fantascientifico), che ha coinvolto almeno nove scuole secondarie, per un totale di 1700 ragazze di età compresa tra i 13 e i 14 anni e 3200 quindicenni, ha portato all’impianto di contraccettivi sottocutanei all’insaputa delle famiglie. Si tratta di bastoncini piccoli e sottili posizionati sotto la pelle dell’avambraccio che rilasciano un flusso costante di ormoni che inibiscono l’ovulazione.
Ad altre 800 ragazzine sarebbero state fatte delle iniezioni sempre ai fini contraccettivi.

L’iniziativa, realizzata da Solent NHS Trust, una sorta di Asl di Southampton, e portata avanti dal 2009, ha ottenuto i suoi frutti: c’è stato, infatti, un calo del 22% degli aborti.
Il vero scandalo, a quanto pare, consiste nel fatto che tutto si sia svolto nelle scuole senza che le stesse abbiano avvertito le famiglie. Una sorta di “vaccinazione” senza autorizzazioni.

Ora si sta assistendo ad uno scaricabarile tra l’azienda sanitaria e le scuole stesse cui sarebbe spettato, pare, il compito di avvertire i genitori delle ragazzine interessate.
Particolamente infuriati i rappresentanti del Family Education Trust, che hanno accusato le autorità sanitarie di incentivare il sesso promiscuo tra gli studenti. Però, c’è da dire che l’intervento d’impianto del contraccettivo sottocutaneo non è stato imposto ad alcuna minorenne se non consenziente. Anzi, si è proceduto su richiesta delle ragazze che hanno semplicemente dovuto compilare un questionario medico prima di farsi impiantare il contraccettivo.

Riassumendo: nessuna è stata obbligata a subire l’intervento contro la sua volontà ma né la scuola né l’azienda sanitaria, tantomeno le minorenni stesse hanno provveduto ad informare mamma e papà.

Al di là del fatto che trovo lodevole l’iniziativa (sempre che sia tutelata la salute delle ragazze, come pare), ritengo sia stato quantomeno imprudente non chiedere preventivamente l’autorizzazione ai genitori. D’altronde mi rendo conto che sarebbe stata una richiesta rischiosa da fare, considerando la giovane età delle interessate. Insomma, senza voler fare i bacchettoni, quale genitore darebbe il suo consenso ad un metodo contraccettivo qualora la richiesta venisse fatta da una tredicenne o quattordicenne? In Inghilterra non so ma qui da noi sarebbe altamente improbabile che si verificasse una tale eventualità.

Però mi chiedo: perché nelle scuole italiane bisogna chiedere l’autorizzazione della famiglia per fare assistere i minorenni alle lezioni di educazione sessuale? E perché si assiste ad atteggiamenti molto ostili ogni volta che si parla di distributori di preservativi nei bagni delle scuole?
Insomma, la contraccezione è sempre meglio dell’interruzione di gravidanza che, specialmente in giovanissima età, può procurare seri traumi. O mi sbaglio?

[notizia e foto da Tuttoscuola.com]

“IL PROF SCATTONE DEVE RIMANERE”, DICONO I GENITORI DEL CAVOUR. MA GLI STUDENTI DI LOTTA STUDENTESCA LO CHIAMANO ASSASSINO


Grazie alla segnalazione della signora Luisa, mamma di un’allieva del professor Giovanni Scattone al liceo Cavour di Roma, che mi ha segnalato un articolo-intervista ad una mamma che definisce il prof un insegnante modello, ritorno sull’argomento affrontato in un post precedente.

Per un uomo che, per omicidio colposo, ha scontato la pena è possibile la riabilitazione? La Legge dice di sì: lui ha i titoli per insegnare e ha il diritto di farlo anche nel liceo frequentato da Marta Russo, la vittima. Comprendo che dal punto di vista morale ciò possa essere discutibile ma il diritto spesso non si sposa con la coscienza. Per questo mi sento di non condannare la decisione del prof Scattone di accettare la nomina come supplente temporaneo di Storia e Filosofia (solo nove ore, tra l’altro) né condividerei la sua scelta di rinunciare alla supplenza solo perché qualcuno non lo vuole, per rispetto alla famiglia Russo.

Sempre grazie alla testimonianza della signora Luisa ho appreso che in verità sono gli altri genitori a volere l’allontanamento di Scattone da quella cattedra. Infatti, a nome delle famiglie degli allievi interessati, la signora Daniela Polito, dichiara che all’unanimità i genitori delle classi IV d e V E vogliono che l’insegnante resti al suo posto.

«Basta polemiche e strumentalizzazioni. Giovanni Scattone è un professore modello, chiediamo insistentemente che resti al Cavour», si legge nell’articolo dell’Ansa che la signora Luisa mi ha segnalato.
Non solo, l’assedio da parte dei giornalisti al liceo cavour è mal tollerato: «Siamo inferociti. Sotto la scuola dei nostri figli – spiega la signora Polito – continua ad essere accampato un esercito di giornalisti ma nessuno ha chiesto il nostro parere, anzi le poche dichiarazioni dei nostri rappresentanti di classe sono state travisate. Invece i nostri figli, dopo un iniziale momento di perplessità, si sono trovati con il professor Scattone veramente molto bene al punto da considerarlo uno dei migliori insegnanti del Cavour».

Se dal punto di vista umano è ben comprensibile lo sgomento della signora Aureliana Russo, mamma della povera Marta, la signora Politi è convinta che la Legge debba prevalere: «Siamo tutti rispettosi del diritto e della legge, che può essere l’unica barra da usare in queste situazioni complicate. Se il professore non ha avuto l’interdizione dai pubblici uffici e ha il diritto di insegnare, allora qualsiasi scuola va bene. Non c’è altro criterio che la legge». (LINK dell’articolo citato)

Di tutt’altro avviso gli studenti legati a Lotta Studentesca: hanno realizzato un blitz contro il liceo esponendo uno striscione che recita “Scattone assassino” e chiedendo al professore di lasciare il suo incarico nella scuola. (vedi articolo de Il Giornale)
Questo a dimostrazione del fatto che ci sono dei ragazzi che riescono ad esprimere delle opinioni con serenità di giudizio – gli allievi del professor Scattone che lo definiscono uno dei migliori docenti del Cavour – e dei loro coetanei che non sanno far altro che sbraitare per mettersi in mostra ed esibire un moralismo tanto plateale quanto ipocrita.

Non a caso anche i genitori sono divisi. Come afferma nel suo commento la signora Luisa: il disagio lo hanno solo quelli che non studiano con il professore, tutti gli altri sono molto tranquilli e quelli che si oppongono alla permanenza di Scattone nel liceo romano sono genitori di studenti di altre classi.

Ringrazio ancora la signora Luisa per la sua testimonianza. Aggiungo solo una cosa: qualche sera fa ho sentito la telefonata della moglie del professore in diretta al Tg1 e mi sono commossa. Lei è disoccupata e il marito ha una cattedra a metà e si sa quanto guadagnano gli insegnanti. Credo che un po’ di umana pietà, in questo caso, non guasti.

DA LEGGERE: Lettera aperta ai genitori di Marta Russo

CASI DI TBC AL GEMELLI: L’AVV. GIULIA BONGIORNO PREPARA UNA CLASS ACTION

Ormai sembra entrata nel linguaggio comune anche in Italia questa espressione: class action. Il fatto che sia una locuzione inglese riporta alle origini anglosassoni di un’azione collettiva legale condotta da uno o più soggetti che, membri della “classe”, chiedono la soluzione di una questione comune.

L’avv. Giulia Bongiorno, parlamentare oltre che legale di fama, sa perfettamente il significato dell’espressione class action e annuncia, dalle pagine de Il Corriere, che si sta occupando della difesa di sei coppie di genitori che hanno i figli positivi al test della tubercolosi, in seguito alla trasmissione della malattia (che non sempre è contratta, può anche essere solo latente, ed è questo il significato di “positivo” al test) da parte di un’infermiera malata che prestava servizio al nido del Policlinico Gemelli, struttura affidabile, in cui operano medici di altissimo livello, come la stessa Bongiorno ammette. Per questo anche lei ha deciso di partorire lì.

Ian è nato il 22 gennaio. Fin dalla prime voci di questa probabile “infezione”, l’avvocato si è preoccupata della salute del figlioletto, telefonando, pur senza presentarsi come legale e parlamentare, almeno una decina di volte. La risposta, sempre uguale: “Suo figlio non corre alcun pericolo, stia tranquilla”. Per la precisione, le era stato detto che l’infermiera “incriminata” aveva iniziato a lavorare lì da febbraio.

«E questo è un dato assolutamente falso, credo sia fuori discussione che l’infermiera era in servizio da prima, tra i bambini del nido», afferma la Bongiorno nell’intervista. Pur comprendendo che, in casi come questi, sia meglio non creare allarmismi, si deve, tuttavia, pretendere chiarezza e soprattutto onestà.

Ora la mamma di Ian può stare tranquilla davvero: i test hanno escluso il contagio. Ma altri genitori, di cui la Bongiorno comprende il dramma, in quanto vissuto in prima persona, seppur nell’attesa di un riscontro poi risultato negativo, chiedono sia fatta luce sull’increscioso episodio.

«È difficile descrivere l’apprensione. È come se, nel momento iniziale della vita di tuo figlio, la nascita, tu già sbagli. Mi è sembrato un fallimento personale. Vivevo in grande ansia. Sa, ho 45 anni. Per me Ian è davvero un dono di Dio», spiega l’avvocato. Ma anche ora che il suo Ian può dormire letteralmente sonni tranquilli, e lei pure, non riesce a dimenticare i genitori meno fortunati.

Le sei coppie che si sono rivolte a lei all’inizio non sapevano nemmeno che avesse partorito nello stesso ospedale. «Vogliamo fare una denuncia, la depositeremo in Procura. Loro non vogliono solo un’azione risarcitoria sul piano civile, vogliono l’accertamento approfondito dei fatti, una vera azione penale», annuncia, perché chi ha delle responsabilità è giusto che ne risponda. In primis l’infermiera che, come pare, fin dal 2004 era risultata positiva al test della TBC. «Dunque si dovrà spiegare perché sono stati omessi i controlli o perché sono falliti», osserva l’avvocato.

Ma ci sarebbero anche delle eventuali “aggravanti”: pare, infatti, che anche il marito dell’infermiera, che fa lo stesso mestiere, sia stato ricoverato, nel 2004, per pleurite di natura tubercolare, e poi dimesso. A questo proposito, il parere della Bongiorno è che si debbano «cristallizzare le certezze su cosa è accaduto. Se queste due persone sono riuscite a indurre tutti in errore – ma sottolineo il se – avrebbero una responsabilità enorme, a livello di dolo eventuale. Se invece i due hanno rappresentato chiaramente il loro stato alle strutture e li hanno lasciati lavorare, beh, la responsabilità è delle strutture».

Non è difficile immaginare che anche altri genitori si rivolgeranno all’avvocato Bongiorno in cerca di giustizia, non vendetta ma solo la verità.

LA SCUOLA DEL RIGORE PIACE ALLA GELMINI? AI GENITORI DEL PARINI NO

Da giorni sulla carta stampata e sui siti web si parla del caso increscioso scoppiato al Liceo Parini di Milano: una docente, assediata dai genitori “urlanti” dei suoi allievi, ha preferito capitolare e chiedere il trasferimento: «A causa di una grave situazione familiare non sono in grado si sostenere un processo diffamatorio in cui mi dovrei difendere da accuse ignobili. […] Almeno i genitori “urlanti” hanno smesso di assediarmi», ha scritto in una lettera, amaro sfogo di una professoressa incompresa.

La cosa più grave è che questa docente non è la sola ad aver subito un vero e proprio mobbing: altri quattro colleghi, stufi di essere oggetto di critiche da parte dei genitori degli allievi, pare abbiano preso un’analoga decisione.
Ma qual è il motivo del contendere? La severità. Così spiega la docente nella lettera: vessata, insultata, accusata dai genitori perché «ritenuta indegna del posto che occupo». E in questo clima «da caccia alle streghe non ho alternative che lasciare. […] Dopo 30 anni di onorato servizio per la mia futura serenità, devo cambiare scuola. […] colpevole «di pretendere un certo rigore dai propri studenti».

Non tutti i genitori, però, si sono accaniti contro questa insegnante. C’è chi prende le sue difese, anche tra gli studenti stessi: «È brava, spiega bene. Certo, pretende molto», dicono. E il supporto le arriva anche dai colleghi: «È un’insegnante rigorosa, severa e molto valida. […] i genitori non accettano che i figli prendano brutti voti a scuola».

L’addio al Parini da parte di questa professoressa non è reso meno doloroso dalla consapevolezza che finalmente sarà lasciata in pace. Il suo pensiero è rivolto, com’è giusto, ai tanti allievi che la stimano e hanno invano cercato di fermarla: «Vi lascio con profonda amarezza e grande dispiacere. Purtroppo sono costretta», ha scritto loro nella lettera.

Questa vicenda è penosa, per molti motivi.

Prima di tutto è la testimonianza di quella disistima che grava sulla scuola pubblica italiana da parte degli utenti e, in particolare, della scarsa considerazione di cui godono i docenti.

In secondo luogo fa riflettere sul potere che hanno le famiglie di distruggere le carriere degli insegnanti troppo bravi e severi: molto meglio quelli che regalano i voti, evidentemente, non importa se da loro s’impara qualcosa perché i figli, pur ignoranti, alla fine avranno in mano quel pezzo di carta conquistato senza tanta fatica, avendo avuto la libertà di fare sport, suonare, uscire con gli amici, andare a sciare tutti i week end … che poi è esattamente quel che importa a certe famiglie.

Infine questa vicenda non può far altro che convincerci, parlo di noi docenti, che la valutazione dell’operato dei docenti da parte delle famiglie e degli allievi è assolutamente sconsigliata per premiare il merito. A meno che non si voglia premiare il buon cuore di certi insegnanti piuttosto che le loro competenze in ambito didattico.

Naturalmente c’è da dire che questo è un episodio alquanto isolato (altrove, a causa della eccessiva severità dell’insegnante se ne sono andati via gli allievi: LEGGI QUI), ma non è detto che questa specie di virus non si diffonda e contagi le famiglie italiane alle quali non interessa minimamente la qualità della scuola ma la possibilità che i loro figli la frequentino ed ottengano la promozione senza troppi sforzi.

CINZIA TH. TORRINI: LA SUA “TERRA” È “RIBELLE” E … OSCENA


L’ultima fiction della regista Cinzia Th. Torrini, che con “Terra ribelle” cerca di eguagliare l’enorme successo ottenuto con “Elisa di Rivombrosa”, è finita nell’occhio del ciclone. Il motivo? Scene di sesso esplicito e stupro, certamente non adatte ai minori. Ma, nonostante tutto, la Rai non ha provveduto a segnalare la fiction come non adatta ai bambini, contrassegnandola con il bollino rosso.
Be’, la scena dell’amplesso tra Jacopo e Luisa (regolarmente sposati, eh!) è stata, in effetti, molto esplicita e particolareggiata. Ma anche in “Elisa di Rivombrosa” abbiamo assistito a scene di sesso, solo che Vittoria Puccini, poveretta, deve avere la misura 0 di reggiseno, mentre l’attrice che interpreta Luisa (Sabrina Garciarena) ha sfoggiato una bella quarta, sulla cui naturalità è venuto qualche sospetto. Ma chi ha dimenticato, in “Elisa”, il bel lato B scultoreo di Alessandro Preziosi? Io no.

Tornando alle proteste, Elisabetta Scala, responsabile dell’Osservatorio Media del Moige, definisce lo spettacolo non adatto alla visione dei minori che come tale andava segnalato, cosa che invece la Rai non ha fatto, mostrando così una mancanza di attenzione al pubblico dei minori e delle famiglie. La Scala ha anche informato che sarà inviata una segnalazione agli organi competenti. Auspichiamo, quindi, -prosegue- provvedimenti adeguati da parte dei vertici Rai così da applicare concretamente quanto affermato dalla circolare del direttore generale Masi che stabiliva provvedimenti seri per l’infrazione della fascia protetta.

Prima di sbraitare tanto, io mi sarei chiesta: la fiction, al di là dei bollini, è uno spettacolo adatto ai bambini o comunque ai minori?
Vediamo di cosa si tratta: siamo in Maremma, alla fine dell’Ottocento. L’ambientazione appare quella di un western di casa nostra, con tanto di butteri al posto dei cow-boy. Nobili decaduti cedono ai ricatti degli zotici arricchiti che, seppur con i soldi, mantengono l’animo vile e pronto a tutto pur di accumulare ulteriori ricchezze. Pronti anche a calpestare i sentimenti. E poi il fenomeno del brigantaggio cui furono spinti, a quel tempo, uomini e donne senza lavoro e senza terra, visto che se l’erano portata via, il più delle volte con la forza, i “padroni”.
Le storie di due famiglie, una nobile ma decaduta e l’altra costituita dai nuovi ricchi, s’intrecciano, con un matrimonio combinato, un sordido patto tra i due sposi a danno della sorella di lei e del migliore amico di lui che si amano disperatamente. Ci sarà, poi, anche l’agnizione, la rivelazione che chiarirà molti dubbi allo spettatore, sempre pronto a godersi uno spettacolo fatto di donnine allegre, ubriaconi nelle taverne, al posto dei saloon, amori struggenti non consumati e violente passioni che tengono in bilico l’animo ribelle di gente senza scrupoli.

Di fronte a questo scenario (non ho ricostruito la trama perché la si può trovare in ogni dove) cosa potrebbe mai attirare l’attenzione dei più piccoli? Forse i cavalli e le evoluzioni dei butteri in groppa ad animali ribelli quanto i loro padroni.
Se poi parliamo dei più grandi, minorenni ma non bambini, di certo le ragazzine hanno un valido motivo per guardare “Terra ribelle”: la presenza, nel cast, dell’attore Rodrigo Guirao Diaz, idolo delle teenager in quanto interprete della fiction “Il mondo di Patty”. Di certo la sua partecipazione in “Terra ribelle” ha questo scopo: come avrebbe potuto, dunque, la Rai apporre il bollino rosso?

Al di là di tutte le polemiche e le censure, credo che gli adolescenti di oggi possano trovare ben di peggio sul web. Per i più piccoli ci sono pur sempre i genitori che dovrebbero valutare uno spettacolo televisivo come adatto o meno ai loro figli. Questo è, infatti, il significato del bollino giallo. Ma, poi, se parliamo di fasce protette, che dire dei talk show pomeridiani che hanno ormai sostituito la vecchia “TV dei Ragazzi”? Dedicati sempre più a casi di assassini e stupratori, in cui si raccontano le vicende con dovizia di particolari. Non sono forse spettacoli, questi sì, da bollino rosso? Eppure ce li dobbiamo sorbire quotidianamente.

Un’ultima osservazione: i programmi in prima serata iniziano sempre più tardi e terminano, quando va bene, alle 23 e 30. A quell’ora i bambini e i ragazzi non dovrebbero essere a letto? Sarà che appartengo alla generazione di quelli che, finito Carosello, dovevano andare a nanna senza tante discussioni, ma le rimostranze del Moige, almeno in questo caso, non le capisco proprio.

[fonte e foto: Il Corriere]

LACRIME DI BIMBE CHE NON SARANNO MAI DONNE DAVVERO. L’INFIBULAZIONE


La pratica dell’infibulazione è assai diffusa in Africa e rappresenta, nella “cultura” dei popoli che la praticano, una sorta di rito di iniziazione, cui vengono sottoposte le bambine o le ragazze (si va dai 3 anni ai 12 anni), e che consiste nella mutilazione dei genitali esterni. È una pratica barbara che nessuna religione al mondo potrebbe mai prescrivere ma, per ignoranza, è diffusissima: si stima che circa due milioni di bambine ogni anno siano sottoposte a questo crudele rito (130 milioni nel mondo, in ventotto paesi africani, secondo le stime ONU).

Il motivo per cui si pensa che, nonostante l’atrocità, l’infibulazione sia ancora diffusa, non solo nei paesi africani ma anche presso le popolazioni immigrate in Europa, è che viene dato ad intendere che sia la religione ad imporla. Spesso succede che venga associata alla religione islamica che non prevede assolutamente tale mutilazione. Tuttavia, poiché l’arabo, specie la lingua scritta, è ai più un idioma sconosciuto o utilizzato solo per memorizzare alcune sure del Corano, viene fatto credere alle persone ignoranti che proprio sul libro sacro di Maometto sia prescritto questo rito imposto alle femmine.

Una delle donne più attive nella protesta contro questa usanza barbara è l’attrice e modella Waris Dirie, originaria della Somalia, che Kofi Annan ha nominato ambasciatrice ONU per la lotta contro l’infibulazione. Nel 2002 la Dirie ha deciso di dar vita alla Waris Dirie Foundation a Vienna per portare avanti i suoi progetti e combattere il fenomeno delle mutilazioni da infibulazione. Sul suo sito, si legge “ognuno può aiutare il mio sogno: mettiamo fine alle mutilazioni dei genitali femminili”.
Nel 2007 il presidente francese, Nicholas Sarkozy, l’ha insignita del titolo di Chevalier de la Legion d’Honneur a riconoscimento del suo impegno umanitario.

La Dirie, all’età di circa quindici anni (si pensa che sia nata nel 1965 ma non è sicuro visto che in Africa, in alcuni villaggi, alle bambine non viene dato subito un nome né viene registrata la loro nascita) è scappata dal suo villaggio per sfuggire al matrimonio combinato dai suoi che la volevano dare in sposa ad un uomo di 60 anni, al quale l’avevano venduta per cinque cammelli.
Nel libro Fiore del deserto (questo è il significato del suo nome), autobiografico, racconta anche di essere stata sottoposta, a circa tre anni di età, alla mutilazione dei genitali; così descrive la pratica inumana:

Le vittime vengono mutilate con utensili d’uso comune – quali lame di rasoio, coltelli, forbici o, peggio, con schegge di vetro, pietre appuntite e persino a morsi. Invece di diminuire, il numero delle ragazze che vengono mutilate aumenta. Molti africani emigrati in Europa e negli Stati Uniti non hanno abbandonato questa consuetudine.
Con l’infibulazione la donna viene privata del piacere sessuale, quindi anche del desiderio, mentre la cucitura della vagina
serve a garantire la verginità, assimilata alla purezza: le vergini sono un bene prezioso in Africa ed è questo uno degli inconfessabili moventi dell’infibulazione: mio padre poteva ricavare un ottimo compenso dalla vendita delle figlie belle e vergini.
Se penso che quest’anno due milioni di ragazze subiranno quello che ho subito io, mi sento male e mi rendo conto che quanto più questa tortura andrà avanti, tante più saranno le donne come me, furiose e ferite, che non potranno mai più avere ciò che è stato loro tolto
.

Quella terribile esperienza lasciò un segno indelebile nel suo animo. Così, nel terzo libro pubblicato, Figlie del dolore, descrive un incubo che turba da anni i suoi sonni:

Mi sveglio in un bagno di sudore. È molto presto, non sono ancora le sei. La notte è stata breve e agitata, con terribili incubi che ricominciavano sempre daccapo. Provo a richiudere gli occhi, ma vedo ancora quelle immagini angoscianti: una miserabile stanza d’albergo, piccola e con la carta da parati ingiallita. Una bambina stesa sul letto, di dieci, dodici anni al massimo. Nuda. Quattro donne circondano il letto e la tengono giù. La bambina ha le gambe spalancate, e una vecchia le siede davanti con un bisturi in mano. Le lenzuola sono zuppe di sangue. La bambina grida con quanto fiato ha in gola. Continua a urlare. Grida da strappare il cuore.
Sono state quelle urla a svegliarmi. E anche adesso sembrano riecheggiare nella mia camera. Mi alzo barcollando e vado a bere un bicchiere d’acqua. Guardo fuori dalla finestra. Comincia a far luce. Sono a Vienna, nessuno sta gridando. Era solo un sogno, mi dico
.

Nei suoi libri la Dirie racconta anche dell’assoluta indifferenza con cui sono trattate le donne presso il suo e altri popoli africani: non hanno diritto all’istruzione, non possono prendere iniziative di alcun genere, sono trattate dai padri e dai mariti come schiave e spesso, per ignoranza, perché viene fatto loro credere che quella sia l’unica vita possibile, accettano il loro destino senza fiatare.
Qualcuna, come Waris, ogni tanto si ribella, ma sono ancora troppo poche le donne che hanno coraggio di sfuggire al crudele destino che le attende. La Dirie ha avuto la fortuna di trovare ospitalità da una zia a Mogadiscio, e poi a Londra, nella residenza di uno zio ambasciatore. Lì lavorava per 18 ore al giorno, sette giorni su sette come cameriera, ma quella vita le sembrava sempre migliore di quella che avrebbe condotto se fosse rimasta nel suo paese.
Quando lo zio, concluso il suo mandato, fu richiamato in Somalia, Waris decise di restare in Inghilterra e, da sola, iniziò a guadagnarsi da vivere lavando i pavimenti da McDonald’s. Poiché era analfabeta, si iscrisse a una scuola serale per farsi un’istruzione. Poi, l’incontro che le cambiò per sempre la vita: notata per la sua bellezza da un fotografo, Terence Donovan, posò per lui e da lì iniziò una fortunatissima carriera di fotomodella che la portò sul Calendario Pirelli e nelle campagne pubblicitarie della Revlon. Ha debuttato anche come attrice (in uno degli episodi dell’agente 007), si è fatta una famiglia: oggi è madre di due figli.
Dal libro Fiore del deserto è stato tratto il film omonimo proiettato in prima mondiale al Festival del Cinema di Venezia nel 2008.

Per una donna che ce l’ha fatta a liberarsi dalla schiavitù e a fuggire da una vita grama, molte altre non hanno gli strumenti per ribellarsi. È per questo che ho colto l’invito di un amico blogger, quarchedundepegi, condiviso da un altro amico, frz40, a diffondere l’iniziativa del governo cantonale del Canton Ticino (Svizzera) che sta distribuendo un pieghevole con le informazioni sull’infibulazione, nella speranza che il fenomeno possa essere arginato il più possibile. Per ulteriori informazioni questo è il LINK, mentre per richiedere copia del pieghevole si può scrivere al seguente indirizzo di posta elettronica: dss-umc@ti.ch

Cerchiamo di fare TUTTI qualcosa, senza pensare che la nostra singola azione sia solo un granello di sabbia: TUTTI insieme possiamo formare un deserto dove possano ancora crescere tanti fiori belli e coraggiosi come Waris.

[per le notizie su Waris Dirie e le citazioni dai libri: LINK 1, LINK 2, LINK 3 e LINK 4]