BUON ANNO E… BUON TEMPO A TUTTI!


Negli ultimi tempi – forse è meglio dire anni – ho l’impressione che il tempo non solo fugga, com’è giusto che sia, ma soprattutto mi sfugga, scivoli via dalle mie mani defraudandomi di quella prerogativa che dovrebbe essere garantita a ogni uomo e a ogni donna: l’essere padroni del proprio tempo.

La mia latitanza da questo e dagli altri blog è cosa nota, ormai, a chi mi segue. Non scrivo quasi più perché non ho stimoli, è vero, ma anche perché, perfezionista come sono, non riesco a buttare giù due righe, di corsa, tanto per dire “il mio blog sopravvive”. E così, accanto alla scarsa motivazione, c’è il problema del tempo.

Tempo che non ho perché il mio lavoro è diventato impossibile, con i tanti impegni che comporta a casa e a scuola. Non solo, ormai il mio lavoro mi prosciuga le energie, annienta la forza, e fisica e di volontà, sicché riesco a concedermi pochi piaceri al di là dei doveri: la passeggiata bi-trisettimanale è diventata una corsa veloce in centro il sabato pomeriggio ma non è nemmeno un lusso settimanale; il caffè con le amiche da appuntamento settimanale è diventato semestrale, se va bene; non sempre riesco a vedere il mio nipotino una volta per settimana, a volte ne passano due; vado a trovare i miei genitori sempre più di rado, con dei sensi di colpa che non vi dico.

Dicono che il tempo sia un dono. Purtroppo certe volte non riesco proprio a scartarlo questo dono, rimane là intrappolato nella scatola della vita, come i venti donati da Eolo a Odisseo. Vivo al di fuori di questa specie di scatola magica di cui non conosco la combinazione. Bastasse un apriti sesamo… ho l’impressione che siano rimasti solo i 40 ladroni a rubare il mio tempo.

Ho scoperto per caso la poesia di Elli Michler “Ti auguro tempo” e ho deciso di postarvi il video (ma se preferite potete leggerla con calma QUI) per augurarvi un buon 2019. So che il problema che affligge me è molto diffuso e spero che le parole della poetessa tedesca possa farvi riflettere come ha fatto riflettere me.

Eppure basterebbe tenere presente le parole del filosofo Seneca: “Nulla è di minore importanza per un uomo affaccendato che il vivere”.

A TUTTI RIVOLGO UN AFFETTUOSO AUGURIO DI UN

[GIF DA QUESTO SITO]

L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DI UN ANNO SCOLASTICO


Domani ci saranno gli scrutini integrativi per il recupero dei Debiti Formativi. Nel mio liceo si “saldano” a luglio per far passare in pace – almeno si spera – il resto dell’estate agli allievi, peccato però che di fatto le ferie dei docenti (e non dico “vacanze” perché quelle spettano agli studenti!) non possano iniziare dal 1 luglio come dovrebbero. Poi ci sono anche i professori impegnati negli esami di maturità e ne avranno fino a metà mese. Con buona pace di chi, alla fine delle lezioni, inesorabilmente tuona con la solita litania degli “insegnanti che hanno tre mesi di vacanza”.

Vero è che dal 14 giugno, giorno in cui sono finite le lezioni, non ho passato tutti i giorni a scuola. Ma il nostro lavoro va al di là delle 18 ore di lezione e, specialmente alla fine dell’anno scolastico, ci sono delle incombenze, perlopiù burocratiche, che impegnano molte ore anche se lasciano la libertà di scegliere quando svolgerle. Questo è il punto: se non ti fai vedere a scuola tutti i giorni e se svolgi questo “lavoro sommerso” a casa, magari di notte, tu per gli altri – quelli che la scuola l’hanno solo frequentata da studenti e non si fanno sfuggire l’occasione di pontificare – sei “in vacanza”. Se poi qualche ora si passa all’interno dell’edificio scolastico per riunioni, scrutini, sorveglianza agli esami, con il termometro che spesso arriva a 27°C, che sarà mai! Specialmente se il resto del tempo te lo puoi godere facendo ciò che ti pare e piace, percependo un regolare stipendio che ti viene accreditato sul conto corrente bancario ogni 23 del mese… pure quando sei in “vacanza”!

Non è così che funziona. Sono stanca di ripeterlo e sono soprattutto esausta dopo un anno scolastico che, più il tempo passa, più pesante diventa. E non solo perché si invecchia, anche se l’età media dei docenti supera i 50 anni ed è normale che si senta anche il peso degli anni.

Io capisco che ci sono anche quelli che possono davvero sentirsi in vacanza e non arrivano nemmeno tanto stremati a giugno. Non voglio puntare il dito contro nessuno ma davvero ci sono docenti che hanno un lavoro più “leggero” e che certamente non devono correggere 1000 compiti di italiano o latino, che richiedono molta attenzione e un dispendio di tempo notevole poiché non sono test a crocette che si correggono in un’ora, come faccio io.

Diciamo, poi, che ciascuno ha anche dei problemi personali da affrontare che possono rendere molto pesante il lavoro a casa, proprio perché non si può disporre delle ore che rimangono una volta finite le lezioni, che devono invece essere dedicate o a figli piccoli o a genitori anziani. Mettiamoci pure i problemi di salute che, dato l’aumento dell’età della pensione, non mancano di certo. Se penso che quand’ero agli inizi della carriera alcuni colleghi – soprattutto colleghe – andavano in pensione, a 40 anni con 16 di servizio e 4 di riscatto universitario, mi viene una rabbia soprattutto pensando che noi lavoriamo per pagare le loro pensioni che sono di tutto rispetto. Mentre a noi resteranno le briciole e anche la cosiddetta “buonuscita”, regolarmente accantonata, ci verrà data a rate due anni dopo il ritiro effettivo dal lavoro. Quando avremo 67 anni, se basta.

Ecco, posso dire che quello che ha reso oltremodo pesante quest’anno scolastico che mi sto finalmente lasciando alle spalle, è il malumore. Perché davvero non c’è rispetto per il nostro lavoro, perché tutti son pronti a dire la loro sminuendo non solo la nostra professione ma anche l’efficacia stessa di quel che facciamo. “La scuola che boccia è una scuola perdente!”, quante volte l’abbiamo sentito? Ed è perdente perché gli insegnanti sono incapaci, sono dei mangia-pane-a-tradimento nell’accezione più pura del detto popolare: “uomo disutile e buono solo a mangiare” (Antonini,1770, Tommaseo, 1867, Rigutini,1937). Insomma, dovremmo essere più bravi per non lasciare nessuno indietro. E che dire, allora, del contributo che gli studenti danno? Che dire del loro reale impegno per raggiungere gli obiettivi? Che dire delle famiglie, sempre pronte a difendere i pargoli, puntando il dito contro i docenti che non capiscono, non giustificano, non motivano, non incentivano…

A questo punto voglio chiarire che personalmente non mi sono trovata in situazioni a tal punto sgradevoli, anzi, ho profonda stima dei miei studenti che ho aiutato, premiando l’impegno, e sollecitato a studiare di più per ottenere migliori risultati confidando nelle loro potenzialità. Ho sempre buoni rapporti con i genitori e molti di loro mi ringraziano per quello che faccio. Però ciò non basta a togliermi di dosso quel malumore che aleggia su tutta l’istituzione scolastica, indipendentemente dall’ordine e grado di scuola, dalle regioni d’Italia, dalle città o periferie.

La scuola è malata, forse. Ma non c’è nessuno al suo capezzale ad assisterla. Non c’è un ministro – dico uno o una… e ne sono passati tanti sotto i miei occhi nei 34 anni d’insegnamento… – che trovi davvero una cura. Ma è malata la scuola, non i docenti, non i dirigenti, non gli studenti.

Prendiamo ad esempio la cosiddetta #buonascuola. A dispetto del nome, è stata ed è una pessima riforma, anzi, non merita nemmeno l’appellativo di “riforma” perché non ha riformato nulla ma ha peggiorato molto di quello che prima nella scuola funzionava. Non voglio entrare nei particolari (d’altronde pubblico questo post sul mio blog principale e non su laprofonline, proprio perché vuole essere uno sfogo personale e non un post tecnico), ma prendiamo ad esempio i finanziamenti alla scuola.

Molti equiparano la scuola a un’azienda. Allora mi dicano quale impresa può sopravvivere senza fondi… noi non produciamo ricchezze che poi possiamo reinvestire, abbiamo solo bisogno di soldi per offrire un servizio decente. Ma lo Stato latita da questo punto di vista e non fatevi ingannare dai vari ministri che si sono vantati e si vantano di destinare alla scuola italiana sempre più fondi. Il problema è che questi soldi non bastano, sono come una goccia d’acqua nell’oceano, ma questo nessuno lo capisce.
Quindi, le scuole come sopravvivono? Con i contributi “volontari” delle famiglie. “Se sono volontari, nulla è dovuto!”, tuonano ogni anno le varie associazioni dei consumatori. Ma ignorano che una parte del contributo è dovuta per le “spese vive” (libretto personale per le giustificazioni, materiale vario che i docenti distribuiscono tramite le fotocopie, l’utilizzo dei laboratori, i servizi più disparati destinati agli studenti, le attività extracurricolari… sono solo degli esempi) e che spesso nemmeno la modesta somma dovuta viene versata.

Rendiamoci conto che in alcune scuole non vengono nemmeno sostituiti i docenti assenti con personale supplente perché non ci sono soldi. E anche quei fortunati supplenti che ottengono un incarico annuale, aspettano mesi prima di ricevere lo stipendio. Vi pare un’azienda che funziona questo tipo di scuola?

Vogliamo una scuola vivace, interessante, stimolante, accogliente, inclusiva e chi più ne ha più ne metta. Giustissimo, per carità, ma con quali soldi? Ora c’è il PON (Programma Operativo Nazionale) che include progetti pluriennali che ogni scuola, se vuole, può proporre e, se i progetti vengono considerati validi, allora arrivano tanti bei soldini elargiti dalla UE. Se…

Per partecipare al PON, però, ci vogliono i progetti, bisogna stabilire quanti e quali siano necessari ma soprattutto meritevoli d’attenzione da parte del Ministero e quanti e quali possano essere davvero accattivanti per gli studenti, si devono compilare pagine elettroniche infinite (ormai si fa tutto on line ma “la mente che crea” non è così veloce…), inviare il tutto entro i termini e stare attenti che le scadenze non sfuggano, incrociando le dita in attesa del responso finale che però arriva mesi dopo. Diciamo che c’è pure il tempo di dimenticarsi del PON.

Fin qui tutto bene, a parte il tempo speso per assolvere a tutte le questioni elencate (io ne ho speso parecchio, per dire, e tutto in orario extrascolastico però a scuola, così almeno mi si vedeva al lavoro!). Ma quando penso che l’obiettivo – inutile nasconderlo – del MIUR è quello di destinare meno soldi alle scuole perché tanto c’è il PON, ecco che il malumore aumenta.

A tutto ciò si aggiungono i problemi personali, come dicevo all’inizio. Io ho dovuto affrontare la rovinosa caduta di mia mamma con conseguente frattura del femore, nonché i problemi di salute di mio papà che sto ancora affrontando. E anche la mia salute non è proprio eccellente: verso la fine delle lezioni sono finita al Pronto Soccorso con i sintomi dell’infarto… tutto a posto, ha detto il medico che mi ha assistito nell’emergenza, ma “fossi in lei farei dei controlli ulteriori”. E così, di controllo in controllo, passerà tutta l’estate e il mio malumore, e anche la mia ansia, non può che peggiorare.

Ecco in estrema sintesi come mi sento. Ho sempre dato tanto al lavoro, spesso sottraendo tempo alla famiglia, quando i bambini erano piccoli e avevano più bisogno di me. Ho visto convivenze e matrimoni naufragare per questo motivo, perché a volte anche chi vive accanto a noi non capisce. “Ma chi te la fa fare per quei due soldi?”, chiedono. Io non ho mai pensato allo stipendio, perché amo il mio lavoro e ci metto passione in tutto quel che faccio. Ma non ci posso rimettere la salute ed è questo pensiero che attualmente mi turba.

Le colleghe che sono andate in pensione prima della malefica Legge Fornero alla mia età avrebbero avuto 2 o 3 anni davanti. Io ne ho 10 se va bene, ma probabilmente saranno 11. Posso dire che sono di malumore, che mi sento sfruttata (ho iniziato a insegnare prima ancora di laurearmi!), che non tollero questa ingiustizia, questo protrarsi degli anni in cattedra che mi pare sempre più una condanna ai lavori forzati? Posso dire che non vedo roseo il mio futuro, sotto nessun punto di vista?

Sono solo stressata e vedo tutto nero? Può darsi, anzi, lo spero. Magari a settembre rileggerò questo post e sorriderò. Ma molto probabilmente il prossimo luglio ne scriverò uno molto simile perché ho poche speranze che le cose cambino.

AUGURO A TUTTI UNA

Nel frattempo mi trovate QUI.

CONGEDO MESTRUALE: PERCHÉ NO?


Si sta discutendo alla Camera una proposta di Legge, firmata da quattro deputate del Pd, che prevede un congedo mensile di massimo tre giorni per le donne che soffrono di dismenorrea (mestruazioni dolorose). Attualmente la proposta è all’esame della Commissione Lavoro e potrebbe essere approvata in tempi brevi, allineando l’Italia a molti Paesi, soprattutto orientali, che si sono attivati già in questo senso.

In realtà la proposta è stata presentata da Romina Mura, Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato già un anno fa. L’iter è stato accelerato anche grazie al dibattito sulla questione che negli USA è stato riacceso di recente dalla decisione di un’azienda di Bristol, la Coexist, di inserire nello statuto l’esenzione dal lavoro per le impiegate nei giorni di picco del ciclo mestruale.

Naturalmente questo speciale congedo sarebbe usufruibile solo previa presentazione di un certificato medico redatto dallo specialista, da rinnovare di anno in anno, che attesti la presenza di dismenorrea. Una sindrome molto più diffusa di quanto si potrebbe pensare: in Italia si stima che fra il 60% e il 90% di donne in quei giorni lamentano mal di testa, mal di schiena, dolori addominali, forti sbalzi ormonali. Nel 30% dei casi i disturbi sono invalidanti: costringono a letto per ore e anche per più giorni. Un malessere che può essere violento e fortemente invalidante, seppur limitato a uno-tre giorni al mese.

Il congedo mestruale è già una realtà da molto tempo nel mondo orientale dove c’è la credenza che il mancato riposo durante il ciclo provochi parti problematici: in Giappone esiste dal 1945 e in Indonesia dal 1948. Più recentemente si sono aggiunte alla lista “rosa” Sud Corea e Taiwan.

Di fronte alla proposta di Legge mi sento di esprimermi in modo favorevole, nonostante non mi riguardi da vicino. Non più, almeno, ma non posso dimenticare gli anni passati in un incubo mensile che mi costringeva a letto a volte anche per due giorni, in preda a dolori lancinanti, nausea, svenimenti… talvolta erano necessarie una o più iniezioni di antidolorifici perché non riuscivo a tenere nello stomaco le pastiglie. Ora leggendo i dati mi rincuoro un po’, ma anche mi dispiace. Ai tempi, invece, mi sembrava di essere una besti rara e invidiavo tutte le amiche e compagne di scuola che, non solo passavano “normalmente” quei giorni, ma addirittura potevano andare al mare o in piscina, continuavano gli allenamenti in palestra. Per me il mondo si fermava, semplicemente. E così è stato fino alla nascita del mio primogenito. Forse, inconsciamente, la mia precoce (ma non tanto ai tempi…) voglia di maternità era dovuta proprio alla speranza di stare bene dopo il primo parto.

Leggo sui quotidiani che la proposta non è appoggiata da tutte le donne. Alcune, che evidentemente non soffrono né hanno mai sofferto di dismenorrea, affermano che basta chiedere uno o più giorni di malattia, senza alcun bisogno di leggi speciali.
Altre sono arrivate al punto da esclamare: “Abbiamo tanto lottato per la parità dei sessi e ora…”. Ma ora che? Vogliamo far partorire gli uomini, per par condicio? Magari un domani sarà pure possibile ma non ora, finché è ancora la natura a decidere.

L’obiezione più assurda è che la proposta si debba bollare perché a presentarla sono state quattro donne del Pd. Come se la dismenorrea fosse di sinistra e le donne fortunate a non soffrirne fossero tutte di destra. Vuol dire che faremo presente al ciclo di fare attenzione: niente dolori a destra, solo a sinistra.

C’è anche chi preferirebbe che fossero le aziende e i datori di lavoro a decidere, come accade nella maggior parte dei Paesi occidentali. Insomma, non c’è bisogno di una legge ad hoc, solo un gesto caritatevole da parte dei boss. E con le donne che hanno un impiego statale come la mettiamo?

In conclusione, ribadisco che a me piace questa proposta, mi pare assennata. Se poi non va bene condividerla perché, si sa, in Italia “fatta la legge, trovato l’inganno”… il dubbio che qualche “furbetta” se ne approfitti e che qualche medico sia compiacente c’è. Ma lo stesso discorso vale anche per le migliaia di certificazioni sui falsi invalidi, no?

[fonte: Il Messaggero; immagine da questo sito]

C’È LAVORO E LAVORO

attentato-berlinoLa notizia è sulla bocca di tutti: il killer di Berlino è stato ucciso, grazie all’intervento di due poliziotti che facevano servizio di ronda a Sesto San Giovanni, nell’hinterland milanese, la scorsa notte.

Le reazioni, specialmente sui social network, sono state varie. Non approvo le manifestazioni di gioia: è morto un uomo, in fondo. Un terrorista ma pur sempre un uomo. È vero, ha ucciso 12 persone e ferito qualche decina, ma a mio modesto avviso, più che morire, avrebbe dovuto essere catturato, messo in carcere (anche senza processo ma, ahimè, in un Paese civile questo non è possibile) buttando via la chiave.

C’è poi chi ha ringraziato i due poliziotti e li ha chiamati eroi. In questo caso mi sento di condividere l’esternazione di molti e non capisco come altri, molti anch’essi, abbiano sollevato la questione del lavoro. Stavano lavorando – dicono – uno che lavora non è un eroe, lavora e basta. Ecco, io mi dissocio.

È vero che i due sono stati un po’ eroi per caso (a tal proposito vi invito a leggere questo bel post di Pino Scaccia sul suo blog). Erano in servizio, si sono insospettiti e hanno agito seguendo la procedura che prevede, innanzitutto, la richiesta dei documenti. Anis Amri, l’autore della strage al mercatino di Natale di Berlino, non li aveva. Gli agenti hanno, quindi, chiesto di perquisire lo zaino. Fin qui la procedura. Ma mentre il più “vecchio” dei poliziotti (un friulano, qui la sua testimonianza) procedeva alla perquisizione, l’altro, appena 29enne, ha visto che il killer stava estraendo una pistola dalla giacca e, nonostante non abbia potuto impedire a quello di sparare a bruciapelo, colpendo il collega alla spalla destra, ha mantenuto il controllo della situazione e avuto il sangue freddo di sparare, sapendo i rischi che correva. Per sua fortuna il giovane poliziotto è riuscito a colpire il criminale, prima di essere a sua volta colpito. Non credo avesse intenzione di uccidere. Ma chi fa quel lavoro, per garantire la sicurezza a noi cittadini, sa bene che può succedere, ed è successo.

Ora, io penso che quello dei poliziotti e di tutti gli uomini e le donne che hanno il compito di proteggere la popolazione, non sia un lavoro come tutti gli altri. Per farlo ci vuole coraggio, determinazione ma soprattutto passione e dedizione. Ed è pure malpagato.
Qualcuno potrebbe obiettare che in tutti i lavori queste doti siano richieste e che molti siano malpagati. Posso anche essere d’accordo ma non posso dimenticare che non in tutti i lavori si rischia la vita, non tutti allo stesso modo, perlomeno. Non tutti con la pistola in mano, comunque.

Per questo, con la consapevolezza che ci siano tanti mestieri pericolosi e malpagati, ritengo che indossare una divisa e impugnare una pistola, a rischio della propria incolumità per garantire quella degli altri, sia qualcosa di speciale. E in certi casi, vero e proprio eroismo.

Non credo che i due si considerino degli eroi, ma non è sbagliato ritenerli tali. L’agente ferito, da un letto d’ospedale dove è convalescente in seguito ad un intervento chirurgico per l’estrazione del proiettile dalla spalla, ha dichiarato: «Sono contento di essere stato utile in questo “marasma” che sta succedendo in Europa».

E noi siamo contenti che tu e il tuo collega stiate bene.

P.S. Su tutti i quotidiani sono state diffuse le generalità dei due poliziotti. Su questo dissento in modo deciso. Ho scelto di non fare nomi anche se gli articoli linkati li pubblicano.
Caso vuole che oggi ricorra il 18° anniversario della cosiddetta “Strage di Natale”, episodio avvenuto a Udine l’antivigilia di Natale. In quell’occasione morirono tre poliziotti: Adriano Ruttar, Paolo Cragnolino e Giuseppe Guido Zanier. Mi piace ricordarli in un post che racconta la storia di due agenti più fortunati.

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: ALLA PUGLIA IL PRIMATO DI QUOTE ROSA IN AGRICOLTURA

PREMESSA
Riprendo con questo post la vecchia consuetudine di dedicare ogni venerdì a una buona notizia. Sospesa da quasi due anni, questa “rubrica” oggi diventa ancora più necessaria: nel mondo succedono fatti terribili che inevitabilmente “occupano la scena”, ma abbiamo bisogno anche di qualche buona notizia. Per sperare in un futuro migliore o, senza pretendere l’impossibile, rallegrarci sapendo che ci sono sempre tante cose belle da scoprire.
Spero di poter continuare in questo proposito. Lo devo a me stessa, perché parlare di cose belle mi fa bene, e lo devo soprattutto all’amica Laura (laurin42), promotrice di questa iniziativa, che recentemente ha rinnovato l’appello agli amici blogger perché diano la “caccia” alle buone notizie e le pubblichino il venerdì.

donne agricoltura
Quante volte abbiamo sentito dire, da parte degli insegnanti, che alcuni allievi sono da considerare “braccia rubate all’agricoltura”?

Personalmente non ho mai amato questa battuta che considero infelice. In primo luogo perché, volendo essere offensivi, non si raggiunge certo lo scopo. La coltivazione dei campi, infatti, non è solo lavoro duro adatto ad analfabeti, come poteva esserlo una volta. Ci vuole ingegno, capacità imprenditoriale, caparbietà e molto spirito di adattamento ad un’attività che dipende anche dai capricci della natura. D’altra parte, se non ci fosse chi se ne occupa, sulle nostre tavole non potremmo esibire tutti i prodotti della terra che facilmente compriamo in qualsiasi supermercato.

La crisi del mondo del lavoro ha spinto sempre più i giovani a cercare un’occupazione più “modesta”, se vogliamo dir così, allo stesso tempo rischiosa, ma che sa dare anche molte soddisfazioni. Soprattutto c’è chi cerca di fuggire dalla città e dal suo caos per immergersi nella natura. Insomma, dalla cultura alla coltura il passo è breve. E non è detto che una cosa escluda l’altra.

Stando a un’indagine di Casarano Sette, quotidiano leccese, in Puglia il 22% del totale di 377.227 attività imprenditoriali iscritte alle Camere di Commercio fa capo ad una donna. Sono 85.362 le imprenditrici agricole e, sul totale, il 15,7% è giovane e multifunzionale.

Le imprese rosa in Puglia non solo battono la crisi, considerando anche il fatto che essa è più evidente nel sud Italia, ma hanno un profitto superiore alla media nazionale: il saldo positivo complessivo è del 2,9% nel 2015 rispetto al 2014 (dati Ufficio Studi Unioncamere Puglia) e il divario positivo si deve essenzialmente anche in questo caso al settore agricolo, nel quale si registra un incremento di iscrizioni del 49,3%.

Le giovani che si dedicano all’agricoltura non sono “eredi” di imprese familiari e pare che la loro scelta non sia un ripiego occupazionale di serie b.

«Sono poche le donne impiegate in agricoltura che hanno un genitore che opera nello stesso campo» – spiega il Presidente di Coldiretti Puglia, Gianni Cantele – «e ciò vuol dire che non è un lavoro ereditato o un ripiego occupazionale, ma un mestiere scelto. Una scelta portata avanti per reale passione, ma anche per spirito imprenditoriale. Per una imprenditrice, tra l’altro, l’attività in agricoltura, la cui sede coincide sovente con la residenza familiare, consente di fondere facilmente impegni familiari e professionali».

Sono sempre più, infatti, le famiglie che decidono di “tornare ai campi”, rinunciando agli agi delle città ma ottenendo in cambio uno stile di vita meno frenetico. Anche chi ha già un’occupazione prestigiosa, è capace d rinunciarvi per dedicarsi all’agricoltura, con il vantaggio di poter trasferire le proprie conoscenze e capacità imprenditoriali maturate in tutt’altro campo.

Ad esempio, Marco Rapelli, 40enne milanese, fino a qualche tempo fa direttore di un importante marchio internazionale, ha deciso di trasferisrsi, con la compagna Sara e i loro quattro cani, in Abruzzo. Hanno scelto un piccolo settore del mercato ma con “grande spendibilità”: produrre frutti antichi, come la mela Abbondanza Rossa, a salvaguardia di prodotti altrimenti destinati a sparire. «L’italia» – racconta Marco – «è piena di tanti alberi che producono frutti gustosissimi che però sono meno produttivi dei commerciali, cioè di quelli venduti nella grande distribuzione e che per questa ragione stanno sparendo».

Assieme ad altri soci, Marco e Sara puntano al salto di qualità e hanno avviato anche la produzione di sughi e marmellate, applicando le loro competenze di marketing e commerciali al settore agroalimentare, oggi sempre più trainante dell’economia e aperto all’innovazione. Per fare questo, dunque, non serve solo tenere in mano una zappa e un piccone.

Oggigiorno, infatti, nel lavoro agricolo l’antica figura del fattore viene sostituita da quella di un agronomo erudito, spesso affiancato, come nel caso di Marco e Sara, da un informatico e sostenuto da un esperto del marketing per analisi di contesto e posizionamento aziendale, attività quest’ultima nella quale Marco è impegnato. «Diciamo che il lavoro mio e di Sara si divide in un 70% dedicato a lavorare la terra e comunque fare qualcosa di pratico e il 30% marketing e commerciale».

Insomma, lo slogan “braccia rubate all’agricoltura” ora dovrebbe essere sostituito con “cervelli rubati alle banche”.

[Fonti: impresalavoro.eu e buonenotizie.it; immagine da questo sito]

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

MA VENERDÌ 17 NON ERA IERI?

venerdì17Non sono superstiziosa. Oddio, un pochino sì ma se c’è un numero che non mi spaventa è il 17.

Il 17 giugno di quasi 36 anni fa è iniziata la storia d’amore con mio marito, sicché non ho motivo per temere quel numero.

Venerdì, poi, è il giorno consacrato a Venere, la dea dell’amore. Perché mai dovrebbe portare sfiga?

L’origine di questa superstizione, come molte altre, risale a molto molto tempo fa. Già nell’Antica Grecia, i seguaci di Pitagora detestavano il 17 perché collocato fra due numeri perfetti, il 16 e il 18. Nell’Antico Testamento si legge che il giudizio universale iniziò il 17esimo giorno del secondo mese. Forse, però, l’origine di questa superstizione risale all’età medievale. Sulle tombe, i Romani scrivevano VIXI, ho vissuto, per decretare l’inesorabile termine della vita con la morte. Si pensa che durante il Medioevo, essendo l’analfabetismo molto diffuso, la scritta venisse confusa con XVII, il 17 secondo il sistema numerico romano.

Il venerdì, invece, è ritenuto un giorno sfortunato perché, nella tradizione cristiana, è il giorno della morte di Gesù Cristo.

Ma perché scrivo tutto questo oggi? Perché ieri, nonostante le superstizioni, tutto è filato liscio, mentre oggi …

Il sabato al lavoro è una giornata leggera: solo tre ore di lezione in due classi. Eppure mi è pesata così tanto, complice forse una settimana di lavoro intenso dovuto al fatto che giovedì c’era anche il ricevimento pomeridiano dei genitori, che sarebbe stata adatta all’altra data, quella di venerdì 17.

Per farla breve, mi sono arrabbiata con una classe la prima ora e ho continuato ad incazzarmi nell’altra classe la terza. Non è da me.

È un periodo particolare. A quasi sei mesi dalla mia rovinosa caduta sul marciapiede, non sono ancora guarita del tutto. Le mie settimane scorrono tra lezione al mattino, lavoro pomeridiano per la scuola (leggi: correzione compiti, soprattutto), fisioterapia, piscina ed esercizi quotidiani in casa. Non esco quasi più, per svago, intendo. Non ho il tempo di stare al pc e sto trascurando non solo i miei blog (di cui aggiorno regolarmente solo le pagine che servono ai miei studenti), ma anche i blog degli amici e questo mi dispiace moltissimo. Se c’è una cosa che ho imparato in tanti anni da blogger è che, se non ti fai sentire con regolarità, nessuno ti si fila più. Pazienza.

Posso aggiungere che, sempre in tema di rotture, da novembre in poi si sono rotti:

1. il mio computer (non conviene ripararlo e non ne ho ancora comprato uno nuovo)
2. la macchina del caffè (sostituita)
3. la mano di mio marito (guarito)
4. il dito del mio precedente fisioterapista (ora vado da un altro … il sesto!)
5. la lavastoviglie (sto ancora lavando tutto a mano ma fortunatamente a breve arriva quella nuova)
6. la lavatrice (aveva trent’anni ma non era il momento … già sostituita anche perché i panni a mano non li lavo!)

Senza contare che, ancora prima di rompermi la spalla, si era rotto il tablet nuovo di zecca. 😦

Ecco, credo che se oggi ho sbraitato un po’, possa essere più che comprensibile.

Buon sabato 18 a tutti. 🙂

[immagine da questo sito]

GLI ALUNNI CRESCONO, LE PROF INVECCHIANO…

prof-cattiva
Ieri in segreteria a scuola, mentre stavo incollando i fogli del verbale nel quadernone (essì, dobbiamo ancora incollare…), sento una delle impiegate che parla ad un ragazzo. Al momento penso che sia un allievo del liceo ma poi, captando alcuni frammenti di conversazione, capisco che si tratta di un tirocinante.

Per i non addetti ai lavori chiarisco che i tirocinanti sono ragazzi laureati che devono frequentare il TFA (Tirocinio Formativo Attivo) per poter aspirare a diventare insegnanti.
Lì per lì penso, senza staccare il viso dal quadernone dei verbali, che bisognerebbe fare un monumento a questi giovani armati di buona volontà. Mi sembra quasi impossibile che, dopo tutto quello che si sente dire sulla scuola e sulla professione di insegnante, ci siano ancora dei trentenni, o giù di lì, che hanno voglia di salire in cattedra.

Mentre sono immersa in questi pensieri e continuo il mio lavoro di incollatura, sento che l’impiegata, rivolta a qualcun altro – forse un collega – chiede: “Ma allora cosa gli devo dire?”. Capisco che si riferisce al giovanotto e replico, pur non essendo stata interpellata: “Che deve armarsi di tanto coraggio!”

Alzo gli occhi, lo guardo, abbozzo un sorriso e lui: “Salve prof!”. Rimango interdetta. Strabuzzo gli occhi, più che altro perché per fare il lavoro di concetto cui mi ero dedicata con grande zelo, devo usare gli occhiali da presbite (e che vi vuole, per incollare qualche pagina! direte. Ho bisogno degli occhiali, che ci devo fare?) e quando alzo lo sguardo al di sopra del fusto (quello degli occhiali, non intendo il giovanotto), vedo tutto sfuocato.

Lui allora mi spiega che era stato un mio allievo in un altro liceo, più di dieci anni fa. Al momento non me lo ricordo ma, non appena mi dice nome e cognome, ecco che il suo viso mi torna familiare. Non è cambiato molto, in fondo. Quella classe me la ricordo bene: tutte femmine, due soli maschi. “No, prof – mi corregge – eravamo in quattro…”. Ok, vuol dire che voi due eravate più simpatici degli altri due.

Alla fine, quando realizzo che lui è lì in veste di aspirante docente, che fra qualche tempo poterebbe essere un mio collega, esclamo: “Oddio, come sono vecchia …”. Lui sorride ma non ha il coraggio di smentirmi. Eh, sì che sono vecchia, accidenti. Però poi ci rifletto su e aggiungo: “Ma se non hai fatto fatica a riconoscermi significa che almeno sono invecchiata bene”. 🙂

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: REGALARE LE FERIE A CHI NE HA BISOGNO

rossella cioniniUn disegno di legge sul job act, che nei prossimi giorni passerà il vaglio della commissione Lavoro in Senato, porta la firma della senatrice della Lega Nord Emanuela Munerato.

Si tratta di una proposta presa in prestito dalla legislazione francese.
La “legge Mathis” prende il nome di un bambino ammalato di tumore la cui vicenda ha commosso la Francia. I colleghi del padre di Mathis, dopo l’ennesima ricaduta del bimbo, hanno rinunciato alle proprie ferie in favore dell’amico, consentendogli di rimanere accanto al figlioletto fino all’ultimo giorno di vita, senza perdere nemmeno un giorno di lavoro. Prendendo spunto da questa vicenda, la Francia ha varato la legge che consente ai lavoratori di regalare i propri giorni di ferie o di permesso ai colleghi che ne hanno bisogno.

Esiste un caso analogo anche in Italia, pur in assenza di una legge ad hoc.
La signora Rossella Cionini lavora per la Ctt, azienda del servizio pubblico toscano. Dopo aver subito alcuni interventi chirurgici e fatto le relative terapie, aveva esaurito i giorni a disposizione e avrebbe rischiato di perdere il lavoro per poter continuare a curarsi. I colleghi hanno, quindi, chiesto all’azienda di poter donare le loro ferie a Rossella. L’azienda ha permesso ai dipendenti, che ne avevano fatto richiesta, di rinunciare ad un giorno delle proprie ferie in favore della Cionini, che si è vista così recapitare un bonus di 250 giorni – non tutti utilizzati – con il quale ha potuto continuare le sue cure.

«Per me sono stati degli angeli custodi – ha raccontato Rossella Cionini parlando dei suoi colleghi -, sapevo che si stavano muovendo ma quando ho ricevuto la telefonata di un collega che mi informava del gesto ho cominciato a piangere».

«È uno strumento che abbiamo utilizzato – conferma Riccardo Gennari della Cisl -, si tratta delle festività soppresse che il lavoratore può anche farsi pagare».

Ora questo gesto di solidarietà potrebbe diventare legge. Speriamo che per una buona causa come questa si possano superare le barriere di partito, arrivando ad un sì unanime.

[fonti: ilsalvagente.it e familyidea.it; immagine da Il Mattino]

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LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

CREDI DI AVERMI MESSA A FUOCO? LE SOLUZIONI E … UN PO’ DI ME

premio vero falso
Come promesso, riporto le soluzioni al “gioco”.

1. Quando sono nata, a Trieste soffiava una bora fortissima VERO
Qualcuno ha scritto che dipende dalla stagione, che è troppo scontato o che la bora a Trieste non è poi così frequente. Dico subito che la bora non ha stagione, c’è sempre. E’ vero che negli ultimi anni si è molto attenuata, nel senso che non sempre le raffiche sono violente come una volta. La bora legata alla mia nascita è, però, in un cero senso un fatto curioso.
Sono nata l’11 ottobre. Quando mia mamma è stata colta dalle doglie, sembrava piena estate. Indossava un abito leggero e sandali senza calze, praticamente un abbigliamento tipicamente estivo. Era talmente abbronzata che in ospedale le hanno fatto i complimenti, anche se in quella circostanza non credo le interessassero più di tanto.
Sono nata nel cuore della notte (alle 3 e mezza, credo) e proprio a partire dalla serata del 10 ottobre il tempo è cambiato: praticamente in una sola notte si è passati dall’estate all’autunno inoltrato. Mio papà, quando da ragazza mi arrabbiavo e andavo spesso su di giri, mi diceva che si vedeva che ero nata in una notte di bora, che sembravo io stessa un refolo di bora.

2. Da piccola ero allergica alle fragole VERO
Io le adoravo (e le adoro) ma mi facevano venire l’orticaria. Fortunatamente l’allergia se n’è andata com’era venuta e ora posso tranquillamente mangiarle … meglio se con una bella spruzzata di panna. 🙂

3. Vado pazza per il risotto alla milanese FALSO
Per carità, odio il sapore dello zafferano! Eppure i risotti sono la mia specialità culinaria e uno dei primi piatti che prediligo. Li preparo con tutto, carne, pesce, verdure ma lo zafferano no!

4. Ho preparato la prima torta a 12 anni VERO
Fin da piccola passavo ore a guardare mio papà o mia nonna mentre cucinavano (mia mamma, invece, non è una cuoca provetta) ma non li ho mai visti preparare una torta. Be’, mi sono detta, manca una pasticcera in questa casa!

5. Pur avendo sempre sentito la vocazione per l’insegnamento, per un certo periodo ho pensato che mi sarebbe piaciuto studiare medicina FALSO
Io ho sempre avuto paura dei medici, il mio pediatra, detto “testa d’uovo” per la forma del capo, mi terrorizzava. In più la vista del sangue mi ha sempre spaventata sicché non mi è mai passata per la mente l’idea di diventare medico.

6. I miei genitori volevano che facessi l’avvocato VERO
Ma non, come osserva Diemme, perché la maggior parte dei genitori sogna il figlio avvocato o come dice Alberto ci sia un avvocato in famiglia (papà, nonno ?). Semplicemente perché i miei genitori sono degli assicuratori e mi avrebbero trovato un posto sicuro e ben remunerato. Ora come ora mi sto chiedendo perché mai io non li abbia ascoltati. 😦

7. Indosso sempre scarpe con il tacco a spillo FALSO
Mi piacerebbe molto (il tacco alto e a spillo slancia che è un piacere e rende la figura più longilinea 😉 ) ma purtroppo i miei piedi detestano i tacchi. Eppure fino al mio matrimonio, proprio perché mio marito ha la bella altezza di 195 cm (forse ora 192, si è un po’ ingobbito con l’età 🙂 ) portavo i tacchi alti. Mi sono sposata con il tacco 12, per dire, e le scarpe le ho tenute addosso per quasi 12 ore senza soffrire. Altri tempi!

8. Odio indossare i jeans FALSO
E qui devo fare i complimenti ad Alberto che ricordava un mio post. Infatti, nella parte del suo commento che ho tagliato per non aiutare gli altri, ha riportato ciò che avevo scritto: “Non sono più la ragazzina viziata che faceva fare chilometri ai genitori per poter acquistare, prevalentemente in Veneto, i jeans Fiorucci, i preferiti. Ma quei pantaloni tanto amati occupano sempre lo spazio privilegiato nel mio guardaroba” (19/5/12). Bravo!
Grazie a Diemme per col tuo fisico i jeans sono una manna, spero per te che non li odi. Troppo buona!

9. Ho una sfrenata passione per gli anelli VERO
Non è solo passione, è una vera e propria mania. Io comprerei anelli tutti i giorni. Fortunatamente mi trattengo ma se ne vedo uno che mi piace davvero tanto (e che sia abbordabile, non parlo ovviamente di diamanti!), me lo compro. Ecchecaspita, si vive una sola volta, no? Comunque è una mania che mi porto dietro dall’adolescenza: allora ne mettevo uno, o anche più, per dito. Ora ho la mano seria, quella maritale (fede nuziale, veretta d’oro bianco delle nozze d’argento, anello di fidanzamento e trilogy regalatomi dal marito per i 25 anni, il tutto sull’anulare), ovviamente la sinistra, e quella informale, la destra, in cui indosso gli anelli più strani, sia sull’anulare sia sul medio. A volte anche decisamente voluminosi.
Mi spiace contraddire Alberto ma non si scrive male alla lavagna con troppi bijoux, semplicemente non scrivo spesso alla lavagna perché sono allergica al gesso. 😦 Per fortuna ora c’è la LIM …

10. Quand’ero assistente in una colonia estiva ho schiaffeggiato una bambina VERO
Brava Diemme ad avere intuito che proprio la veridicità di questa affermazione vi avrebbe stupiti. In qualche modo è andata oltre al semplice intuito dicendo: sono sicura che le hai salvato la vita. Be’, proprio salvato la vita no, ma la situazione era davvero particolare. Mi scuso ma qui devo aprire una lunga (e dolorosa!) parentesi.
Avevo 17 anni e durante l’estate volevo lavorare, per non dipendere dai miei. Un mio amico mi disse che sua zia era la direttrice di una colonia estiva a Cesenatico e che lui stesso aveva già provato l’esperienza di assistente. Da sola non ci sarei mai andata così mi ha accompagnato una mia compagna di liceo (una delle tre grazie, per intenderci!).
Mi fu affidata la “squadra” di bambine dai 6 ai 10 anni. Non sto qui a raccontare la pesantezza di quelle tre settimane che mi sembrarono 3 mesi. Vi dico solo che è stata un’esperienza terribile, specie perché la zia-direttrice del mio amico era, secondo me, la signorina Rottermaier che dai monti è scesa al mare per cercare un clima diverso e più persone da tormentare. Io fui la Heidi della situazione. 😦
A parte questo, nella mia squadra c’era una bimba di soli 5 anni perché i genitori volevano che stesse assieme alla sorella più grande. Fatto sta che quella era una vera peste. Si chiamava Pasqualina, e ho detto tutto. Sarà stata lei felice come una Pasqua, più piccola ovvero a sua misura, ma sembrava nata per rendere infelice me. Io avrei dovuto badare solo a lei e non alle, udite udite, altre 29 compagnette. Sì, 30 bambine affidate ad una sola persona giorno e notte, per di più minorenne. Altri tempi.
Insomma, la cara Pasqualina, oltre a farmi correre su e giù per la spiaggia di giorno, aveva deciso di non farmi dormire la notte. Lei non voleva dormire nel suo letto, preferiva il mio che era un letto singolo, scomodissimo, separato dal resto della camerata da una tenda. In piena notte vedevo il suo visino che sbucava dalla tenda, mi alzavo e la riportavo a letto dicendo che non poteva dormire con me, che in due saremmo state strette e che il suo letto era molto più comodo. Questo succedeva più volte, poi mi addormentavo stremata e la mattina dopo mi ritrovavo in “dolce” compagnia.
Ero rassegnata. Poi accadde una cosa che mi sconvolse letteralmente: venni a sapere che Pasqualina aveva i pidocchi. Aiutooooo!!! Ancora adesso non sopporto l’odore dell’aceto, tanto ne usai per lavarmi ogni giorno i capelli. Li avevo lisci e brillanti ma accuratamente avvolti in un foulard di seta. Sembravo una di quelle dive anni ’50 che popolavano i boulevard di Cannes. Peccato che Cesenatico non fosse Cannes e che io non mi sentissi affatto diva. Ero una derelitta, mi ero pure abbassata a scrivere un’accorata lettera a mia mamma. Io e lei quella volta a mala pena ci parlavamo.
Dopo la scoperta che dei poco simpatici animaletti popolavano la testa di Pasqualina, il mio rifiuto di dormire con lei fu categorico. Una notte, però, iniziò a urlare come una pazza, a piangere a dirotto, una scena isterica, con tanto di apnea e volto cianotico. Le tirai due ceffoni, per salvarle la vita, in un certo senso, ma soprattutto per prendermi una soddisfazione. Erano altri tempi, non mi beccai una denuncia, come accadrebbe ora. Mi beccai, però, due ceffoni dalla signorina Rottermeir in versione balneare. Ciò provocò una irrimediabile e insanabile rottura tra di noi. Il che significò per me passare il resto del tempo a maledire il momento in cui avevo accettato questo lavoro.
Certamente mi resi conto di aver fatto una cosa orribile. Però da madre, quando fui costretta ad affrontare gli spasmi affettivi del mio secondogenito, compresi che i due schiaffi mollati a Pasqualina furono davvero la soluzione ideale.

Ecco, questo è tutto. Come potete vedere, al di là delle soluzioni al giochino, ho raccontato delle cose e degli aneddoti che hanno senz’altro contribuito a farmi conoscere meglio.

Insomma, se non mi avete messo a fuoco ora, forse la prossima volta andrà meglio. 😉

TEMPO DI PAGELLE

pagelle ai profGli scrutini si sono ormai conclusi da tempo, i tabelloni con i voti sono stati esposti e gli studenti italiani possono godersi o meno le meritate vacanze. Ci sarà chi esulterà per una promozione inaspettata, chi già si sta pregustando il regalo per una promozione meritata, altri piangeranno sul latte versato (cioè sull’opportunità sprecata di essere promossi), i più grandi stanno meditando su come organizzare lo studio estivo per “saldare” i debiti.

Ora lo so che qualcuno starà pensando che ho sbagliato blog, che quello più adatto a un post del genere è laprofonline. Vero, ma in realtà la pagella di cui sto per parlare non è quella dei ragazzi bensì la mia.

Sono stata valutata. Nel mio liceo gli studenti hanno deciso di mettere i voti ai prof. Nella massima discrezione, beninteso. Ognuno di noi, se interessato, con una e-mail può richiedere la sua valutazione. Nessun tabellone, nessuna pagella ufficiale per noi. Così hanno stabilito, anche contro il parere del Consiglio di Istituto.

Nelle settimane scorse nei corridoi ho sentito dei commenti. C’è qualcuno che s’è preso una bella sfilza di insufficienze in “spiegazione” e “correttezza”. Qualcuno ci ride su, altri si rammaricano. Ma c’è davvero qualcuno che crede nell’onestà e obiettività del giudizio degli studenti? Più volte ho espresso le mie perplessità e la riflessione più recente la trovate in questo post pubblicato sul Corriere.it.

Per quanto mi riguarda, ho ricevuto la sufficienza in “correttezza” (che poi non so nemmeno cosa s’intenda, credo nella valutazione ma non ne sono sicura) e “spiegazione”. So che la valutazione è il risultato della media dei voti totali e questo mi piace meno. Sono consapevole, infatti, che il gradimento di un docente dipende molto dal clima che si è instaurato in classe e nelle mie tre è stato molto diverso.

In seconda, forse per l’esiguo numero di ore (solo 4 di Italiano) e per la giovane età dei ragazzi, il clima è stato piuttosto formale, a volte un po’ freddino. Bravissimi, devo ammetterlo, tutti promossi a giugno con dei voti più che dignitosi. I miei, però, sono stati decisamente più bassi rispetto a quelli dell’area matematico-scientifica. Non per causa mia, sia chiaro, ma per colpa della preparazione scarsissima in Italiano con cui gli allievi arrivano in prima liceo e io in due anni miracoli non ne ho potuti fare.

In quarta il clima è sempre stato buono. Mi sono arrabbiata più volte per il comportamento troppo esuberante di alcuni, ma a parte questo c’è sempre stata la massima collaborazione da parte mia e loro.

In quinta, nonostante i cinque anni passati assieme, purtroppo già a partire dallo scorso anno qualcosa si è incrinato, il nostro rapporto è stato più volte vicino alla rottura completa e non ho mai capito perché. Facendo il confronto con le classi terminali del passato devo ammettere, a malincuore, che il clima in questa classe non è stato dei migliori e ciò di certo non ha agevolato il lavoro, da entrambe le parti. Se state aspettando il solito post di saluto, che non ho negato nemmeno alla quinta del 2011 nonostante il poco tempo passato assieme (solo un anno), dico subito che non ci sarà.

Detto questo, appare evidente che pur essendo io sempre la stessa, il rapporto che si instaura fra docente e discenti può fare la differenza. Certamente la fa in termini di giudizio … mi sa questi ultimi mi hanno abbassato la media. 😦

Al di là di tutto, credo che la valutazione da parte degli studenti, che deve comunque essere presa con le pinze, possa costituire uno stimolo per migliorare. I voti sulla “disponibilità” e il “rapporto con gli studenti” sono decisamente migliori (8 e 7) e questo mi rincuora. Per il resto, vedrò di impegnarmi maggiormente per migliorare la “correttezza” e la “spiegazione”, anche se mi spiace che in classe nessuno mi abbia mai detto che le mie spiegazioni non sono brillanti e che la correttezza non è una delle doti migliori che possiedo.

[immagine da questo sito]