PER INDI GREGORY IL PARADISO PUÒ ATTENDERE

La vicenda della piccola Indi Gregory, 8 mesi, è nota a tutti. Per chi non ne avesse sentito parlare dirò solo che si tratta di una bambina inglese affetta da una grave malattia mitocondriale definita incurabile e destinata a morire a breve in seguito a una sentenza dell’Alta Corte del Regno Unito la quale ha stabilito che la ventilazione artificiale, che la tiene in vita, debba essere interrotta. In realtà, il destino di Indi era già stata decretato alcuni giorni fa e se la bimba è ancora viva si deve all’interesse dello Stato italiano che, con un decreto d’urgenza, ha concesso alla piccola la cittadinanza italiana e, tramite il console a Manchester, Matteo Corradini, ha chiesto l’immediato trasferimento in Italia dove potrebbe essere accolta e “curata” presso l’ospedale Bambino Gesù di Roma .

Tuttavia, i giudici inglesi non hanno accolto la richiesta, su cui in verità devono ancora discutere oggi, pur avendo rimandato l’interruzione della ventilazione artificiale prevista per le 17 di ieri e procrastinata più volte. Naturalmente l’intervento dell’Italia è dovuto alla resistenza tenace dei genitori di Indi, Dean Gregory e Claire Staniforth, secondo i quali c’è ancora qualche speranza per la figlioletta e per questo respingono con forza la decisione dell’Alta Corte del Regno unito.

Negli ultimi giorni il dibattito sui social network è molto acceso. Le posizioni degli utenti sono naturalmente opposte: c’è chi sostiene che protrarre l’esistenza di Indi sia una crudeltà, non essendoci per la sua malattia alcuna cura; c’è chi invece sta dalla parte dei genitori e non accetta che un tribunale decida al posto loro.

Certamente si tratta di una situazione delicatissima in cui nessuno di noi, specialmente se madri e padri, vorrebbe trovarsi. Per quanto riguarda la mia posizione, non ho difficoltà ad ammettere che sto dalla parte dei genitori. Un figlio, infatti, non nasce perché lo impone lo Stato o un tribunale. Nasce dall’amore di una coppia che desidera formare una famiglia. Chi dà la vita dovrebbe poter decidere di toglierla, nella situazione sfortunata in cui si trovano Dean e Claire.

Tuttavia, secondo alcuni quei genitori sono disumani perché vogliono prolungare inutilmente la sofferenza della piccola. Personalmente su questa triste vicenda ho letto tutto e il contrario di tutto. Secondo alcune fonti giornalistiche la bambina è sedata, quindi non soffre. Gli stessi medici appaiono divisi nelle loro posizioni. Mi ha colpito il commento su Twitter-X del dott. Burioni:

Il punto è questo: chi critica e giudica lo fa dall’esterno, basandosi su ciò che legge. Nessuno di noi è al capezzale della piccola Indi, tranne i genitori. E nei panni di quei genitori personalmente non vorrei trovarmi mai, tantomeno vorrei essere tacciata di disumanità o insensibilità da chicchessia.

Un cuore che batte è vita, indubbiamente. Se quella vita è sfortunata e già segnata, è naturale che chi ha messo al mondo quella creatura si aggrappi a ogni speranza. I medici del Bambino Gesù possono offrire solo delle cure palliative, è vero, però tanto basta a quei genitori disperati ai quali è stato negato, dall’Alta Corte britannica, persino il trasferimento di Indi nella loro casa nel Derbyshire.

Sempre sui social il dibattito ha assunto una connotazione politica: solo un governo di destra, secondo molti, può porgere una mano inutilmente, procrastinando la fine della bimba e la sua stessa sofferenza e strumentalizzando l’intera vicenda. Così come nel lontano 2009 è stato fatto di tutto, per giunta sfiorando il ridicolo a livello argomentativo, per evitare la morte di Eluana Englaro. Ma il caso Englaro era molto diverso, anzi era proprio l’opposto della vicenda della bambina inglese. Infatti Peppino, il padre di Eluana, aveva già ottenuto il via libera all’interruzione dell’alimentazione per la figlia, in seguito a una sentenza della Cassazione. Lui voleva la morte della figlia, mentre i signori Gregory vogliono che continui a vivere. Questa è certamente la differenza più macroscopica eppure, caso politico a parte, entrambe le vicende hanno una cosa in comune: la volontà dei genitori di decidere sulla vita o morte di un/una figlio/a. Però se da un lato un tribunale aveva concesso al signor Englaro di decidere sulla sorte di Eluana, dall’altro un tribunale nega questa possibilità alla mamma e al papà di Indi.

Se poi ci vogliamo attenere al “caso politico”, mi viene in mente la vicenda di Alfie Evans. Anche allora, correva l’anno 2018, alcuni ospedali italiani, come  il Bambino Gesù di Roma e il Gaslini di Genova, erano pronti ad accogliere il piccolo paziente inglese il cui destino era segnato da una malattia incurabile. In disaccordo con la famiglia, l’Alta Corte del Regno Unito decise di ritirare la patria potestà ai genitori di Alfie e di interrompere la ventilazione meccanica che lo manteneva in vita. Anche in quel frangente lo Stato italiano, grazie alla proposta dell’allora Ministro dell’interno Marco Minniti, ai sensi dell’art. 9, comma 2, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, deliberò il conferimento della cittadinanza italiana ad Alfie EVANS, nato a Liverpool (Gran Bretagna) il 9 maggio 2016, in considerazione dell’eccezionale interesse per la Comunità nazionale ad assicurare al minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute. Il governo di allora, presieduto da Paolo Gentiloni, non era certamente di destra…

Insomma, in questi tipo di situazioni dolorosissime e disperate quello che conta, a mio parere, è la volontà dei genitori. Non so cosa deciderà oggi l’Alta Corte ma una cosa è certa: il Paradiso può ancora attendere Indi. Per quanto tempo non lo so ma non posso che condividere, con umana compassione, la scelta dei genitori.

[fonti: Ilgiornale.it, rtl.it, rainews.it, bbc.com (da cui è tratta anche la foto), tempi.it, centrostudilivatino.it, wikipedia.org]

MALA TEMPORA

Photo by Miesha Renae Maiden on Pexels.com

Da molti mesi non aggiorno il blog. A essere precisi, da anni è abbandonato a se stesso e vive di vita propria grazie ai 1329 articoli che contiene. A settembre compirà 14 anni – ormai è un adolescente! – e non manca molto al traguardo dei 4 milioni di visualizzazioni. Solo per questo dovrei essere soddisfatta. Anzi, dovrei avere una motivazione forte per riprenderlo in mano e ricominciare a scrivere almeno un post a settimana come facevo agli inizi. Eppure…

Il mio blog ha due fratelli: uno didattico (laprofonline), anch’esso ormai semiabbandonato, e uno estivo (summertimetogether) che per la prima volta quest’anno, nonostante l’estate dal punto di vista climatico sia iniziata molto presto, non ho ancora aperto. Mancanza d’argomenti? Non credo.

In questo blog potrei parlare, per esempio, della situazione attuale dal punto di vista politico oppure della pandemia.

La pandemia è ancora tra noi. L’aggettivo endemico che ha sostituito il pandemico a proposito di Covid-19 non ha effetti consolatori. Il virus circola e si diffonde, i morti sono numerosi nonostante il periodo estivo in cui, negli anni passati, abbiamo assistito a un netto calo, la sfiducia nei vaccini è ormai un dato di fatto perché all’inizio si parlava di immunità di gregge e sembrava che la diffusione massiccia delle vaccinazioni avrebbe allontanato per sempre questa calamità che ci è piovuta addosso all’improvviso all’inizio del 2020.

In questo blog (ma anche negli altri) non ho mai voluto trattare argomenti strettamente legati alla politica. Se l’ho fatto, mi sono limitata a parlarne in relazione alla scuola, almeno finché non è nato il fratello laprofonline.

Sono stata sul punto di scrivere un post sulla morte, a 69 anni, della signora Gabriella Carsano. Il suo caso fece scalpore 12 anni fa quando, all’età di 56 anni, ebbe una figlia che successivamente le fu tolta dal tribunale che la ritenne troppo anziana per prendersene cura, considerata anche l’età avanzata del marito, più vecchio di lei di 12 anni. Il tema della maternità -anche quello in età avanzata – è presente in molti post su questo blog ma sinceramente non ho più voglia di parlarne. E più in generale sulla maternità avrei potuto affrontare un triste caso di cronaca di cui è stata involontaria protagonista una bimba di un anno e mezzo lasciata morire di stenti dalla madre che l’ha abbandonata da sola a casa per sei giorni. Ho, tuttavia, deciso di tacere perché la vicenda è troppo dolorosa e mi sarebbe stato impossibile mantenere una posizione “neutrale”, senza giudizi e accuse.

E veniamo alla scuola. Il secondo blog ha compiuto recentemente 11 anni e si avvia verso i 2 milioni di visualizzazioni. Anch’esso vive di vita propria visto che gli aggiornamenti sono scarsi. Non mancherebbero argomenti per scrivere qualche post, dal momento che, grazie alla pandemia, la scuola è al centro dell’attenzione da più di due anni e in questo momento politico così difficile il tema è piuttosto scottante. Qualche riflessione potrei farla, in effetti, ma nella mia lunga carriera si sono avvicendati più di venti ministri e nessuno ha fatto alcunché di buono per la scuola. Quindi anche questo è un tema sul quale preferisco non esprimermi, data la mia totale sfiducia nei governi passati e futuri.

Nel luglio 2013 ho aperto il blog estivo. L’intenzione era quella di trattare argomenti leggeri che lasciassero un po’ riposare la mente dopo le fatiche dell’anno scolastico. Anche in questo caso l’attualità mi potrebbe offrire molti spunti: potrei parlare del clamoroso divorzio tra Totti e Ilary oppure del nuovo compagno di Michelle, ex signora Trussardi, dal quale pare aspetti un maschietto…. Potrei postare qualche ricetta o scrivere la recensione dei libri che sto leggendo… purtroppo, però, l’ispirazione non arriva.

Una volta il blog era come l’orto di casa: un luogo in cui rilassarsi (nel senso di passatempo) e seminare augurandosi un buon raccolto. Credo che la lenta agonia dei blog sia dovuta alla massiccia diffusione dei social che permettono una comunicazione veloce ed efficace, non richiedono molto tempo e nemmeno una certa assiduità. Insomma, se all’improvviso scompari, nessuno se ne accorge mentre se sul blog non ci si fa vivi, anche i lettori più assidui a lungo andare si allontanano. L’ho scritto molte volte: i commenti sono la vera anima dei blog. Se un post non suscita reazioni, se non nasce una discussione alla fine è come un soliloquio. Certamente a volte si scrive sentendone la necessità, perché in fondo chi ama la scrittura coltiva anche in questo modo la sua passione. Ma nessuno scrive solo per se stesso, è innegabile. Avete mai creduto che Manzoni ambisse davvero a un pubblico ristretto di soli 25 lettori?

Quindi, per quel che resta delle vacanze, se volete mi potete trovare su twitter.

Buona estate a tutti!

VERITÀ E BUGIE SUL COVID-19

Il Covid-19 non fa più paura. Dall’ormai lontano febbraio pare che la situazione sia migliorata, l’epidemia in Italia è sotto controllo, nonostante il sorgere di focolai in alcune regioni, le terapie intensive sono semivuote, pochi i malati ricoverati in altri reparti, pochi anche i decessi, sempre paragonandoli al numero dei peggiori momenti, ormai si pensa al mare, alle vacanze, alla discoteca, ai divertimenti. Soprattutto, a settembre le scuole devono riaprire senza restrizioni di sorta: tutti in aula appassionatamente. Ci abbracceremo, ci baceremo, tutto sarà come prima. Abbiamo bisogno di normalità.

Tutto giusto, per carità. Ma siamo proprio sicuri che fra meno di due mesi il Covid-19 sarà un lontano ricordo?

Chi lo può dire? Gli esperti, sentenzierà con tono assolutamente certo qualcuno. Sì, ma quali esperti? Possiamo davvero fidarci di quanto dicono, spesso in contraddizione l’uno con l’altro?

Io non ho tutte queste certezze. Non posso dimenticare l’inizio di questa brutta storia, quando la Cina sembrava lontana, quando eravamo sicuri che ci saremmo salvati semplicemente bloccando i voli da quel Paese, quando esperti virologi, come la dott.ssa Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano, si divertivano a ridicolizzare i “colleghi” più cauti, voci autorevoli del mondo della medicina, specialmente della microbiologia e virologia, che avevano fin da subito messo tutti in allerta. Figuriamoci, il Covid-19 è poco più di un’influenza, sosteneva la Gismondo, anzi i decessi sono pochi, meno di quanti ne causi il virus stagionale, muoiono i vecchi e comunque chi è già afflitto da altre patologie.

Qualcuno ha provato a smentirla. Non faccio nomi e cognomi perché, purtroppo, questa vicenda che riguarda la salute pubblica che è un bene comune, è diventata una questione politica. Io non mi schiero mai dalla parte di chi condivide le mie idee politiche (anche se, obiettivamente, so più da quale parte non stare che da quale parte stare) su questioni che richiedono soprattutto il buonsenso. Un’opinione personale, in questi casi, rimane tale se non supportata da fatti obiettivi, inconfutabili. Ho dato credito alla dott.ssa Gismondi fidandomi della sua chiara fama (personalmente non l’avevo mai sentita nominare, come la maggior parte di noi, ma il curriculum è di tutto rispetto) poi ho iniziato a ragionare con la mia testa affidandomi alle statistiche. Non c’è stato bisogno di ulteriori smentite riguardo alle affermazioni forse troppo precipitose della virologa: ci hanno pensato i fatti stessi.

Ha taciuto per molto tempo, la dott.ssa Gismondo. L’ha fatto, credo, affidandosi al buonsenso. Qualcuno ne ha chiesto il licenziamento? No.

C’è, tuttavia, chi sta lontano dalle provette e dai microscopi dei laboratori, sta in corsia, persone che indossano camici di colore diverso ma tutte unite dalla stessa passione per la propria professione, dalla stessa coscienza con cui si sono assunte e si assumono la responsabilità nei confronti di questo virus insidioso che nel mondo continua a mietere vittime: i medici e il personale sanitario in genere. Queste sono le sole persone che hanno potuto toccare con mano la gravità della situazione nei momenti peggiori, che hanno dovuto arrendersi, impotenti, di fronte alla morte di migliaia di persone, che hanno trovato la forza di rimanere in piedi ore ed ore, senza mai guardare l’orologio, che hanno stretto le mani a chi non ce l’ha fatta, che hanno accarezzato per l’ultima volta i pazienti privati della vicinanza dei propri cari. Non sono eroi, come tengono a precisare, hanno fatto il loro dovere, dimostrando dedizione nei confronti della professione che hanno scelto consapevoli che la loro missione è quella di salvare la vita e non di lasciarla andare via. Eppure sono stati testimoni di morte, gli unici a essere rimasti in stretto contatto con il maledetto Covid-19 che ha portato via anche molti di loro. Queste sono le cose che non dobbiamo mai dimenticare.

Ora c’è un infermiere di Cremona che mette in guardia: il Covid-19 non è un lontano ricordo, i contagi aumentano, le persone si ammalano, alcune gravemente.

Ci mette la faccia e il nome, nel testo postato sul suo account Facebook: Luca Alini. Dice cose inconfutabili:

Il coronavirus non si è dimenticato di fare il suo lavoro e da bravo virus fa quello che deve: infetta nuovi ospiti per sopravvivere. Niente di più e niente di meno. Noi esseri umani, invece, dall’alto della nostra intelligenza ed evoluzione tecnologica e scientifica, facciamo finta che non esista, qualcuno pensa non sia mai esistito […] anche se per fortuna la situazione non è grave “come a febbraio o a marzo o all’inizio di aprile, quando i Covid erano 30 su 30 in reparto più altrettanti ricoverati in altri reparti, quando su 30 pazienti 26 erano ventilati”, non possiamo permetterci di dimenticare che “il virus esiste, non è magicamente sparito e sta mietendo ancora vittime in altre parti del mondo. Da noi ha già dato, ma non sta scritto da nessuna parte che non possa ricominciare a farsi vivo”. (LINK all’articolo da cui è tratto il passaggio)

Si è attirato un sacco di critiche quell’infermiere. Ha dovuto cancellare il post, dopo che l’Azienda sanitaria dell’ospedale presso cui lavora, attraverso le parole del Direttore sanitario Rosario Canino, si è affrettata a ridimensionare l’allarme: “Non sono i casi gravi di marzo. Ci sono stati dei ricoveri in questi giorni in reparti ordinari, in parte legati a focolai già noti”.

C’è chi accusa Luca Alini di procurato allarme, chi ne chiede a gran voce il licenziamento. Eppure le parole del suo post sono dettate dalla saggezza e soprattutto dalla consapevolezza di chi ha dovuto far fronte a un’emergenza inattesa e che certamente non può essere smentita dato che i numeri parlano da sé: quasi 35mila vittime, più di 240mila casi accertati. I casi crescono e decrescono con effetto altalena, i morti ci sono ancora sebbene in numero limitato. Ma questo quadro non dà garanzie per il futuro, dice solo l’unica cosa certa: il virus c’è, non è sparito. Se poi diamo un’occhiata a ciò che accade nel mondo, la pandemia sfiora i 12,5 milioni di contagi da Covid-19, di cui 3 milioni solo negli Stati Uniti.

Allora non iniziamo a dire ciò che ci ha tratti in inganno mesi fa: sì, ma l’America, settentrionale o meridionale che sia, è lontana e i voli dai Paesi non sicuri sono stati bloccati. Esattamente questo accadde alla fine di gennaio per i voli dalla Cina, eppure il coronavirus è entrato di prepotenza nel nostro Paese da ogni dove, seguendo strade alternative. Non certo per sua iniziativa.

Che cos’ha detto di sbagliato l’infermiere cremonese? “Non sta scritto da nessuna parte che non possa ricominciare a farsi vivo”. Nulla che possa essere oggettivamente smentito.

La stessa Gismondo sull’eventualità dello scoppio di nuovi focolai in autunno, ha recentemente dichiarato: «Certamente ci saranno ancora focolai e saranno più di adesso. Ma noi, a differenza di quanto è accaduto a marzo, non verremo colti di sorpresa».

Che il virus ci abbia giocato un brutto scherzo, per di più in pieno clima carnevalesco, è sicuro. Sulla sorpresa avrei delle riserve. Quando si viene colti di sorpresa significa che quello che è accaduto non era prevedibile. Il Covid-19 non era previsto, certamente, ma le falle del nostro sistema sanitario hanno messo in luce la poca disponibilità di chi ci governa, e ci ha governato, a prevenire o almeno a gestire situazioni di emergenza. Da noi si preferisce curare piuttosto che prevenire – nonostante il motto “prevenire è meglio che curare” – ma quando si ha di fronte un nemico invisibile che non può essere affrontato con armi certe (una cura sicura ancora non c’è e il vaccino chissà quando verrà prodotto e con quali costi), allora emerge non solo la difficoltà di curare ma anche, a volte, l’impossibilità di farlo per mancanza di uomini e mezzi.

Le conseguenze dei tagli alla Sanità – come del resto quelli alla scuola – sono di fronte agli occhi di tutti. Questa è una certezza.

Ma forse c’è un’altra verità da non sottovalutare: la mancanza di responsabilità da parte di chi, contro ogni evidenza scientifica, fa finta che tutto andrà bene, che nessun pericolo è imminente e che, nella peggiore delle ipotesi, l’esperienza ci salverà. Così vediamo la noncuranza di quelli che si accalcano nelle strade della movida, nelle spiagge perché di sacrifici ne abbiamo fatti tanti durante il lockdown e abbiamo bisogno di ossigenarci (anche i malati di Covid19 avrebbero avuto bisogno di maschere di ossigeno che non c’erano…), di quelli che non indossano la mascherina anche se dovrebbero, tanto non serve, e che non rispettano la distanza di sicurezza. Li abbiamo di fronte agli occhi, ogni giorno, quando siamo al supermercato o facciamo la fila alla Posta e ci stanno appiccicati addosso. Nei luoghi aperti non serve, così io che la indosso sempre proteggo chi mi incrocia sul marciapiede standomi a pochi centimetri mentre io non sono affatto protetta.

Cosa abbiamo imparato dalle interminabili settimane di segregazione? A che cosa è servito quel sacrificio? Sicuramente ad arginare il fenomeno e a rendere, per quanto possibile, meno grave la situazione. Se allentiamo le difese, in nome della vita da vivere che è un diritto sacrosanto specialmente dopo la reclusione, tutto potrebbe ricominciare da capo.

Non voglio essere catastrofista e in verità cerco di guardare al futuro con ottimismo. Forse quello che mi manca è la fiducia nel genere umano che, una volta passata la tempesta, si dà alla pazza gioia infischiandosene del senso civico che dovrebbe essere lo strumento migliore per vivere la collettività con equilibrio e mirando al bene comune. Perché le cose capitano, oggi a me domani a te, ma se collaboriamo forse ce la caviamo meglio entrambi.

Questa è l’unica verità che conosco.

[immagine Gismondo da questo sito; immagine Alini da questo sito]

GENOVA: CROLLA IL PONTE MA NON LA SPERANZA

Ciò che resta del ponte Morandi, il 14 agosto 2018
(PIERO CRUCIATTI/AFP/Getty Images)

Una settimana strana questa che sta finendo. La settimana di Ferragosto, periodo in cui la gente si libera dai fardelli quotidiani e ha voglia di evadere, fosse anche per una gita fuori porta.

Ferragosto segna, in qualche modo, lo spartiacque tra l’estate che ha goduto del sole e della luce di lunghe giornate e l’anticipo del tempo autunnale caratterizzato da giornate sempre più parche di luce. Per questo se il 15 agosto “cade” a metà settimana, come quest’anno, la possibilità di cogliere l’occasione per un “ponte” si fa ghiotta. C’è chi ha approfittato dello scorso week-end, prolungandolo fino al mercoledì, e chi invece ha pensato di godersi il “ponte” fino a questa domenica. Qualunque sia stata la scelta, il Ferragosto di quest’anno rimarrà nelle nostre memorie come il più sanguinoso di tutti.

I ponti, quelli veri, a volte crollano. Qualunque ne sia il motivo, incuria, superficialità o incapacità decisionale, difficilmente si tratta di eventi imprevedibili. Ne sapeva qualcosa il pontifex dell’antica Roma, il cui nome deriva proprio dalla locuzione pontem facere e quindi il titolo di questa figura si poteva tradurre con “costruttore di ponti”. E i ponti erano importanti allora e adesso perché uniscono. Il pontifex era una figura anche religiosa però allo stesso tempo si occupava della giustizia e garantiva ai cittadini la tutela dei sacra privata, senza rinunciare a quella dei beni pubblici. La sicurezza è uno di questi, almeno dovrebbe esserlo.

La settimana che sta finendo è stata caratterizzata dai ponti. Il “ponte” di Ferragosto che avrebbe dovuto portare spensieratezza e quello costruito a Genova dall’ingegner Morandi nel lontano 1967. Un ponte molto trafficato soprattutto in occasione delle festività. Un ponte che la vigilia di Ferragosto ha portato lacrime e sangue, trascinando con sé la felicità, i sogni e i progetti di molte famiglie, assieme alla struttura caratterizzata dagli “stralli” che vagamente ricordano il ponte di Brooklin, tanto da essere esso stesso chiamato così dai genovesi.

La settimana che sta terminando è stata caratterizzata da altri eventi dolorosi e tristi ma il crollo del ponte Morandi pare abbia messo in secondo piano ogni cosa.

Poche ore prima del disastro di Genova un nuovo attentato nel cuore di Londra, fortunatamente senza gravi conseguenze, ha riportato la paura degli attentati terroristici che da troppo tempo hanno tolto serenità agli abitanti delle grandi città europee.
Il 17 agosto, a un anno da quel tragico evento, si è ricordato l’attentato sulla rambla di Barcellona ma anche questa notizia è passata in secondo piano. Anche se i morti di oggi, i nostri morti non sono certamente più importanti.

Il 16 agosto, dopo una lunga malattia, se n’è andata Aretha Franklin, voce indimenticabile in un panorama musicale che si fa sempre più scarno di interpreti destinati all’immortalità.

Il 18 agosto un terremoto caratterizzato da forti scosse ha riportato la paura nel centro-sud Italia. Nessuna vittima, danni ad alcuni edifici ma gli abitanti del Molise hanno rivissuto i tragici momenti del violento sisma che poco meno di un anno, il 24 agosto, ha sconvolto le Marche. Anche questo evento, non così tragico né luttuoso ma ugualmente drammatico per chi l’ha vissuto, non ha occupato le prime pagine dei quotidiani.

epa06955571 (FILE) – Former UN Secretary General Kofi Annan speaks to students about his memoirs, ‘Interventions: A Life in War and Peace’, at the London School of Economics in London, Britain, 04 October 2012 (reissued 18 August 2018). According to reports, the former UN secretary general Kofi Annan died on 18 August 2018 at the age of 80. EPA/FACUNDO ARRIZABALAGA
Ieri, all’età di 80 anni, è morto l’ex Segretario delle Nazioni Unite, nonché Premio Nobel per la Pace, Kofi Annan. I nove anni del suo mandato, dal 1997 al 2006, sono stati contrassegnati da eventi che non possiamo dimenticare, primi fra tutti gli attentati di al Qaeda a New York e Washington, l’invasione dell’Iraq da parte degli USA e altri fatti storici importanti. L’uomo della pace passed away peacefully, come annuncia la famiglia sui social. E non poteva concludere diversamente la vita terrena.

E poi ci sono i 43 morti della tragedia di Genova. Alcuni sul ponte maledetto transitavano spensierati con la mente già in vacanza, alcuni dal periodo di ferie stavano tornando, altri stavano lavorando sui camion, tutti divorati dal crollo del ponte; altri, trovandosi al di sotto, sono rimasti schiacciati dall’imponente porzione crollata.

Questi morti in particolare hanno portato lacrime e rabbia, hanno smosso le coscienze ma anche inconsapevolmente hanno scatenato rimpalli di responsabilità che ci lasciano disorientati. Chi arriva dopo darà sempre la colpa a chi lo ha preceduto. Lo sappiamo bene noi insegnanti di fronte all’impreparazione di bambini e ragazzi. Ma è troppo facile assolversi puntando il dito contro gli altri.

E in attesa che qualcosa cambi nel nostro Paese, che si passi dal “faremo” e “vedremo” all’ “agiamo ora” perché domani sarà troppo tardi, la parola più gettonata è “giustizia”, sulla bocca di tutti: familiari delle vittime senza più lacrime da spargere, sfollati che hanno lasciato le proprie case, politici dalle facili promesse, magistrati cauti per provata esperienza, cittadini comuni poco disposti ad accettare una cosa così grande e terribile. Ma la giustizia ha i suoi tempi e non rispetta i tempi che il dolore vorrebbe.


Un ponte è crollato ma non la speranza che si possa vivere in armonia, finalmente uniti e non solo dalla tragedia di un ponte crollato e solo per il tempo che la memoria concederà.
Particolarmente toccanti, durante i funerali di alcune delle vittime del ponte Morandi, sono state a mio parere le parole dell’imam che ha pregato per due delle vittime di religione islamica, davanti all’altare allestito in un padiglione della Fiera di Genova e sotto lo sguardo sofferente di un Cristo in croce.

«Siamo vicini a tutti voi e chiediamo pace e consolazione al Signore che con la sua infinita misericordia ci ha insegnato il valore dei ponti con il primo ponte simbolico che ha unito il primo uomo e la prima donna, e ci ha reso consapevoli delle nostre responsabilità, e ci chiede di pregare per le anime delle vittime e di consolare chi è rimasto.

Preghiamo per Genova, la Superba: saprà rialzarsi con fierezza la nostra Genova, la Zena che in arabo vuol dire la “bella”, ed è nei nostri cuori. Le comunità islamiche della Liguria e dell’Italia intera pregano affinché la pace sia con tutti voi, chiedono che il Signore protegga l’Italia e gli italiani.»

Genova la bella, la superba, saprà rialzarsi.

L’Italia tutta tra le lacrime prega per i suoi morti e a gran voce invoca dignità. La dignità che davvero ci meritiamo e che non deve rimanere parola astratta che accompagna un asettico elenco che chiamano Decreto.

In memoria delle vittime più piccole, due bambini di 9 anni e due adolescenti di 12 e 16, mi piace concludere con una poesia di Marziale, poeta latino del I secolo d.C., dedicata a una bimba morta prematuramente: la piccola Erotion.

NEC ILLI TERRA, GRAVIS FUERIS: NON FUIT ILLA TIBI.

[immagine del ponte da questo sito; immagine di Aretha da questo sito; foto di Kofi Annan da questo sito; immagine funerali di Stato da questo sito; immagine con il testo della poesia prodotta con quozio.com]

CONGEDO MESTRUALE: PERCHÉ NO?


Si sta discutendo alla Camera una proposta di Legge, firmata da quattro deputate del Pd, che prevede un congedo mensile di massimo tre giorni per le donne che soffrono di dismenorrea (mestruazioni dolorose). Attualmente la proposta è all’esame della Commissione Lavoro e potrebbe essere approvata in tempi brevi, allineando l’Italia a molti Paesi, soprattutto orientali, che si sono attivati già in questo senso.

In realtà la proposta è stata presentata da Romina Mura, Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato già un anno fa. L’iter è stato accelerato anche grazie al dibattito sulla questione che negli USA è stato riacceso di recente dalla decisione di un’azienda di Bristol, la Coexist, di inserire nello statuto l’esenzione dal lavoro per le impiegate nei giorni di picco del ciclo mestruale.

Naturalmente questo speciale congedo sarebbe usufruibile solo previa presentazione di un certificato medico redatto dallo specialista, da rinnovare di anno in anno, che attesti la presenza di dismenorrea. Una sindrome molto più diffusa di quanto si potrebbe pensare: in Italia si stima che fra il 60% e il 90% di donne in quei giorni lamentano mal di testa, mal di schiena, dolori addominali, forti sbalzi ormonali. Nel 30% dei casi i disturbi sono invalidanti: costringono a letto per ore e anche per più giorni. Un malessere che può essere violento e fortemente invalidante, seppur limitato a uno-tre giorni al mese.

Il congedo mestruale è già una realtà da molto tempo nel mondo orientale dove c’è la credenza che il mancato riposo durante il ciclo provochi parti problematici: in Giappone esiste dal 1945 e in Indonesia dal 1948. Più recentemente si sono aggiunte alla lista “rosa” Sud Corea e Taiwan.

Di fronte alla proposta di Legge mi sento di esprimermi in modo favorevole, nonostante non mi riguardi da vicino. Non più, almeno, ma non posso dimenticare gli anni passati in un incubo mensile che mi costringeva a letto a volte anche per due giorni, in preda a dolori lancinanti, nausea, svenimenti… talvolta erano necessarie una o più iniezioni di antidolorifici perché non riuscivo a tenere nello stomaco le pastiglie. Ora leggendo i dati mi rincuoro un po’, ma anche mi dispiace. Ai tempi, invece, mi sembrava di essere una besti rara e invidiavo tutte le amiche e compagne di scuola che, non solo passavano “normalmente” quei giorni, ma addirittura potevano andare al mare o in piscina, continuavano gli allenamenti in palestra. Per me il mondo si fermava, semplicemente. E così è stato fino alla nascita del mio primogenito. Forse, inconsciamente, la mia precoce (ma non tanto ai tempi…) voglia di maternità era dovuta proprio alla speranza di stare bene dopo il primo parto.

Leggo sui quotidiani che la proposta non è appoggiata da tutte le donne. Alcune, che evidentemente non soffrono né hanno mai sofferto di dismenorrea, affermano che basta chiedere uno o più giorni di malattia, senza alcun bisogno di leggi speciali.
Altre sono arrivate al punto da esclamare: “Abbiamo tanto lottato per la parità dei sessi e ora…”. Ma ora che? Vogliamo far partorire gli uomini, per par condicio? Magari un domani sarà pure possibile ma non ora, finché è ancora la natura a decidere.

L’obiezione più assurda è che la proposta si debba bollare perché a presentarla sono state quattro donne del Pd. Come se la dismenorrea fosse di sinistra e le donne fortunate a non soffrirne fossero tutte di destra. Vuol dire che faremo presente al ciclo di fare attenzione: niente dolori a destra, solo a sinistra.

C’è anche chi preferirebbe che fossero le aziende e i datori di lavoro a decidere, come accade nella maggior parte dei Paesi occidentali. Insomma, non c’è bisogno di una legge ad hoc, solo un gesto caritatevole da parte dei boss. E con le donne che hanno un impiego statale come la mettiamo?

In conclusione, ribadisco che a me piace questa proposta, mi pare assennata. Se poi non va bene condividerla perché, si sa, in Italia “fatta la legge, trovato l’inganno”… il dubbio che qualche “furbetta” se ne approfitti e che qualche medico sia compiacente c’è. Ma lo stesso discorso vale anche per le migliaia di certificazioni sui falsi invalidi, no?

[fonte: Il Messaggero; immagine da questo sito]

LIBRI: “GIUDA” di AMOS OZ

“I libri, loro non ti abbandonano mai. Tu sicuramente li abbandoni di tanto in tanto, i libri, magari li tradisci anche, loro invece non ti voltano mai le spalle: nel più completo silenzio e con immensa umiltà, loro ti aspettano sullo scaffale”. (Amos Oz)

L’AUTORE
ozAmos Oz è nato a Gerusalemme il 4 maggio 1939. Oltre ad essere autore di romanzi e saggi, Oz è giornalista e docente di letteratura alla Università Ben Gurion del Negev, a Be’er Sheva. Sin dal 1967 è un autorevole sostenitore della “soluzione dei due stati” del conflitto arabo-israeliano. Nel 2008 ha ricevuto una laurea honoris causa dall’Università di Anversa. Nel 2007 ha vinto il premio “Premio Príncipe de Asturias de las Letras” e il premio Fondazione Carical Grinzane per la cultura mediterranea. Nel 2008 ha ricevuto il premio Dan David, nello stesso anno ha vinto anche il Premio Internazionale Primo Levi.

Nel suo romanzo autobiografico Una storia di amore e di tenebra, Oz ha raccontato, attraverso la storia della sua famiglia, le vicende del nascente Stato di Israele dalla fine del protettorato britannico: la guerra di indipendenza, gli attacchi terroristici dei feddayn, la vita nei kibbutz. Dopo il suicidio della madre, avvenuto quando lo scrittore aveva appena dodici anni, inizia un contrasto con il padre, un intellettuale vicino alla destra ebraica, e decide di entrare nel kibbutz Hulda, dove viene adottato dalla famiglia Huldai. Amos cambia anche il cognome originario “Klausner” in “Oz”, che in ebraico significa “forza”.

Oz, che ha studiato filosofia e letteratura ebraica all’Università Ebraica di Gerusalemme, inizia giovanissimo a scrivere. Oltre ai suoi romanzi, l’autore pubblica regolarmente saggi di politica, di letteratura e sulla pace. Scrive per il giornale laburista israeliano Davar, soppresso negli anni Novanta e di seguito inizia la collaborazione con il quotidiano Yedioth Ahronoth. Autore di pubblicazioni in inglese, ha collaborato anche con il New York Review of Books.

Numerosissimi i romanzi pubblicati da Oz, in Italia tutti per Feltrinelli. Ricordiamo: Michael mio (1968), Una pace perfetta (1982), La scatola nera (1987), Conoscere una donna (1989), Una storia di amore e di tenebra (2003), D’un tratto nel folto del bosco (2005), Una pantera in cantina (2010). L’ultimo romanzo pubblicato è Altrove, forse del 2015.
Giuda è uscito nel 2014, riedito nell’Universale Economica di Feltrinelli (cui mi riferisco nelle citazioni) nel 2016. [fonte Wikipedia]

giuda oz

IL ROMANZO
La storia è ambientata in Israele tra la fine del 1959 e i primi mesi del 1960. Protagonista è Shemuel Asch, un giovane studente che vive a Gerusalemme dopo aver lasciato la casa di famiglia ad Haifa. A causa di un improvviso dissesto economico che colpisce il padre, co-proprietario di una piccola ditta che ha appena perso una causa con l’ex socio, il giovane decide di abbandonare gli studi universitari (mentre sta scrivendo la tesi di dottorato su Gesù visto in prospettiva ebraica) e cercarsi un lavoro, senza lasciare Gerusalemme.
Lo sconforto di Shemuel è aggravato dalla fine della relazione con Yardena che l’aveva lasciato per sposare un ex fidanzato. Questa serie di vicissitudini porta il giovane a isolarsi: decide, quindi, di abbandonare anche il gruppo di amici che frequentavano il Circolo per il Rinnovamento socialista, tra i quali ha origine un conflitto per divergenza di opinioni.

In breve il ragazzo trova il lavoro che gli serve in vicolo Rav Albaz numero 17. Si tratta dell’ultima casa in fondo alla strada che sul momento al protagonista non fa una buona impressione:

Quanto alla casa, a Shemuel Asch sembrò lì per lì una mezza cantina, più bassa del piano stradale, come sprofondata nella terra greve del pendio fin quasi alle finestre. A guardarla dal vicolo, pareva un uomo tozzo e largo di spalle che con un cappello scuro in testa cercava in ginocchio nel fango qualcosa che aveva perso. (pp. 26-27 dell’edizione citata)

Il luogo è abitato da un uomo vecchio e deforme, che si muove stentatamente con l’ausilio delle stampelle e passa la maggior parte del giorno (e della notte, dato che soffre d’insonnia) nella biblioteca di casa, e da una giovane donna sui quarantanni, misteriosa e allo stesso tempo affascinante (infatti Shemuel ne è subito attratto, nonostante la differenza di età), che si scoprirà essere la nuora del vecchio.

In realtà la casa non appartiene all’invalido Gershom Wald ma alla donna: Atalia Abrabanel aveva sposato il figlio di Wald, Micah, morto nel 1948 durante il conflitto arabo-israeliano, e pur essendosi trattato di un matrimonio di breve durata, aveva deciso di ospitare in casa sua il suocero.
Nell’abitazione per un periodo gli abitanti avevano convissuto anche con il padre di Atalia, Shaltiel Abrabanel, già leader dell’Agenzia Ebraica che era stato rimosso da ogni incarico per divergenze di opinione con Ben Gurion che, convinto sionista, fu primo ministro dello Stato di Israele dal 1948 al 1954.

La vita di Shemuel in casa Abrabanel scorre tranquilla. Le giornate appaiono abbastanza monotone, scandite da gesti che si ripetono sempre uguali: la colazione al mattino, a volte in compagnia di Atalia, il tempo libero passato a bighellonare e talvolta occupato nelle sue ricerche o nella stesura della tesi di dottorato che non abbandona mai, anche se sa che forse non gli servirà, il pranzo in una tavola calda ungherese in via King George, dove ordina sempre il tipico goulash e la composta di frutta. Il lavoro lo tiene occupato solo qualche ora, da metà pomeriggio fino all’ora di cena, anche se nel tempo l’orario si rivelerà piuttosto elastico. In breve, il compito affidato al giovane Asch è di fare compagnia al vecchio Wald, chiacchierando ma perlopiù ascoltando i suoi lunghi discorsi sulla sorte di Israele, con l’unico obbligo di servirgli la cena, una pappina preparata dalla vicina di casa Sarah De Toledo, che spesso costituisce anche la sua cena, accontentandosi degli avanzi.

Il compenso è scarso ma gli viene offerto gratuitamente un alloggio: si tratta della mansarda della casa.

La sua mansarda era bassa e accogliente, una specie di tana invernale. Era un locale bislungo con il soffitto spiovente come teli di una tenda. L’unica finestra dava sul davanti della casa, verso il muro del giardino e il sipario di cipressi che c’era oltre, il giardino lastricato e l’ombra della vite e del vecchio fico. […]
La finestra era profonda perché i muri della casa erano molto spessi. Shemuel aveva preso la sua coperta pesante e l’aveva messa sul davanzale per farsi una specie di sedile: era bello rifugiarsi lì ogni tanto per una mezz’ora, anche un’ora, a guardare il giardino deserto. […]
Il letto di Shemuel si trovava fra l’angolo con il bricco per il caffè e il gabinetto con la doccia, separati da una tenda. Accanto al letto c’erano un tavolo, una sedia e una lampada, e di fronte una stufa e uno scaffale… (ibidem, pp. 58-59)

Nel breve periodo della sua permanenza in casa Abrabanel, Shemuel si affeziona sinceramente al vecchio Wald che si rivela molto meno burbero di quanto potesse apparire all’inizio, anzi, diventa un valido interlocutore che pian piano si apre a confidenze riguardo alla vita privata e alle idee personali sulla questione palestinese. Ghersom ritiene che in Terra di Israele non sarà possibile avere la pace e che sia un’utopia anche solo pensare che due popoli così diversi possano arrivare ad una convivenza civile senza scontri. Ciò lo distanzia dalle convinzioni del consuocero Abrabanel:

«La distanza era troppo grande,» disse Gershom Wald sorridendo mestamente sotto i baffi, «lui era rimasto arroccato sulle sue posizioni, sosteneva che era impossibile realizzare il sionismo nello scontro con gli arabi, mentre io, alla fine degli anni quaranta, avevo capito che non lo si poteva realizzare senza questo scontro.» (ibidem, pag. 223)

Un altro argomento di discussione che sembra interessare il vecchio riguarda la tesi del giovane Shemuel su Gesù visto in prospettiva ebraica. Nello studio portato avanti dall’ex studente, la questione viene affrontata sulla base del ruolo di Giuda che, secondo la teoria esposta nei vangeli gnostici, non avrebbe tradito Cristo ma sarebbe stato costretto dallo stesso Gesù a consegnarlo alle autorità. D’altronde, Giuda era ricco di famiglia e la ricompensa dei trenta denari costituiva una somma decisamente esigua, non tale da giustificare il “tradimento”. L’unica colpa dell’Iscariota, secondo le ricerche fatte da Shemuel, consisterebbe nel non aver capito che Gesù da quella croce non sarebbe sceso sulle sue gambe, vivo e vegeto, facendosi beffe di tutti. Prende forma, dunque, dalla trattazione dell’argomento, di cui il giovane a lungo discute con Wald, un concetto tutto nuovo di “tradimento”, in contrasto con quello portato avanti dalla tradizione cristiana.

I rapporti con Atalia sono, invece, molto altalenanti. A volte sembra che la donna lo eviti, altre lo invita a trascorrere la serata assieme, alimentando nel giovane ex universitario la speranza che fra i due possa nascere un’amicizia sincera o forse un sentimento più forte.

Ripensò ai capelli lunghi di Atalia che le ricadevano sulla spalla sinistra sopra il vestito ricamato. Al suo passo che aveva un che di melodioso, come una danza repressa, come se i fianchi fossero più animati di lei. Una donna decisa, piena di segreti, che ogni tanto è scostante con te e ti tratta con una dose di curiosità fredda, una donna che ti domina costantemente, che ti guarda sempre con un lieve sarcasmo frammisto forse a qualche scheggia di pietà. E quella pietà te la tieni stretta al cuore come se per lei tu fossi un cagnolino abbandonato. (ibidem, pag. 125)

Ma il vecchio Wald lo mette in guardia: stessa sorte era capitata anche ai giovani che l’avevano preceduto, i quali avevano svolto il medesimo compito, e alla fine tutti se n’erano andati perché la sola Atalia ha in mano le pedine e detta le regole del gioco.

Dopo un infortunio del giovane e un periodo di riposo in cui è accudito amorevolmente dalla donna, ma sempre senza alcuna possibilità di scelta, con l’arrivo del primo tepore primaverile le cose cambiano. Anche per Shemuel, come per gli altri, è giunta l’ora di andare?

***

Giuda è un romanzo avvincente, non tanto, e non solo, per la trama, quanto per lo scenario che apre davanti agli occhi del lettore, tutt’altro che scontato e banale. Della storia di Israele crediamo di sapere tutto, fa parte della cosiddetta attualità, con il suo passato e il suo presente, l’abbiamo studiata a scuola e ne leggiamo spesso le cronache sui quotidiani. Eppure – almeno questa è stata la mia impressione – la conosciamo poco nelle sue sfaccettature. Un po’ come studiare la storia sul Bignami e non su un testo monografico.
Amos Oz è perfettamente calato nelle vicende storiche del suo Paese, le ha vissute dall’interno di un kibbutz, per poi uscirne e arrivare a Gerusalemme, la città Santa, nelle vesti di studente prima e docente universitario poi. Pochi potrebbero parlarne meglio di lui, fosse anche dalle pagine di un romanzo dove, nella mescolanza tra fantasia e realtà, emerge una pagina di storia, con tutte le sue contraddizioni, su cui ancora non è stata scritta la parola fine, come una fiaba in cui la lotta fra il bene e male ancora non si è si conclusa con il canonico “e vissero felici e contenti”.
La particolarità di questo romanzo è, a mio modesto avviso, l’intersezione tra storia ed esegesi biblica, o per meglio dire evangelica, anche se non propriamente ortodossa, che vengono perfettamente amalgamate in una trama narrativa non scontata, dove il mistero sui protagonisti viene dipanato un po’ per volta.

Un romanzo, per essere onesti, di non facile lettura. In primo luogo per lo stile un po’ rétro, anche nelle scelte lessicali (viene ripetuto più volte, per esempio, il verbo concionare, ma questo “difetto” potrebbe essere imputato alla traduttrice) che comunque sono molto curate, e per l’alternanza tra racconto in terza e prima persona senza dei confini narrativi ben definiti. Come se narratore esterno ed interno convivessero, confondendo però un po’ i ruoli. Oz usa volentieri il discorso indiretto libero (che i veristi utilizzavano per avvicinare il linguaggio alle capacità di espressione dei personaggi, ma questo non è certamente il caso del romanzo in questione) e a volte il flusso di coscienza che consiste nel riportare per iscritto i pensieri dei personaggi così come affiorano alla mente. Espedienti, questi, che potrebbero essere scelti proprio per rendere la narrazione più “vera”, ma non ho letto altre opere di Oz quindi non so se costituiscono una caratteristica stilistica dello scrittore.

Un’altra particolarità, che potrebbe non essere apprezzata da tutti, è la presenza di tante descrizioni, anche molto efficaci (ne sono esempio i passi riportati, scelti proprio per questo), sia dell’ambiente sia dei personaggi, che a volte si ripetono nel corso dello svolgimento della trama. Questa peculiarità era tipica del romanzo ottocentesco, in particolare del periodo del Naturalismo francese, e serviva in un certo senso a comprendere meglio i personaggi e le loro scelte a volte condizionate dall’ambiente in cui si muovevano. Il soffermarsi su certi dettagli fisici o relativi all’abbigliamento, ad esempio, oppure sulle caratteristiche dei luoghi, dal punto di vista narrativo provoca, però, un rallentamento del ritmo del racconto.
Anche le digressioni in cui l’attenzione si sposta sulla storia di Israele o sulla figura di Gesù visto in prospettiva ebraica, interrompendo lo svolgersi della trama, per lo stesso motivo potrebbero risultare noiose o pesanti. Secondo me, invece, nel momento in cui Oz si sofferma a trattare questi argomenti, lo fa in modo così affascinante che il lettore mette da parte la curiosità di sapere come le vicende di Shemuel proseguiranno, per concentrare la sua attenzione su ciò che di certo non è scontato né prevedibile.

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: AHMED, 13 ANNI, DA SOLO DALL’EGITTO IN ITALIA PER SALVARE IL FRATELLINO AMMALATO

ahmed
Ahamed ha solo 13 anni e ha affrontato da solo un lungo viaggio pieno di insidie dall’Egitto in Italia per salvare la vita al fratellino Farid. Quest’ultimo ha 7 anni ed è affetto da una piastrinopenia, malattia che richiede cure costose in Egitto, troppo costose per una famiglia di contadini che non ha tanti mezzi.

L’intervento che potrebbe salvare la vita a Farid costa 50.000 lire egiziane, ma il reddito familiare è di appena 3000 annue. Così Ahmed ha deciso di partire per l’Italia in cerca di aiuto. L’arrivo su un barcone, uno dei tanti, a Lampedusa è solo la conclusione di una vera e propria odissea. Prima di prendere il mare, infatti, è stato obbligato a rimanere nascosto in un capannone della spiaggia di Baltim, non lontano da Alessandria d’Egitto, assistendo inerme alle crudeltà perpetrate da trafficanti e scafisti ai danni dei suoi compagni di viaggio. Così il tredicenne egiziano descrive la sua esperienza: «Alcuni derubavano gli uomini, altri afferravano giovani donne trascinate in un magazzino da dove tornavano in lacrime prima della partenza sul barcone… Pensavo di morire in mare. Né cibo né acqua. Soltanto un sorso di acqua a persona al giorno…». Troppo per Ahmed, poco più che bambino.

Una volta sbarcato a Lampedusa, ha subito mostrato ai soccorritori i certificati medici del fratello, sperando in una possibilità di salvarlo, ma ci tiene a sottolineare: «Io chiedo aiuto ai medici, a qualche medico, all’Italia, ma voglio pagare tutto, lavorando…».

Com’era immaginabile, è subito scattata una gara di solidarietà, anche per offrire al piccolo eroe il denaro necessario per poter pagare le spese del viaggio. Tutta la famiglia, infatti si è indebitata, compresi gli zii, obbligata a firmare delle “cambiali”: «Delle carte. – spiega il ragazzino – Un impegno con i trafficanti per pagare 2 mila euro nei prossimi anni. O con i miei guadagni, o con un suo terreno».

Ma la sorte del fratellino Farid è appesa a un filo. Il governo italiano non è rimasto a guardare: a Palazzo Chigi il premier Matteo Renzi ha mobilitato sia il Viminale con Angelino Alfano sia il mondo della sanità toscana con un sms a Stefania Saccardi, l’assessore alla salute della Regione. La donna si è subito attivata e, d’accordo con la direzione dell’ospedale di Careggi e col professore Marco Carini, si è dichiarata pronta ad accogliere il bambino che sarà curato al Meyer. La famiglia verrà fatta arrivare nel nostro Paese e potrà essere ospitata in una casa della «Fondazione Tommasino Bacciotti», mentre Ahmed, a tutti gli effetti un clandestino, ha lasciato la Sicilia ed è stato accompagnato in una struttura per minori della coop «Il Cenacolo» nella zona di Careggi.

A breve il sogno del tredicenne si realizzerà: «Il mio sogno è vedere mio fratello giocare senza sentirsi male, giocare con me a calcio e correre insieme senza aver paura che svenga perché non riesce a stare molto in piedi…».

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

[fonte Il Corriere.it, LINK1 e LINK2; immagini dal Corriere.it e da Twitter]

LA MAMMA DI GAIA: “L’HO UCCISA IO”. PERCHE’ SI ABBANDONANO ANCORA I BAMBINI IN AUTO?

Angioletto
Gaia aveva soltanto un anno e mezzo. La mamma Michela l’ha abbandonata nell’auto, sotto il sole rovente, per quattro ore. Inutili i tentativi di salvare la piccola che è morta diciotto ore dopo l’accaduto all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze. (maggiori particolari su questa notizia QUI)

Non è la prima volta che accade, purtroppo. Padri e madri superstressati che a un certo punto vanno in tilt: la chiamano amnesia dissociativa. In parole semplici, quando si svolgono azioni ripetitive, si è convinti di aver fatto quel qualcosa che andava fatto, anche se invece non è così.

Il papà di Elena, quello di Jacopo, ora la mamma di Gaia. Genitori distrutti che mai potranno dimenticare.
Probabilmente, come già accaduto in passato, la signora Michela non sarà condannata per omicidio colposo. Ma a lei non basterà la vita intera per scontare la sua colpa. «L’ho uccisa, l’ho dimenticata in auto, sono io la responsabile della morte di mia figlia», ha urlato. Nessun tribunale la condannerà ma lei di certo non si perdonerà mai di aver lasciato la bimba in macchina, convinta di averla portata all’asilo nido come tutti i giorni.

Io non giudico quella mamma. Non mi aggiungerò al coro di chi, con estrema sicurezza, dice: “A me non sarebbe mai capitato”.
Sono una mamma, i miei figli sono grandi ma non ho dimenticato la fatica, il senso di inadeguatezza, le notti insonni, quella sensazione di non farcela… Non credo alle mamme che dichiarano di aver cresciuto i figli senza mai un cedimento, senza alcuna fatica. Balle.

Però, nel leggere questa triste notizia, una domanda me la pongo: “Perché ancora capita di abbandonare i figlioletti nell’automobile, in pieno sole?”.

Dopo i fatti che ho nominato, sono stati “inventati” e distribuiti sul mercato molti dispositivi, anche i più fantasiosi, per impedire che tragedie come quella di Elena, Jacopo e ora Gaia si ripetano. Basta fare un giro su Google per capire che disgrazie simili si potrebbero evitare.

Ma evidentemente chi non utilizza tali dispositivi, è convinto che “A me non potrà mai accadere”. E invece succede e per questo c’è bisogno di una legge. In Parlamento dall’ottobre 2014 è depositata una proposta di legge per introdurre nuove disposizioni nel Codice della Strada, in forza delle quali diventi obbligatorio adottare un sistema di allarme che segnali la presenza del bambino nel seggiolino del veicolo.

Tutto è fermo. Forse quest’ennesima tragedia smuoverà le coscienze dei nostri governanti?
O forse, per ora, è più importante il referendum sulle riforme costituzionali di ottobre.

[immagine da questo sito]

BREXIT: E COSÌ MAY, NON MAMMA, SARÀ PREMIER

Theresa-May
La nuova leader dei Tory e prossimo primo ministro della Gran Bretagna, seconda donna dopo Margaret Thatcher ma prima dell’era Brexit, ha un nome e cognome: Theresa May. Così, questa cinquantanovenne dal carrè brizzolato, l’ha spuntata sulla rivale Andrea Leadsom che, rivolta a May, aveva affermato di essere più adatta al ruolo di premier perché mamma.

Queste, secondo quanto riportato dalla stampa internazionale, le parole della sconfitta: «Io sento che se sei mamma hai davvero a cuore il futuro della tua Nazione» e, facendo riferimento alla rivale, «può darsi che lei abbia molti nipoti, ma io ho figli che avranno figli i quali avranno parte in ciò che accadrà dopo».

Leggendo queste dichiarazioni mi è tornato in mente un vecchio post, Mamma è meglio, in cui facevo riferimento al libro La maternità è un master (edizioni Bur) scritto a quattro mani da Riccarda Zezza e Andrea Vitullo, i quali sostengono che la maternità renda più forte la donna, l’aiuti nel problem solving quotidiano, trasferendo poi determinate abilità anche nel mondo del lavoro.

andrew-leadsomMa anche ipotesi che ci sia un fondo di verità, riconoscendo alle madri (non tutte!) una marcia in più, mi stupisco della scarsa delicatezza della Leadsom nel tirar fuori una vecchia storia, parecchio dolorosa, che a quanto pare era riemersa anche durante la corsa alla candidatura per la successione a Cameron. May, infatti, aveva parlato della sua mancata maternità non come scelta, per dedicarsi anima e corpo alla politica, ma come un caso che le aveva procurato molta sofferenza.

Ad ogni modo, già quando frequentava l’università ad Oxford, Theresa May aveva confidato ai compagni il suo sogno: diventare la prima donna primo ministro. Sarà seconda, dopo Margaret Thatcher, ma che importa?

Questa donna dal cognome primaverile, “non madre per caso”, si prepara ad affrontare un’estate rovente (non certo per il clima) di una Gran Bretagna che ha detto no all’Europa. Lei ha comunque raggiunto il suo obiettivo mentre alla perfida Andrea non resta che prepararsi a fare la nonna.

[fonte notizia Corriere.it; immagini da QUI e QUI]

PERCHE’ IL DDL SULLE UNIONI CIVILI E’ UNA BRUTTA COPIA DEL MATRIMONIO PER FAVORIRE I GAY

diritti-alle-coppie
Più di una volta ho affrontato, su questo blog, l’argomento “convivenza” dichiarando la necessità di una legge che tuteli le coppie che non sono sposate, in modo da garantire per esse dei diritti e, naturalmente, dei doveri.

Nel tempo sono state proposte e dibattute varie soluzioni al problema, dai cosiddetti PACS ai DICO, senza ottenere nulla a livello giuridico. Ora, tuttavia, sembra che l’approvazione del DDL Cirinnà (che risale al marzo 2013) sia diventata una priorità per il nostro governo. Vediamo perché.

Negli ultimi anni sempre più coppie omosessuali hanno chiesto presso i Comuni di residenza il riconoscimento legale del loro matrimonio contratto all’estero. Alcuni sindaci hanno dato il loro assenso per la registrazione all’anagrafe di questi matrimoni, altri si sono dimostrati contrari e il ministro dell’Interno Alfano ha diramato, già nel 2014, una circolare in cui chiedeva ai prefetti di cancellare le trascrizioni delle nozze celebrate all’estero tra persone dello stesso sesso.

Una vera e propria crociata malvista dalle associazioni gay che si appellano all’Europa – sì, quella che ci chiede sempre tutto in nome dell’unità – e minacciano ricorsi alla Corte di Giustizia Europea. Sicché, come già successo con la famigerata #buonascuola e le 90mila assunzioni dei docenti precari per evitare sanzioni (dato che la Corte Europea aveva già condannato l’Italia dai tempi della Gelmini), il governo italiano “cala le braghe” (scusatemi l’espressione colorita) e si affretta a far votare una Legge che garantirebbe agli omosessuali il riconoscimento giuridico della loro unione, pur non chiamandolo matrimonio.

Ma alle coppie eterosessuali che convivono chi ci pensa? Mi si dirà, a questo punto, che per gli etero c’è sempre il matrimonio. Certamente, ma ci sono anche coppie che non possono sposarsi. Molti preferiscono la convivenza per non impegnarsi, non lo nego. Tuttavia in alcuni casi la convivenza è un obbligo e sono pronta a portare due esempi.

Una mia conoscente ha convissuto per più di vent’anni con un uomo sposato che non ha potuto divorziare perché con la moglie aveva in comune affari e proprietà, naturalmente in regime di comunione di beni. Anche volendo mutare la comunione in separazione, non avrebbe potuto farlo senza il consenso della moglie, e comunque cambiare regime è costoso. Per farla breve, il compagno della mia conoscente, sapendo di essere gravemente ammalato, ha fatto in modo di garantirle almeno l’usufrutto a vita dell’appartamento in cui vivevano, soluzione osteggiata dagli eredi alla morte di lui e che è costata alla donna, oltre alle sofferenze morali, l’iter legale per ottenere il rispetto della volontà del compagno.

Un’altra mia conoscente ha convissuto per 20 anni con un uomo sposato la cui moglie si è sempre rifiutata di concedergli il divorzio. Ora, lo so che in certi casi ci sono dei mezzi legali per ottenere il divorzio comunque, ma vuoi per pigrizia vuoi perché forse l’uomo non si aspettava di morire così presto, alla fine la convivente è rimasta da sola, con due figli non ancora autonomi economicamente e senza un lavoro, visto che il compagno l’aveva praticamente obbligata a fare la casalinga.

Potrei aggiungere l’esempio di molti giovani che, comprando casa e arredandola, hanno speso tutti i risparmi e non hanno soldi a sufficienza per sposarsi. E non mi si venga a dire che, volendo, si va dal prete o dall’ufficiale di Stato Civile con due testimoni e il gioco è fatto. Ci sono delle convenzioni da rispettare e, sebbene al giorno d’oggi non sia così scontato che ci si sposi una sola volta nella vita, di quel giorno tutti vorrebbero avere un bel ricordo, potendo condividere la loro felicità con le persone vicine.

Tornando al DDL Cirinnà, la cosiddetta stepchild adoption non sarebbe aberrante di per sé (non sto qui a discutere sul fatto che i bambini hanno bisogno di una mamma e un papà quali figure di riferimento ecc. ecc.) se non costituisse una possibile premessa a maternità surrogate per le coppie di uomini. Per quanto riguarda le donne, la fecondazione assistita per le single è già possibile, compresa l’eterologa, e il DDL non sposterebbe di una virgola una situazione già in essere.

Su questo tema è nata una discussione sul blog dell’amica Diemme che vi invito a seguire, se interessati all’argomento.

In conclusione, a mio parere, questo DDL favorisce le unioni gay a scapito di quelle etero. Come al solito, dunque, si tratta di una discriminazione al contrario.