GLI ALUNNI CRESCONO, LE PROF INVECCHIANO…

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Ieri in segreteria a scuola, mentre stavo incollando i fogli del verbale nel quadernone (essì, dobbiamo ancora incollare…), sento una delle impiegate che parla ad un ragazzo. Al momento penso che sia un allievo del liceo ma poi, captando alcuni frammenti di conversazione, capisco che si tratta di un tirocinante.

Per i non addetti ai lavori chiarisco che i tirocinanti sono ragazzi laureati che devono frequentare il TFA (Tirocinio Formativo Attivo) per poter aspirare a diventare insegnanti.
Lì per lì penso, senza staccare il viso dal quadernone dei verbali, che bisognerebbe fare un monumento a questi giovani armati di buona volontà. Mi sembra quasi impossibile che, dopo tutto quello che si sente dire sulla scuola e sulla professione di insegnante, ci siano ancora dei trentenni, o giù di lì, che hanno voglia di salire in cattedra.

Mentre sono immersa in questi pensieri e continuo il mio lavoro di incollatura, sento che l’impiegata, rivolta a qualcun altro – forse un collega – chiede: “Ma allora cosa gli devo dire?”. Capisco che si riferisce al giovanotto e replico, pur non essendo stata interpellata: “Che deve armarsi di tanto coraggio!”

Alzo gli occhi, lo guardo, abbozzo un sorriso e lui: “Salve prof!”. Rimango interdetta. Strabuzzo gli occhi, più che altro perché per fare il lavoro di concetto cui mi ero dedicata con grande zelo, devo usare gli occhiali da presbite (e che vi vuole, per incollare qualche pagina! direte. Ho bisogno degli occhiali, che ci devo fare?) e quando alzo lo sguardo al di sopra del fusto (quello degli occhiali, non intendo il giovanotto), vedo tutto sfuocato.

Lui allora mi spiega che era stato un mio allievo in un altro liceo, più di dieci anni fa. Al momento non me lo ricordo ma, non appena mi dice nome e cognome, ecco che il suo viso mi torna familiare. Non è cambiato molto, in fondo. Quella classe me la ricordo bene: tutte femmine, due soli maschi. “No, prof – mi corregge – eravamo in quattro…”. Ok, vuol dire che voi due eravate più simpatici degli altri due.

Alla fine, quando realizzo che lui è lì in veste di aspirante docente, che fra qualche tempo poterebbe essere un mio collega, esclamo: “Oddio, come sono vecchia …”. Lui sorride ma non ha il coraggio di smentirmi. Eh, sì che sono vecchia, accidenti. Però poi ci rifletto su e aggiungo: “Ma se non hai fatto fatica a riconoscermi significa che almeno sono invecchiata bene”. 🙂

TEMPO DI PAGELLE

pagelle ai profGli scrutini si sono ormai conclusi da tempo, i tabelloni con i voti sono stati esposti e gli studenti italiani possono godersi o meno le meritate vacanze. Ci sarà chi esulterà per una promozione inaspettata, chi già si sta pregustando il regalo per una promozione meritata, altri piangeranno sul latte versato (cioè sull’opportunità sprecata di essere promossi), i più grandi stanno meditando su come organizzare lo studio estivo per “saldare” i debiti.

Ora lo so che qualcuno starà pensando che ho sbagliato blog, che quello più adatto a un post del genere è laprofonline. Vero, ma in realtà la pagella di cui sto per parlare non è quella dei ragazzi bensì la mia.

Sono stata valutata. Nel mio liceo gli studenti hanno deciso di mettere i voti ai prof. Nella massima discrezione, beninteso. Ognuno di noi, se interessato, con una e-mail può richiedere la sua valutazione. Nessun tabellone, nessuna pagella ufficiale per noi. Così hanno stabilito, anche contro il parere del Consiglio di Istituto.

Nelle settimane scorse nei corridoi ho sentito dei commenti. C’è qualcuno che s’è preso una bella sfilza di insufficienze in “spiegazione” e “correttezza”. Qualcuno ci ride su, altri si rammaricano. Ma c’è davvero qualcuno che crede nell’onestà e obiettività del giudizio degli studenti? Più volte ho espresso le mie perplessità e la riflessione più recente la trovate in questo post pubblicato sul Corriere.it.

Per quanto mi riguarda, ho ricevuto la sufficienza in “correttezza” (che poi non so nemmeno cosa s’intenda, credo nella valutazione ma non ne sono sicura) e “spiegazione”. So che la valutazione è il risultato della media dei voti totali e questo mi piace meno. Sono consapevole, infatti, che il gradimento di un docente dipende molto dal clima che si è instaurato in classe e nelle mie tre è stato molto diverso.

In seconda, forse per l’esiguo numero di ore (solo 4 di Italiano) e per la giovane età dei ragazzi, il clima è stato piuttosto formale, a volte un po’ freddino. Bravissimi, devo ammetterlo, tutti promossi a giugno con dei voti più che dignitosi. I miei, però, sono stati decisamente più bassi rispetto a quelli dell’area matematico-scientifica. Non per causa mia, sia chiaro, ma per colpa della preparazione scarsissima in Italiano con cui gli allievi arrivano in prima liceo e io in due anni miracoli non ne ho potuti fare.

In quarta il clima è sempre stato buono. Mi sono arrabbiata più volte per il comportamento troppo esuberante di alcuni, ma a parte questo c’è sempre stata la massima collaborazione da parte mia e loro.

In quinta, nonostante i cinque anni passati assieme, purtroppo già a partire dallo scorso anno qualcosa si è incrinato, il nostro rapporto è stato più volte vicino alla rottura completa e non ho mai capito perché. Facendo il confronto con le classi terminali del passato devo ammettere, a malincuore, che il clima in questa classe non è stato dei migliori e ciò di certo non ha agevolato il lavoro, da entrambe le parti. Se state aspettando il solito post di saluto, che non ho negato nemmeno alla quinta del 2011 nonostante il poco tempo passato assieme (solo un anno), dico subito che non ci sarà.

Detto questo, appare evidente che pur essendo io sempre la stessa, il rapporto che si instaura fra docente e discenti può fare la differenza. Certamente la fa in termini di giudizio … mi sa questi ultimi mi hanno abbassato la media. 😦

Al di là di tutto, credo che la valutazione da parte degli studenti, che deve comunque essere presa con le pinze, possa costituire uno stimolo per migliorare. I voti sulla “disponibilità” e il “rapporto con gli studenti” sono decisamente migliori (8 e 7) e questo mi rincuora. Per il resto, vedrò di impegnarmi maggiormente per migliorare la “correttezza” e la “spiegazione”, anche se mi spiace che in classe nessuno mi abbia mai detto che le mie spiegazioni non sono brillanti e che la correttezza non è una delle doti migliori che possiedo.

[immagine da questo sito]

RENZI: “GLI INSEGNANTI OGGI SONO EROI”. BERSANI DOCET

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Gli insegnanti oggi sono degli eroi: con stipendi quasi ridicoli – e potremmo anche togliere il quasi – sono chiamati alle funzioni di educazione della persona“.

Intervenuto a un incontro a Milano alla rivista Vita, il premier Matteo Renzi si è lasciato andare a questa esternazione. Ha aggiunto, affrontando il discorso dell’edilizia scolastica, che la questione centrale è l’educazione, puntualizzando: ma io non sono credibile se pongo quella questione senza aver risistemato le scuole.

Be’, certo, se i soffitti ci piovono addosso effettivamente l’educazione passa in secondo piano. Peccato che lo Stato si sia impegnato per tre anni con l’Invalsi stanziando 14 milioni di euro per i famigerati test, soldi che avrebbe potuto utilizzare per iniziare a mettere in sicurezza le scuole. Una goccia nell’oceano, comunque, dato che per l’edilizia scolastica ci vorrebbero 4-5 miliardi.
Ma non è di questo che volevo parlare.

Quando ho letto la frase pronunciata da Renzi a proposito degli insegnanti eroi (ma chi di noi si sente effettivamente tale?), mi sono detta: questa l’ho già sentita.
Ecco dunque che rispunta nella mia mente un post che risale a quattro anni fa. Protagonista è un altro esponente del Pd, Pier Luigi Bersani.

Nel maggio 2010, intervenendo all’Assemblea Nazionale del partito si era così espresso nei confronti dei docenti e dell’allora ministro del MIUR Mariastella Gelmini (riporto le sue parole e perdonate il suo pessimo italiano): “Io sono per fare uscire da questa assemblea una figura eroica, i veri eroi moderni, gli insegnanti che inseguono il disagio sociale in periferia, lottano contro la dispersione”, aggiungendo che “la Gelmini gli rompe i coglioni” (e perdonate l’uso di gli per loro che a me fa accapponare la pelle … lo so, le grammatiche dicono che si può usare ma io non mi ci abituerò mai!).

Ecco dunque che l’allievo cita il maestro: Renzi fa suo il concetto di insegnante – eroe, anche se non può dire che “la Giannini gli rompe i coglioni”, essendo stata scelta da lui medesimo per rivestire quel ruolo.

SCUSATE IL RITARDO

Mi rivolgo ai miei lettori affezionati per scusarmi se in quest’ultimo periodo rispondo con ritardo ai vostri commenti e non riesco a seguire le discussioni (a volte impegnative … come quelle del blog di Diemme!) come vorrei.

Non vorrei sembrare scortese, è solo una questione di tempo. Sono oberata dal lavoro, a scuola e a casa (è il periodo delle riunioni), sommersa di compiti da correggere (e ovviamente impegnata a prepararli perché difficilmente mi faccio bastare ciò che c’è già nel mio archivio didattico 😦 ), senza contare che i miei doveri di famiglia non posso sempre delegarli, anche se devo dire che a casa mi stanno dando una mano.

La scorsa settimana ho tenuto il conto delle ore in cui sono stata impegnata con il lavoro: 45. Non lo faccio mai perché non mi piace fare la vittima, dire sempre “sono stanca” e far pesare sugli altri i miei problemi, dando l’impressione di essere concentrata solo sul mio lavoro, e le energie che spreco, e di non tenere in nessun conto che anche altri lavorino, talvolta svolgendo attività ben più pesanti.

Domenica scorsa ho raggiunto il colmo e ho pensato che devo dire stop, se non ce la faccio, non ce la faccio. Stavo correggendo i compiti di italiano di quarta quando telefona mia cognata e annuncia il suo arrivo, assieme al marito. Ho avuto una reazione quasi isterica, ho iniziato a dire che non avevo tempo, che non potevo interrompere la correzione, urlando a mio marito (si trattava di sua sorella) che avrebbe dovuto dire di no, che non potevano venire, che io dovevo lavorare, che non potevo perdere tempo in visite di cortesia … mio marito mi ha guardato come dire “questa è pazza”. Non gli do quasi mai ragione ma ‘stavolta sì, se non sono pazza, sono sulla buona strada.

Scusate lo sfogo e perdonatemi. Ma sono ancora offesa da tutte le critiche che ho letto sul web, rivolte a noi insegnanti fannulloni che non abbiamo voglia di fare un tubo, che non siamo disposti a sacrificarci per la Patria, non accettando l’aumento di orario da 18 a 24 ore. Non è solo questione di soldi, credetemi. La preoccupazione più grande è quella di non riuscire a fare bene il nostro lavoro perché un aumento delle ore equivale a più classi e più impegni, didattici e non.

Ora starete pensando: nel tempo che ci ha messo a scrivere questo post poteva rispondere ai commenti e seguire, almeno un po’, le discussioni sui blog degli altri. E’ vero. Ma sentivo che era giunto il momento di sfogarmi.

Vi abbraccio tutti. A presto.

P.S. A proposito di stress, vi allego un interessante studio del dott. Vittorio Lodolo D’Oria sullo SLC. Studio inidoneità Lodolo

A VOLTE TORNANO


Li vedi da lontano e li riconosci subito: senza libri, con lo sguardo luminoso, anche di prima mattina, con quell’aria soddisfatta di chi, guardando gli studenti che si avviano tristi e rassegnati verso le aule scolastiche, pensa “Beccatevi un’altra giornata di lezione, noiosa, pesante o forse no, potrebbe essere anche leggera e divertente ma io ho già dato, io ne sono fuori, finalmente”.

Non hanno zaini sulle spalle né il badge in mano, pronto per registrare puntualmente la loro presenza a scuola. Sono gli ex studenti. A volte tornano. Aspettano i “vecchi” prof fuori dall’aula insegnanti, nei corridoi, davanti alla porta dell’aula che la bidella ha indicato, in attesa che si accorgano di loro. A volte bussano e tu non puoi far finta di niente, non puoi dire che non va bene interrompere una lezione, che aspettino il suono della campanella, così magari ti accompagnano nell’altra aula, dove altri ventisette allievi ti aspettano, pronti per la lezione di letteratura.

Mentre cinquantaquattro occhi ti scrutano, che immagini già quello che stanno pensando “Evvai, ora esce e noi ci perdiamo cinque minuti di lezione!”, e allora dici che ti assenti un attimo, stiano buoni e zitti, tanto sei fuori dalla porta e li senti, anzi, lasci la porta aperta. E quelli che a volte tornano ti raccontano dei test d’ingresso all’università, che sono andati bene o sono andati male. “Tanto fa niente, m’iscrivo a un’altra facoltà e ritento il prossimo anno.” Oppure ti dicono che ne hanno tentati due, uno a medicina e uno a ingegneria; è andato bene il secondo, fa lo stesso. E tu ti chiedi “come fa lo stesso?”, ma poi pensi che bravi come sono, ogni scelta sarà quella giusta.

Poi, prima dell’inizio della lezione, ne trovi uno davanti all’aula e ti dice “ho seguito il suo consiglio: vado all’estero per un anno, imparo la lingua, lavoro e poi vedremo”. Tu ti chiedi quando hai dato questo consiglio, ché non te lo ricordi. Poi t’illumini e pensi che sì, hai fatto un discorso generale, un consiglio dato a tutti ma in realtà era rivolto a uno solo, i genitori ti avevano chiesto la collaborazione, “magari lei ci riesce a convincerlo”. Tu sapevi già, comunque, che avresti convinto tutti ma non lui. Infatti.

A volte li incontri per strada e non li riconosci. Sono passati tanti anni, quanti? Otto, dieci … ma sì, “si ricorda, ero discolo, non avevo voglia di fare niente. Grazie a lei sono cambiato, mi sono iscritto all’università, vado piano ma alla laurea ci arrivo, vedrà.” E tu lo guardi e finalmente ricordi, riconosci il suo visetto da adolescente dietro la barba incolta dell’uomo che è diventato, i suoi occhi vispi da furbetto, azzurri come il mare. Poi, quando fa per salutarti, ti dice: “prof io sono la testimonianza vivente del buon lavoro che ha fatto. Grazie.”. E tu lo guardi e vorresti abbracciarlo ma gli stringi solo la mano che lui ti tende con uno sguardo che sa di gratitudine eterna.

Ritorni a casa e ti sembra di camminare a un metro da terra. Ripensi a quell’incontro e ti convinci che il tuo lavoro è davvero il più bello del mondo. E piangi. Di felicità, finalmente.

DI NUOVO IN AULA E IO … SPERIAMO CHE ME LA CAVO

Mattiniera come sempre, ho varcato il portone dell’edificio scolastico, con molta discrezione dall’ingresso secondario, alle ore 7 e 43. Naturalmente ho dovuto sgomitare nella ressa che si era formata in attesa dell’apertura agli studenti e, non appena le bidelle hanno dato il via libera, un’orda barbarica si è riversata nell’atrio della scuola, complice il fatto che per i primi giorni i ragazzi non devono passare davanti al “totem” con il badge che registra in tempo reale la loro presenza a scuola. Ah, la tecnologia! Almeno permette un’entrata ordinata perché i “totem” sono due, quindi si fa la fila.

Ho incrociato gli sguardi allibiti della cameriera del bar, che si trova nelle immediate vicinanze dell’atrio, e di una delle impiegate, rimasta vittima dell’orda barbarica assieme a me. Neanche avessero aperto i cancelli dello stadio per un concerto di Madonna o Lady Gaga.
Avrei voluto urlare ma in primo luogo non mi sembrava il caso di iniziare l’anno scolastico sgolandomi (non avevo idea, ironia della sorte, come sarebbe finita questa prima giornata), ché poi non arrivo nemmeno al 1° novembre, in secondo luogo non mi va di essere sempre quella, la sola, che riprende gli allievi quando compiono delle scorrettezze.

Una cosa, però, non ho ben compreso, almeno sul momento: perché correre tanto? Insomma, il primo giorno di scuola non è proprio una festa, non implica un’euforia tale da affrettare il passo per l’incontenibile gioia di iniziare le lezioni. Ma quando ho fatto il mio ingresso nella prima classe in orario, ho capito: non è gioia bensì la sindrome ansiosa da primo banco. Nessuno ci vorrebbe stare ma i banchi sono contati, sicché … vi si sono dovuti piazzare i soliti ritardatari che, fin dal primo giorno, hanno dovuto sorbirsi la mia specialità oratoria: l’elogio della puntualità. Una questione di rispetto ecc. ecc.

Questo inizio d’anno mi è subito parso faticoso. Più nel pensiero che nell’azione. Già, perché un solo numero mi agita da qualche tempo: il quattro. Quattro classi. Seguito dal cinque: cinque materie con scritto e orale. Incalzato dal tre: tre Italiano. Dicono che il tre sia il numero perfetto ma quando si tratta di moltiplicarlo per settantacinque, gli allievi, e quattro, i compiti in classe (escluse naturalmente le prove valide per l’orale che bisogna fare perché sennò come si fa a interrogarli tutti almeno due volte), allora non è più tanto perfetto, anzi, si trasforma istantaneamente in una incommensurabile sfiga. Non contiamo poi le varie prove di Latino …

In classe inizio subito a mettere i puntini sulle “i”: se sono qui con voi a far Latino è perché non volevo “perdervi”, quindi ho “spezzato” la cattedra di terza, tenendomi solo Italiano, e mi sono accollata una classe in più: quattro, potendone avere solo tre. Quindi, non fatemi pentire altrimenti io poi faccio pentire voi di avermi fatto pentire. Chiaro, conciso, minaccioso. Quel tanto che basta per iniziare bene. Quel poco che basterebbe per dirmi “scema”.

Un altro numero che negli ultimi anni è diventato un’ossessione è il diciotto. Le ore di cattedra. Embè, direte, sono sempre state diciotto! Sì, ma normalmente non erano tutte di lezione, si completava l’orario con le supplenze in sostituzione dei colleghi assenti, avevamo solo due classi. Dico due, non quattro. Ma poi è arrivata la Gelmini che disse: “ Non siamo uno stipendificio, dobbiamo ottimizzare le risorse”. Ok, tutto bene, ma quel che è ottimizzare per lei (diciotto ore, quattro classi al posto di due e, quindi, un docente in meno da pagare – ecchecaspita, mica siamo uno stipendificio! – ) per noi docenti di Lettere significa suicidarsi. O per meglio dire, istigazione al suicidio così magari qualche docente di Lettere esasperato ce l’ha pure lei, la Gelmini, sulla coscienza.

Ma lasciamo perdere il nostro lavoro, ché tanto siamo pagati per diciotto ore ed è giusto che ce le sudiamo tutte (anche se poi le dobbiamo moltiplicare almeno per tre, considerando il carico di lavoro che avere quattro classi anziché due comporta).
Pensiamo agli allievi. Prendiamo ad esempio i miei, quelli della prima ora. Se la sottoscritta non si fosse immolata quale vittima sacrificale, accettando una classe in più, in nome della dea “continuità didattica”, i poveretti (secondo il mio punto di vista, il loro mi è ignoto) si troverebbero in seconda già con un nuovo docente di Latino, per poi cambiarlo anche in terza perché fra biennio e triennio di solito c’è il cambio. Tre anni e tre docenti diversi: che bellezza! Ma loro sono fortunati (sempre secondo il mio punto di vista) perché hanno me che eroicamente ho accettato la quarta classe per non abbandonarli all’ignoto destino (magari sarebbe stato anche migliore, chi può mai saperlo? Dipende sempre dai punti di vista che cambiano a seconda delle teste che non ragionano mai tutte allo stesso modo).

In termini tecnici la follia sopradescritta si chiama “saturazione delle cattedre a diciotto ore”. Almeno prima, con il numero di ore e classi ridotte, si teneva nel giusto conto la mole di lavoro che i docenti di Lettere devono affrontare, per fare un piacere a tutti gli altri, per inciso, visto che l’insegnamento della lingua madre è trasversale. Ora vorrei che qualche altro docente di discipline diverse possa fare un favore a noi: potemmo sempre dare in appalto la correzione compiti.

Ma proseguiamo con il resoconto della giornata.
Seconda ora “buca”. Il nostro orario di lavoro è l’unico che preveda le ore “buche”, ore di cui possiamo liberalmente disporre, e ci mancherebbe altro, ma che comunque sono quasi sempre o perse (al bar, in aula di informatica, fuori a fare un giro, un salto al supermercato o dal giornalaio …) o impiegate per lavorare, ovvero correggere compiti o preparare lezioni. Propongo di chiedere un’indennità per le ore “buche”.

La terza ora l’ho passata in terza, classe a me sconosciuta. Che poi dire “classe” è un eufemismo perché quando si pensa alla “classe” si ha l’idea di un’entità che prosegue il suo percorso scolastico nella stessa forma con cui lo ha iniziato. E invece le terze sono il risultato di un’unione tra ex seconde o, come nel caso della mia, un insieme di persone che per la maggior parte provengono dalla stessa ex seconda, tragicamente sfoltita nel tempo, più singole unità che arrivano da altre classi, altre ex seconde, o altre scuole, o altre terze, i più iellati. In ogni caso l’ora è passata in men che non si dica. La maggior parte del tempo l’ho impiegata per spiegare come mai avrebbero avuto me per Italiano e un altro docente, non ancora nominato, per Latino. La fortuna (sempre secondo il mio punto di vista) di quelli di seconda ha generato la sfortuna di quelli di terza che avranno due insegnanti diversi per due materie che normalmente sono insegnate da una sola persona.
Ringraziamo ancora la Gelmini e la sua “ottimizzazione delle risorse”. So che non sono più affari suoi, visto che non è più ministro, ma nel tempo la scuola italiana, chiunque sia il ministro di turno, si troverà popolata da prof rinco che graveranno anche sui costi della Sanità, alla faccia della tanto declamata “ottimizzazione delle risorse”.

Arriviamo alla quarta ora, l’ultima per oggi. Sono ansiosa di conoscere una nuova classe, la prima. Ma quando arrivo in succursale già sto male. L’edifico, vecchio e polveroso, mette in serio pericolo la mia salute, essendo io allergica alla polvere, oltreché al gesso. Con la consapevolezza di rischiare uno shock anafilattico giungo al secondo piano. L’intervallo è finito da qualche minuto e il corridoio si presenta ai miei occhi anche peggio dell’atrio della sede centrale all’apertura del portone. Entro in classe, la prima del corridoio, e la trovo desolatamente vuota. Mi guardo intorno, do un’occhiata fuori e vedo sempre un assembramento di gente. Penso che siano i ragazzi dell’aula vicina, fossero i miei sarebbero entrati. Poi una scritta alla lavagna mi avverte che la classe è in aula magna per l’incontro con il DS. Accidenti, penso, non mi pareva di aver letto ‘sta cosa sulla circolare. Esco mestamente e faccio ritorno in sede. Ora, si tratta solo di attraversare un parco ma in ogni caso mi secca terribilmente fare avanti e indietro perché qualcuno non mi avvertita che i programmi sono cambiati.

Arrivo in sede, chiedo in portineria se sanno qualcosa della mia classe, dicono di no. Salgo al primo piano, l’aula magna è vuota. Scendo al piano terra e in sala insegnanti do un’occhiata alla circolare sulle attività di accoglienza delle classi prime e mi consola notevolmente il fatto di ricordare bene: quarta ora lezione regolare. Ma che lezione regolare è se non trovo la classe? Sembra un giallo, nessuno sa nulla, torno in succursale. Naturalmente nel frattempo ha iniziato a piovere.

Mi trovo nuovamente davanti alla classe assegnatami. Ancora vuota ma c’è sempre un gruppo di allievi nel corridoio. Chiedo: siete voi la prima … ? Sono loro. MA COME? Erano lì davanti anche dieci minuti prima, mi devono aver visto entrare in aula e guardarmi attorno con aria smarrita. Non possono avermi scambiata per una studentessa. Magari!
Lancio un urlo e li faccio entrare. Sempre urlando spiego che nei dieci minuti in cui facevo i viaggi su e giù per risolvere il mistero della classe scomparsa IO avevo comunque la responsabilità su di loro perché quella era comunque una mia ora e loro erano comunque i miei allievi, seppure non presenti in aula e assiepati lungo il muro del corridoio. E quella scritta sulla lavagna? Ah, quella, era lì dalla prima ora. E non siete capaci di cancellarla onde evitare equivoci? Se non fosse stato per quella scritta avrei evitato un viaggio inutile.

Tutti zitti. Non hanno fiatato. Mi guardavano smarriti. E io continuavo a dire che di solito non perdo la pazienza, non urlo, erano almeno dieci anni che non urlavo così tanto che, quanto a decibel, mi ha superato solo un tuono che ha fatto tremare tutto.

Questo è solo l’inizio. Per il resto, io speriamo che me la cavo.

“IL PROF SCATTONE DEVE RIMANERE”, DICONO I GENITORI DEL CAVOUR. MA GLI STUDENTI DI LOTTA STUDENTESCA LO CHIAMANO ASSASSINO


Grazie alla segnalazione della signora Luisa, mamma di un’allieva del professor Giovanni Scattone al liceo Cavour di Roma, che mi ha segnalato un articolo-intervista ad una mamma che definisce il prof un insegnante modello, ritorno sull’argomento affrontato in un post precedente.

Per un uomo che, per omicidio colposo, ha scontato la pena è possibile la riabilitazione? La Legge dice di sì: lui ha i titoli per insegnare e ha il diritto di farlo anche nel liceo frequentato da Marta Russo, la vittima. Comprendo che dal punto di vista morale ciò possa essere discutibile ma il diritto spesso non si sposa con la coscienza. Per questo mi sento di non condannare la decisione del prof Scattone di accettare la nomina come supplente temporaneo di Storia e Filosofia (solo nove ore, tra l’altro) né condividerei la sua scelta di rinunciare alla supplenza solo perché qualcuno non lo vuole, per rispetto alla famiglia Russo.

Sempre grazie alla testimonianza della signora Luisa ho appreso che in verità sono gli altri genitori a volere l’allontanamento di Scattone da quella cattedra. Infatti, a nome delle famiglie degli allievi interessati, la signora Daniela Polito, dichiara che all’unanimità i genitori delle classi IV d e V E vogliono che l’insegnante resti al suo posto.

«Basta polemiche e strumentalizzazioni. Giovanni Scattone è un professore modello, chiediamo insistentemente che resti al Cavour», si legge nell’articolo dell’Ansa che la signora Luisa mi ha segnalato.
Non solo, l’assedio da parte dei giornalisti al liceo cavour è mal tollerato: «Siamo inferociti. Sotto la scuola dei nostri figli – spiega la signora Polito – continua ad essere accampato un esercito di giornalisti ma nessuno ha chiesto il nostro parere, anzi le poche dichiarazioni dei nostri rappresentanti di classe sono state travisate. Invece i nostri figli, dopo un iniziale momento di perplessità, si sono trovati con il professor Scattone veramente molto bene al punto da considerarlo uno dei migliori insegnanti del Cavour».

Se dal punto di vista umano è ben comprensibile lo sgomento della signora Aureliana Russo, mamma della povera Marta, la signora Politi è convinta che la Legge debba prevalere: «Siamo tutti rispettosi del diritto e della legge, che può essere l’unica barra da usare in queste situazioni complicate. Se il professore non ha avuto l’interdizione dai pubblici uffici e ha il diritto di insegnare, allora qualsiasi scuola va bene. Non c’è altro criterio che la legge». (LINK dell’articolo citato)

Di tutt’altro avviso gli studenti legati a Lotta Studentesca: hanno realizzato un blitz contro il liceo esponendo uno striscione che recita “Scattone assassino” e chiedendo al professore di lasciare il suo incarico nella scuola. (vedi articolo de Il Giornale)
Questo a dimostrazione del fatto che ci sono dei ragazzi che riescono ad esprimere delle opinioni con serenità di giudizio – gli allievi del professor Scattone che lo definiscono uno dei migliori docenti del Cavour – e dei loro coetanei che non sanno far altro che sbraitare per mettersi in mostra ed esibire un moralismo tanto plateale quanto ipocrita.

Non a caso anche i genitori sono divisi. Come afferma nel suo commento la signora Luisa: il disagio lo hanno solo quelli che non studiano con il professore, tutti gli altri sono molto tranquilli e quelli che si oppongono alla permanenza di Scattone nel liceo romano sono genitori di studenti di altre classi.

Ringrazio ancora la signora Luisa per la sua testimonianza. Aggiungo solo una cosa: qualche sera fa ho sentito la telefonata della moglie del professore in diretta al Tg1 e mi sono commossa. Lei è disoccupata e il marito ha una cattedra a metà e si sa quanto guadagnano gli insegnanti. Credo che un po’ di umana pietà, in questo caso, non guasti.

DA LEGGERE: Lettera aperta ai genitori di Marta Russo

GELMINI: PIANO TRIENNALE PER EVITARE ALTRO PRECARIATO E GARANTIRE CONTINUITA’ DIDATTICA

Riporto di seguito il comunicato del MIUR che ha come oggetto: “Piano triennale per evitare insorgenza nuovo precariato. Assunzioni solo in base alle esigenze della scuola”.

Oggi [ieri, 13 luglio 2011, NdR] a Palazzo Chigi, alla presenza del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Mariastella Gelmini, del ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e dei sindacati di categoria, è iniziata la già prevista fase negoziale del Piano triennale per l’assunzione a tempo indeterminato di circa 65mila tra docenti e ATA, nell’arco degli anni 2011-2013, sulla base dei posti vacanti disponibili in ciascun anno. Il Piano, già deciso e approvato da alcuni mesi, eviterà la formazione di nuovo precariato in futuro e risponde ad una nuova filosofia: prevede infatti esclusivamente assunzioni basate sul reale fabbisogno del sistema d’istruzione, come sarà sempre, d’ora in poi, per tutte le assunzioni nel mondo della scuola.

Il Piano triennale di immissioni in ruolo è un ulteriore risultato della razionalizzazione attuata in questi anni. Allo stesso tempo, è una risposta concreta al problema del precariato e delle graduatorie, e garantisce la stabilità del servizio scolastico ed educativo e le aspettative di quegli insegnanti abilitati iscritti nelle graduatorie ad esaurimento che prestano continuativamente da anni la propria attività tramite incarichi annuali.

Il Piano è ad invarianza dei saldi di finanza pubblica e agisce in continuità e coerentemente con la politica di razionalizzazione. Proprio questa ottimizzazione, insieme al confronto con le parti sociali, oggi rende possibili le immissioni in ruolo, incidendo positivamente sulla qualità dell’insegnamento e riducendo i tempi per l’assorbimento dei precari. Proprio per la continuità del servizio scolastico, nel Decreto per lo sviluppo, è previsto anche che le graduatorie vengano aggiornate ogni tre anni, con la possibilità di scegliere una sola provincia. Chi viene immesso in ruolo non può chiedere il trasferimento in altre province per un periodo di cinque anni.

Le ultime stime elaborate dal Ministero prevedevano che, grazie ai pensionamenti e alle immissioni in ruolo degli ultimi anni, il fenomeno avrebbe trovato una definitiva soluzione in alcuni anni. I provvedimenti contenuti nel Decreto per lo sviluppo consentono, all’interno del quadro di riorganizzazione del personale della scuola, di ridurre i tempi previsti e dunque di risolvere definitivamente un problema nato nei decenni passati, a causa di scelte politiche irresponsabili che hanno fatto lievitare fino a 250mila il numero degli insegnanti abilitati, iscritti nelle graduatorie ad esaurimento.

[fonte: MIUR]

Mi sembra un bel passo avanti, tra l’altro un’iniziativa condivisa dai sindacati, CISL e UIL in testa, anche se per il segretario della Cgil Susanna Camusso è «un primo risultato positivo» tuttavia «insufficiente».
Rispetto alle previsioni (ne ho parlato QUI l’anno scorso), però, il piano fa ben sperare per il futuro.

RIECCO L’ESTATE E RIESPLODE LA POLEMICA SUI COMPITI PER LE VACANZE


Come ogni anno, puntuale arriva l’estate, iniziano le vacanze e si discute sull’utilità o meno dei famigerati compiti estivi.

“Compiti per le vacanze: sì o no?”. Con tale quesito è stato introdotto un servizio del TG1 andato in onda ieri nell’edizione serale (lo trovate a questo LINK). La questione è, come si è detto, annosa e parte, secondo il mio parere, da un presupposto sbagliato: i ragazzi italiani, secondo l’OCSE, hanno in media più compiti delle vacanze rispetto ai “colleghi” europei. Così esordisce il succitato servizio telegiornalistico.

Quello di cui non si tiene conto, però, è che gli studenti del Bel Paese hanno le vacanze più lunghe, ergo … i compiti sono necessari per non perdere il ritmo e rischiare di dimenticare tutto ciò che si è, talvolta molto faticosamente e con estremo sacrificio, appreso.

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STORIA DI ROBERTA, INSEGNANTE DI LETTERE

Vorrei raccontare la mia esperienza professionale di insegnante di Lettere nella provincia di Frosinone e nella scuola statale italiana in generale. Devo la mia formazione, per buona parte, alla città di Cassino: mi sono diplomata al Liceo Carducci e laureata all’Università di Cassino in Lettere classiche, ammetto, con il massimo dei voti in entrambi i casi.

La vita mi ha portato un anno nel Regno Unito, nella moderna città di Milton Keynes, a nord di Londra, dove ho lavorato nel Customer Service della Opel Italia, all’interno del Centro Relazioni Clienti europeo della General Motors a Luton, quindi niente a che vedere con versi greci e latini. Nei miei ultimi mesi di permanenza lì ho trovato, poi, un lavoro aggiuntivo, part-time, presso il Comune di M.K. che mi ha dato grande soddisfazione: sono stata insegnante di Italiano in un corso serale per adulti chiamato Italian for holidays, finalizzato ad allievi absolutely beginners interessati a trascorrere le loro vacanze in Italia e ad avere un’infarinatura sulla lingua.

Per la prima volta ho avuto l’onore di rappresentare la cultura italiana all’estero, seppure nei suoi aspetti più quotidiani, quelli che incuriosivano i futuri vacanzieri, desiderosi di conoscere più i termini indicanti i gusti del gelato che il modo migliore per chiedere indicazioni per andare a visitare la Basilica di San Pietro a Roma. Nonostante il miglioramento della conoscenza della lingua inglese, il riconoscimento chiaro della mia dignità lavorativa in tutti gli aspetti e i nuovi corsi che il Comune di Milton Keynes mi offriva per il mese di settembre successivo, decisi comunque di lasciare la verde Inghilterra, perché sentivo che non stavo spendendo la mia laurea fin in fondo e perché mi mancava il sole della nostra penisola, ahimè, incantevole per certi aspetti.

Così ho tentato la selezione per accedere alla ormai superata S.S.I.S. e ce l’ho fatta, ma era soltanto l’inizio di due anni faticosi, fatti di viaggi, di corsi pomeridiani quotidiani, di tesine, di esami, insomma, altri due anni di università, coronati da un Esame di Stato finale che mi ha dato il titolo abilitante per insegnare nella scuola statale italiana, in particolare nella secondaria di secondo grado, altrimenti detta scuola superiore.

Pensando che il grosso fosse fatto, mi sono inserita nelle graduatorie provinciali e ho atteso, nei primi tre anni, le chiamate per le supplenze d’istituto, visto che di incarico dal Provveditorato ancora non se ne parlava. Nel frattempo ho fatto master universitari di dubbio spessore, ma di onere gravoso, pur di assicurarmi un punteggio migliore, ho viaggiato per conseguire anche il titolo di sostegno, grazie al quale oggi non sono lavoro e sono un’insegnante più completa, ho continuato a seguire anche i miei interessi paralleli, frequentando un corso estivo molto formativo per insegnare italiano agli stranieri, nonostante non mi abbia dato punteggio alcuno, ma procurandomi almeno la soddisfazione di rappresentare, ancora una volta e con orgoglio, la cultura e la lingua italiana.

Oggi sono forse a metà del cammino che mi porterà ad essere assunta a tempo indeterminato, ma non è semplice accettare di vedersi passare gli anni davanti, con incertezza sempre maggiore, con decisioni ministeriali, qualunque sia il governo, da noi docenti vissute come improvvise e sfumate, sempre pronte a essere ripensate.

Non è facile andare in giro per le scuole della provincia, ogni giorno a decine di chilometri di distanza, e vedere invece che i privilegiati delle scuole paritarie, non soggetti ad alcuna selezione di merito, hanno il posto garantito ogni anno sotto casa, sebbene io non li invidi affatto.

Non è facile incontrare tanti alunni, sempre diversi, e dare tanto a ciascuno di loro, per poi cambiare ogni settembre e andare a scuola il primo giorno col cuore stretto in una morsa, pensando ai giovani volti che ho lasciato e che probabilmente quella mattina avrebbero voluto rivedere il mio di volto, per andare avanti insieme, su una strada già iniziata, ma puntualmente stroncata.

Roberta Pelagalli

[sa Il Messaggero]

Questa è la storia di Roberta. Perché ho scelto di pubblicarla? Perché, nonostante io sia stata più fortunata di lei, visto che sono entrata in ruolo a 25 anni dopo solo due anni (più qualche mese di supplenze fatte prima di laurearmi) di precariato, per certi versi ha molto in comune con la mia.

Confesso che, seppur non vi sia andata per motivi di studio e avessi solo 18 anni, nel Regno Unito ci sarei rimasta. Tuttora vorrei avere il coraggio di fare il concorso per insegnare all’estero (anche se il coraggio maggiore dovrebbe essere quello di lasciare la mia famiglia), ma mi sono sempre trattenuta pensando che, qualora lo vincessi, non avrei la garanzia di ottenere una cattedra a Londra o nel Regno Unito.

Anch’io, come Roberta, so cosa significhi studiare e studiare solo per “guadagnare” dei punti per poter ottenere un posto vicino a casa. La differenza è stata che io ero già di ruolo ma la mia cattedra era in montagna e avevo bisogno di avvicinarmi poiché, nel frattempo, avevo messo al mondo due bimbi.

Non ero precaria ma un posto nella mia città sembrava un miraggio. Nonostante i due figli e i corsi universiatri post laurea, non c’era speranza. Così dovetti affrontare prima dei viaggi (sostenendo spese folli per la baby sitter, tra parentesi), poi passare l’estate in attesa del bando per la richiesta dell’assegnazione provvisoria per un anno, fare la domanda, andare al sindacato, una, due, tre volte, e infine attendere l’inizio delle lezioni per poter avere qualche notizia.

Sono stata fortunata, lo ripeto. Ma anch’io, una volta ottenuta l’assegnazione provvisoria, ho provato cosa significhi affezionarsi a degli allievi che sperano di rivederti, per poi rimanere delusi, da entrambe le parti, perché non era affatto scontato che, anche ottenuta la stessa sede, si potessero avere le medesime classi. Spesso, infatti, il ritardo delle nomine ci faceva arrivare tardi, troppo tardi.

Ricordo la risposta di una delle mie graziose dirigenti (le donne-capo sono state la peggior esperienza della mia vita) alla mia domanda: “Che classi avrò?”, con il cuore che batteva a mille e i volti degli studenti che si affacciavano alla mia mente, uno ad uno. E ricordo la gentile risposta di quella meravigliosa creatura, ovvero la mia preside: “Le darò gli avanzi“. Da quel dì è iniziata la mia lite quotidiana con il colon irritabile.

E come potrei dimenticare l’umiliazione di passare davanti alla porta di una delle “mie” classi e vedere seduta in cattedra, al mio posto, una supplente? E la rabbia che mi è esplosa nel cuore, alla fine della lezione, quando sono andata da lei e a momenti ci prendiamo per i capelli perché lei, che ovviamente non aveva alcuna colpa, mi urla “sono dieci anni che faccio supplenza, non sono l’ultima arrivata” ed io rispondo, quasi urlando a mia volta, “Sono di ruolo, io, da sei anni!”, rivendicando il mio diritto a quella cattedra, non per anzianità ma per grado.

E quando al sindacato mi dissero che l’unica soluzione, secondo loro, era prendere un’altra abilitazione e sperare in un passaggio di cattedra. Così, dicevano, avrei potuto ottenere quel posto come definitivo. Già, quello in cui la gentile dirigente continuava imperterrita a darmi gli avanzi … ah, dimenticavo che, arrivata al suo cospetto la prima volta dichiarando di non avere ancora l’abilitazione per insegnare Latino al Liceo, pur essendo di ruolo da qualche anno, motivo per cui le chiedevo mi fossero assegnate solo classi di biennio, la genitl donzella ebbe un’esplosione di rabbia, mi ricacciò nelle mani il foglio di nomina e mi rimandò dritta dritta al Provveditorato.

Lì scoppiò una specie di rivoluzione: telefonate di qua e di là – mancava solo chiamassero il ministro dell’Istruzione -, tutto un “Lei deve …”, “Ma sta scherzando? Come si permette di rimandarci la signora con la nomina in mano?” e “Be’ allora magari le diamo quelle tre classi di biennio e poi le facciamo completare la cattedra alle magistrali”. Ecco, tutto stabilito, ovviamente senza interpellare me che stavo davanti alla scrivania dell’impiegata del Provveditorato allibita e sempre con quel foglio di carta in mano. Così, per essere stata onesta, mi sono beccata due sedi, quattro classi, spezzoni di qua e là, riunioni moltiplicate per due scuole … Ricordo che una sera, verso le nove, stavo lavando i piatti e continuavo a sentirmi strana, come se ci fosse qualcosa che mancasse, un tassello in meno in quella giornata faticosa, una delle tante. Poi, d’un tratto, l’illuminazione! Avevo dimenticato il collegio docenti della seconda scuola. Era fissato per le 18 e 30 e, proprio perché a quell’ora ci sarebbe stato mio marito a casa, non avevo chiamato la baby sitter. I miei impegni, infatti, erano associati alla sua persona: arrivava lei, me ne andavo io.

Infine, l’ultimo sforzo: la terza abilitazione. Corso, esami, studio matto e disperatissimo alla Leopardi dalle dieci di sera alle tre di notte, otto caffè al giorno, preghiera alla madonna ogni sera ché i miei figli si addormentassero ad un’ora decente e non si svegliassero mentre studiavo. E quella sensazione, al mattino dopo, di andare a scuola senza avere la più pallida idea di cosa dovessi fare. Per fortuna ho sempre amato il mio lavoro e la fatica non mi ha mai fatto stramazzare al suolo. Arrivavo in classe, chiudevo la porta e tutto era dimenticato, a parte gli argomenti su cui avrei fatto lezione.

Ecco questa è la mia storia, almeno una parte di essa. Ad otto anni dalla mia immissione in ruolo ho potuto finalmente smettere di viaggiare, cambiare scuola o allievi ogni anno, studiare … almeno, non avevo più titoli da acquisire per avanzare in graduatoria, potevo finalmente scegliere i tempi per studiare, uno studio – passione che, comunque, non ho mai abbandonato.

Io auguro a Roberta di “sistemarsi” in fretta e apprezzo soprattutto un passaggio della sua lettera, quando scrive: ma non è semplice accettare di vedersi passare gli anni davanti, con incertezza sempre maggiore, con decisioni ministeriali, qualunque sia il governo, da noi docenti vissute come improvvise e sfumate, sempre pronte a essere ripensate.

Perché le colpe non sono mai di una persona sola. Le si attribuirebbe più importanza di quanto in effetti meriti.