Vorrei raccontare la mia esperienza professionale di insegnante di Lettere nella provincia di Frosinone e nella scuola statale italiana in generale. Devo la mia formazione, per buona parte, alla città di Cassino: mi sono diplomata al Liceo Carducci e laureata all’Università di Cassino in Lettere classiche, ammetto, con il massimo dei voti in entrambi i casi.
La vita mi ha portato un anno nel Regno Unito, nella moderna città di Milton Keynes, a nord di Londra, dove ho lavorato nel Customer Service della Opel Italia, all’interno del Centro Relazioni Clienti europeo della General Motors a Luton, quindi niente a che vedere con versi greci e latini. Nei miei ultimi mesi di permanenza lì ho trovato, poi, un lavoro aggiuntivo, part-time, presso il Comune di M.K. che mi ha dato grande soddisfazione: sono stata insegnante di Italiano in un corso serale per adulti chiamato Italian for holidays, finalizzato ad allievi absolutely beginners interessati a trascorrere le loro vacanze in Italia e ad avere un’infarinatura sulla lingua.
Per la prima volta ho avuto l’onore di rappresentare la cultura italiana all’estero, seppure nei suoi aspetti più quotidiani, quelli che incuriosivano i futuri vacanzieri, desiderosi di conoscere più i termini indicanti i gusti del gelato che il modo migliore per chiedere indicazioni per andare a visitare la Basilica di San Pietro a Roma. Nonostante il miglioramento della conoscenza della lingua inglese, il riconoscimento chiaro della mia dignità lavorativa in tutti gli aspetti e i nuovi corsi che il Comune di Milton Keynes mi offriva per il mese di settembre successivo, decisi comunque di lasciare la verde Inghilterra, perché sentivo che non stavo spendendo la mia laurea fin in fondo e perché mi mancava il sole della nostra penisola, ahimè, incantevole per certi aspetti.
Così ho tentato la selezione per accedere alla ormai superata S.S.I.S. e ce l’ho fatta, ma era soltanto l’inizio di due anni faticosi, fatti di viaggi, di corsi pomeridiani quotidiani, di tesine, di esami, insomma, altri due anni di università, coronati da un Esame di Stato finale che mi ha dato il titolo abilitante per insegnare nella scuola statale italiana, in particolare nella secondaria di secondo grado, altrimenti detta scuola superiore.
Pensando che il grosso fosse fatto, mi sono inserita nelle graduatorie provinciali e ho atteso, nei primi tre anni, le chiamate per le supplenze d’istituto, visto che di incarico dal Provveditorato ancora non se ne parlava. Nel frattempo ho fatto master universitari di dubbio spessore, ma di onere gravoso, pur di assicurarmi un punteggio migliore, ho viaggiato per conseguire anche il titolo di sostegno, grazie al quale oggi non sono lavoro e sono un’insegnante più completa, ho continuato a seguire anche i miei interessi paralleli, frequentando un corso estivo molto formativo per insegnare italiano agli stranieri, nonostante non mi abbia dato punteggio alcuno, ma procurandomi almeno la soddisfazione di rappresentare, ancora una volta e con orgoglio, la cultura e la lingua italiana.
Oggi sono forse a metà del cammino che mi porterà ad essere assunta a tempo indeterminato, ma non è semplice accettare di vedersi passare gli anni davanti, con incertezza sempre maggiore, con decisioni ministeriali, qualunque sia il governo, da noi docenti vissute come improvvise e sfumate, sempre pronte a essere ripensate.
Non è facile andare in giro per le scuole della provincia, ogni giorno a decine di chilometri di distanza, e vedere invece che i privilegiati delle scuole paritarie, non soggetti ad alcuna selezione di merito, hanno il posto garantito ogni anno sotto casa, sebbene io non li invidi affatto.
Non è facile incontrare tanti alunni, sempre diversi, e dare tanto a ciascuno di loro, per poi cambiare ogni settembre e andare a scuola il primo giorno col cuore stretto in una morsa, pensando ai giovani volti che ho lasciato e che probabilmente quella mattina avrebbero voluto rivedere il mio di volto, per andare avanti insieme, su una strada già iniziata, ma puntualmente stroncata.
Roberta Pelagalli
[sa Il Messaggero]
Questa è la storia di Roberta. Perché ho scelto di pubblicarla? Perché, nonostante io sia stata più fortunata di lei, visto che sono entrata in ruolo a 25 anni dopo solo due anni (più qualche mese di supplenze fatte prima di laurearmi) di precariato, per certi versi ha molto in comune con la mia.
Confesso che, seppur non vi sia andata per motivi di studio e avessi solo 18 anni, nel Regno Unito ci sarei rimasta. Tuttora vorrei avere il coraggio di fare il concorso per insegnare all’estero (anche se il coraggio maggiore dovrebbe essere quello di lasciare la mia famiglia), ma mi sono sempre trattenuta pensando che, qualora lo vincessi, non avrei la garanzia di ottenere una cattedra a Londra o nel Regno Unito.
Anch’io, come Roberta, so cosa significhi studiare e studiare solo per “guadagnare” dei punti per poter ottenere un posto vicino a casa. La differenza è stata che io ero già di ruolo ma la mia cattedra era in montagna e avevo bisogno di avvicinarmi poiché, nel frattempo, avevo messo al mondo due bimbi.
Non ero precaria ma un posto nella mia città sembrava un miraggio. Nonostante i due figli e i corsi universiatri post laurea, non c’era speranza. Così dovetti affrontare prima dei viaggi (sostenendo spese folli per la baby sitter, tra parentesi), poi passare l’estate in attesa del bando per la richiesta dell’assegnazione provvisoria per un anno, fare la domanda, andare al sindacato, una, due, tre volte, e infine attendere l’inizio delle lezioni per poter avere qualche notizia.
Sono stata fortunata, lo ripeto. Ma anch’io, una volta ottenuta l’assegnazione provvisoria, ho provato cosa significhi affezionarsi a degli allievi che sperano di rivederti, per poi rimanere delusi, da entrambe le parti, perché non era affatto scontato che, anche ottenuta la stessa sede, si potessero avere le medesime classi. Spesso, infatti, il ritardo delle nomine ci faceva arrivare tardi, troppo tardi.
Ricordo la risposta di una delle mie graziose dirigenti (le donne-capo sono state la peggior esperienza della mia vita) alla mia domanda: “Che classi avrò?”, con il cuore che batteva a mille e i volti degli studenti che si affacciavano alla mia mente, uno ad uno. E ricordo la gentile risposta di quella meravigliosa creatura, ovvero la mia preside: “Le darò gli avanzi“. Da quel dì è iniziata la mia lite quotidiana con il colon irritabile.
E come potrei dimenticare l’umiliazione di passare davanti alla porta di una delle “mie” classi e vedere seduta in cattedra, al mio posto, una supplente? E la rabbia che mi è esplosa nel cuore, alla fine della lezione, quando sono andata da lei e a momenti ci prendiamo per i capelli perché lei, che ovviamente non aveva alcuna colpa, mi urla “sono dieci anni che faccio supplenza, non sono l’ultima arrivata” ed io rispondo, quasi urlando a mia volta, “Sono di ruolo, io, da sei anni!”, rivendicando il mio diritto a quella cattedra, non per anzianità ma per grado.
E quando al sindacato mi dissero che l’unica soluzione, secondo loro, era prendere un’altra abilitazione e sperare in un passaggio di cattedra. Così, dicevano, avrei potuto ottenere quel posto come definitivo. Già, quello in cui la gentile dirigente continuava imperterrita a darmi gli avanzi … ah, dimenticavo che, arrivata al suo cospetto la prima volta dichiarando di non avere ancora l’abilitazione per insegnare Latino al Liceo, pur essendo di ruolo da qualche anno, motivo per cui le chiedevo mi fossero assegnate solo classi di biennio, la genitl donzella ebbe un’esplosione di rabbia, mi ricacciò nelle mani il foglio di nomina e mi rimandò dritta dritta al Provveditorato.
Lì scoppiò una specie di rivoluzione: telefonate di qua e di là – mancava solo chiamassero il ministro dell’Istruzione -, tutto un “Lei deve …”, “Ma sta scherzando? Come si permette di rimandarci la signora con la nomina in mano?” e “Be’ allora magari le diamo quelle tre classi di biennio e poi le facciamo completare la cattedra alle magistrali”. Ecco, tutto stabilito, ovviamente senza interpellare me che stavo davanti alla scrivania dell’impiegata del Provveditorato allibita e sempre con quel foglio di carta in mano. Così, per essere stata onesta, mi sono beccata due sedi, quattro classi, spezzoni di qua e là, riunioni moltiplicate per due scuole … Ricordo che una sera, verso le nove, stavo lavando i piatti e continuavo a sentirmi strana, come se ci fosse qualcosa che mancasse, un tassello in meno in quella giornata faticosa, una delle tante. Poi, d’un tratto, l’illuminazione! Avevo dimenticato il collegio docenti della seconda scuola. Era fissato per le 18 e 30 e, proprio perché a quell’ora ci sarebbe stato mio marito a casa, non avevo chiamato la baby sitter. I miei impegni, infatti, erano associati alla sua persona: arrivava lei, me ne andavo io.
Infine, l’ultimo sforzo: la terza abilitazione. Corso, esami, studio matto e disperatissimo alla Leopardi dalle dieci di sera alle tre di notte, otto caffè al giorno, preghiera alla madonna ogni sera ché i miei figli si addormentassero ad un’ora decente e non si svegliassero mentre studiavo. E quella sensazione, al mattino dopo, di andare a scuola senza avere la più pallida idea di cosa dovessi fare. Per fortuna ho sempre amato il mio lavoro e la fatica non mi ha mai fatto stramazzare al suolo. Arrivavo in classe, chiudevo la porta e tutto era dimenticato, a parte gli argomenti su cui avrei fatto lezione.
Ecco questa è la mia storia, almeno una parte di essa. Ad otto anni dalla mia immissione in ruolo ho potuto finalmente smettere di viaggiare, cambiare scuola o allievi ogni anno, studiare … almeno, non avevo più titoli da acquisire per avanzare in graduatoria, potevo finalmente scegliere i tempi per studiare, uno studio – passione che, comunque, non ho mai abbandonato.
Io auguro a Roberta di “sistemarsi” in fretta e apprezzo soprattutto un passaggio della sua lettera, quando scrive: ma non è semplice accettare di vedersi passare gli anni davanti, con incertezza sempre maggiore, con decisioni ministeriali, qualunque sia il governo, da noi docenti vissute come improvvise e sfumate, sempre pronte a essere ripensate.
Perché le colpe non sono mai di una persona sola. Le si attribuirebbe più importanza di quanto in effetti meriti.