SAPRI E LA SPIGOLATRICE OSÉ

Da giorni sul web si discute sulla statua che l’artista Emanuele Stifano ha dedicato alla spigolatrice della città campana resa famosa dalla poesia di Luigi Mercantini, una delle più significative nell’ambito della produzione dedicata al Risorgimento italiano.

Immagine da questo sito: newsonline.it h

Quelli della mia generazione hanno sicuramente studiato a memoria La spigolatrice di Sapri, probabilmente senza nemmeno conoscere il significato del termine “spigolatrice” e forse senza capire il messaggio che il poeta Mercantini ha voluto trasmettere con i suoi versi (per leggere il mio commento alla poesia CLICCA QUI).

Come ha ben spiegato il prof. Francesco Sabatini stamattina nel suo intervento a “Uno mattina in famiglia” (Rai1) all’interno della rubrica “Pronto soccorso linguistico”, le spigolatrici erano delle donne che andavano nei campi a raccogliere le spighe rimaste sul terreno dopo la mietitura. Si trattava di donne povere, a volte anche bambine, che non svolgevano un mestiere vero e proprio quanto piuttosto un’attività che garantiva loro e alle famiglie un minimo di sopravvivenza. Non era nemmeno un atto di rapina in quanto le povere donne chiedevano ai proprietari terrieri il permesso di “spigolare”. Non tutti i proprietari, tuttavia, erano così benevoli: alcuni, infatti, proprio per evitare che le spigolatrici procedessero alla loro raccolta “illecita”, facevano bruciare le stoppie nei campi in cui era già avvenuta la mietitura, misura che talvolta veniva ignorata dalle donne che si avventuravano nei campi fumanti sperando che qualche spiga fosse scampata al rogo.

Come si evince dal ritratto di Jean-François Millet, le spigolatrici indossavano calzature comode, gonne ampie e lunghe e un grembiule provvisto di una grande tasca in cui riponevano le spighe raccolte.

“Le spigolatrici” di Jean-François Millet (Musée d’Orsay di Parigi)

Spostiamo, quindi, l’attenzione sulla statua che da pochi giorni fa bella mostra di sé nella piazza della cittadina in provincia di Salerno (vedi foto in alto). Una ragazza giovane e bella, dalle forme provocanti, con lo sguardo rivolto verso il mare a rappresentare la spigolatrice di Sapri che effettivamente interruppe il suo “lavoro” non appena vide i “trecento” (numero certamente iperbolico) sbarcare sulla spiaggia tirrenica, rimanendo folgorata dal capo della spedizione Carlo Pisacane.

Nelle fotografie apparse su tutti i giornali vediamo in primo piano il retro della statua: sotto un abito sottile e trasparente viene messo in evidenza un lato B degno di una ragazza che dedica il suo tempo a “scolpire” il corpo con ore e ore di palestra. Ora, senza voler condannare l’opera artistica, è abbastanza evidente che il quel monumento non c’è nulla di realistico (specie se facciamo il confronto con la celebre opera di Millet). Come ha osservato il prof. Sabatini stamattina in trasmissione, non c’è nulla che richiami il suo “lavoro”. A dire il vero, se osserviamo la statua dalla parte anteriore, possiamo notare un’esile spiga che la fanciulla trattiene leggiadramente con il braccio destro. Una sola spiga: o Stifano immagina che la ragazza fosse particolarmente sfortunata oppure la presenza dello scarsissimo frutto del suo lavoro è dovuto al fatto che l’arrivo dei “trecento giovani e forti” l’avesse distolta dalla spigolatura. Propenderei per la seconda.

I piedi nudi della spigolatrice poggiano lievemente su un sasso. Nulla di più inappropriato considerando che camminare senza protezione sui campi che hanno subito la mietitura non è come trovarsi a passeggiare su dei petali di rose. Dettaglio in pieno contrasto con l’utilizzo di scarpe robuste da parte delle donne che andavano a spigolare, attività che, protraendosi fino agli anni Sessanta del Novecento, è stata immortalata anche nelle fotografie.

Foto di Enzo Di Giorgio (LINK)

Al di là delle polemiche sorte pure in ambito politico (l’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha definito l’opera offensiva e sessista), a me sembra che la statua sia semplicemente fuori luogo. C’è chi ha apprezzato la scelta di Stifano nel riprodurre una delle caratteristiche tipiche delle statue della dea Venere (“callipigia”, epiteto che significa “dalle belle natiche”), ma stiamo pur sempre parlando di una povera donna mortale, che conduceva una vita di stenti. Insomma, mi pare che la spigolatrice abbia poco in comune con una dea e poi, volendo essere pignoli, la Venere di Botticelli che nasce dalla schiuma del mare non ha proprio delle belle forme e nemmeno sprizza sensualità da tutti i pori. Essendo poi ritratta di fronte, non ci è dato sapere come Botticelli immaginasse il suo lato B…

Immagine da questo sito: glistatigenerali.com

Lascio comunque la parola all’autore che descrive così il prodotto della sua arte:

«La statua rappresenta una donna giovane e fiera, ho curato ogni minimo dettaglio perché la mia spigolatrice vuole essere una ragazza sicura di sé che è attratta dalla forza del mare alle sue spalle e si innamora di un giovane (Carlo Pisacane, ndr) e di un ideale. Tanto da lasciare il lavoro nei campi…Insomma è molto più di una contadinella stanca e sfatta come qualcuno avrebbe voluto, è un risveglio di coscienza il suo, la fisicità quindi è parte del pathos del momento che raccontato». (LINK della fonte)

Apprezzo il tentativo di difendere la sua “creatura” ma posso dire che le parole di Stifano non mi hanno convinta. A me la statua non piace, la trovo poco realistica, come ho già detto, e inopportuna. Non la ritengo, invece, offensiva nei confronti delle donne perché il punto non è la sua rappresentazione artistica ma il suo essere nella vita reale. Forse potrebbero sentirsi offese le eredi della vere spigolatrici, se ce ne sono e se conoscono i dettagli della dura vita delle loro nonne e bisnonne.

Come brutalmente si chiede Eduardo Cicelyn nell’incipit di un suo commento apparso sul Corriere (LINK):

«È davvero una questione di culo?»

Io direi di no. E voi cosa ne pensate?  

RAPA NUI: L’ISOLA DOVE È SEMPRE… PASQUA


Fin da piccola ero affascinata da quest’isola che probabilmente sarebbe rimasta ignota ai più se non fosse per quelle statue di pietra vulcanica che sembrano sorvegliare l’entroterra dal litorale, perlopiù dando le spalle all’oceano: i Moai. Solo sette hanno lo sguardo rivolto all’orizzonte blu dell’oceano Pacifico.

Alte tra i cinque e i dieci metri, abitano l’isola a decine. Una popolazione silenziosa e imperitura che forse ha il compito – o l’aveva quando questi particolari busti monolitici furono eretti – di contenere l’anima dei defunti che continuano a proteggere gli abitanti dei villaggi situati in riva all’oceano Pacifico. Le sette statue “controcorrente” probabilmente racchiudono gli spiriti dei guerrieri che Hotu_Matu’a, primo colonizzatore e ariki mau (“capo supremo” o “re”) dell’Isola di Pasqua nonché antenato dei Rapa Nui, aveva inviato a perlustrare il territorio.

I polinesiani giunsero la prima volta a Rapa Nui, che significa Grande Isola, tra il 300 e l’800. Sbarcarono sulla spiaggia di Anakena colonizzando l’isola e dividendosi in clan a seconda del figlio da cui discendevano. Per oltre 1000 anni vissero isolati sull’isola posta all’estremità sudorientale del triangolo polinesiano.
Leggende a parte, secondo alcuni studiosi in realtà l’isola non fu abitata prima del 1000-1200 e si presentava come un’immensa distesa verde, costituita perlopiù da foreste di palme. Il primo ad avvistarla fu presumibilmente il pirata Edward Davis, nel 1687. Non vi attraccò poiché non comprese che si trattasse di un’isola sperduta nel Pacifico ma ritenne di aver individuato la parte più meridionale del continente.

Quel che è certo è che questa terra fu battezzata con il nome “isola di Pasqua” nel XVIII secolo: infatti, l’olandese Jakob Roggeveen vi sbarcò la domenica di Pasqua del 1722. Dopo una lunga contesa tra olandesi e spagnoli per il predominio del Pacifico meridionale, Rapa Nui passò sotto la corona di Spagna. L’allora governatore spagnolo del Cile e viceré del Perù, Manuel de Amat y Junient ordinò a Don Felipe Gonzales de Haedo di annettere l’Isola di Pasqua ai territori spagnoli. Gonzales raggiunse l’isola nel novembre del 1770, la denominò San Carlos, cambiandone il nome, e fece erigere in segno della conquista varie croci su tutta l’isola. Negli anni a seguire però la corona spagnola, non trovando in quest’isola sperduta alcunché di interessante e proficuo, non inviò più altre spedizioni perdendo di fatto la sovranità su di essa.

La maggior parte delle informazioni su questo territorio le dobbiamo agli inglesi. James Cook sbarcò sull’Isola di Pasqua il 14 marzo 1774, vi rimase due giorni e si rese conto che quel breve periodo non sarebbe stato sufficiente per carpire tutti i segreti dell’isola. Tuttavia, la ritenne di scarso interesse e ripartì, annotando sul suo diario di bordo che solo poche isole in tutto il Pacifico erano più inospitali di questa.

Al seguito del capitano Cook, però, c’erano due naturalisti, Johann Reinhold Forster e suo figlio Reinhold. A loro si deve la maggior parte delle conoscenze che abbiamo sull’isola. Grazie al loro contributo fu elaborata una prima carta geografica che riportava i siti archeologici maggiori. Inoltre, in soli due giorni furono fatti più schizzi di Moai di quanti non ne siano stati fatti nei seguenti cinquant’anni, permettendo al pubblico europeo di ammirare per la prima volta nella storia tali opere in mostre appositamente predisposte in tutta Europa.

Oggi si sa che i Moai furono scolpiti nel cratere del vulcano più grande dei tre presenti sull’isola. Il trasporto dovette essere molto impegnativo e ingegnoso e di ciò si occuparono in tempi recenti Terry Hunt e Carl Lipo. Nel 2012 i due archeologi facevano parte di una spedizione organizzata dal National Geographic che ebbe il compito di svelare i misteri di queste statue presenti sull’Isola di Pasqua. Se ne contano circa un migliaio e, sebbene gli abitanti sostengano che i Moai camminassero spinti dagli spiriti dei defunti per raggiungere ognuno la propria destinazione, Hunt e Lipo scoprirono che i monoliti erano stati spostati grazie al lavoro di almeno 18 uomini per statua, con l’aiuto di corde. Probabilmente il trasporto avvenne per mezzo di grossi tronchi e forse per questo, quando Jakob Roggeveen vi sbarcò la domenica di Pasqua del 1722, l’isola si presentò ai suoi occhi quasi interamente disboscata.

Ora è meta di numerosi turisti che possono ammirare i Moai. Uno di essi li attende alle spalle dell’aeroporto e, con lo sguardo severo, sembra indicare la strada per un’avventura straordinaria attraverso altri misteri da risolvere.

[FONTI: wiki/Isola_di_Pasqua; storie.it; wiki/Hotu_Matu’a. Immagine sotto il titolo da questo sito; immagine aeroporto da questo sito; immagine geografica da questo sito]

P.S. Lo so, non è proprio un post pasquale ma mi piaceva proporre qualcosa di diverso con queste curiosità.

AUGURO A TUTTI 

IMMAGINE DA QUESTO SITO

LIBRI: “FLORILEGIO” di SELMA MEERBAUM-EISINGER (a cura di FRANCESCA PAOLINO)

florilegio

Francesca Paolino, autrice della biografia della giovane poetessa vittima dell’Olocausto, ha curato anche l’edizione delle poesie di Selma Meerbaum-Eisinger uscita nel 2015. Nella dettagliata introduzione, la curatrice spiega come la raccolta di poesie della ragazza sia giunta fino a noi, attraverso vicende definite rocambolesche.
L’artigianale quadernetto con la copertina floreale (la stessa che compare nella copertina della raccolta edita da Forme Libere) fu affidato, nell’inverno 1941-42, poco prima della deportazione di Selma in Transnistria, ad un uomo sconosciuto che ebbe l’incarico di consegnarlo alla amica Else Keren. L’anonimo ambasciatore recapitò l’oggetto con le seguenti parole: Devo darle questo da parte di Selma. Me lo ha dato di nascosto stamattina, quando l’hanno portata via con i genitori. Abbia la cortesia di inoltrarlo a Fichman, l’amico di Selma.

Leiser Fichman, però, una volta ricevuto il prezioso dono, decise di fuggire dal campo di lavoro in cui si trovava alla volta del Mar Nero e, temendo di perderlo durante il viaggio avventuroso, preferì consegnare nuovamente il quadernetto ad Else. Era il 1944 e la ragazza, scampata alle deportazioni, a sua volta cedette l’album con le poesie alla migliore amica di Selma, Reneé Abramovici-Micaeli la quale lo portò con sé in un lungo viaggio attraverso la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, l’Austria e la Germania, sino all’arrivo in Israele nel 1948.

Il piccolo tesoro rimase nascosto per un ventennio, complice anche il silenzio che dopo la Seconda Guerra Mondiale era calato sui lager, la deportazione e lo sterminio degli ebrei. Verso la fine degli anni Sessanta, il professore di matematica di Selma, Hersch Segal, colpito da un’antologia che raccoglieva dei versi sul tema dell’Olocausto (Un mosaico di destini…, pubblicata a Berlino Est nel 1968), fra cui anche Poema della Meerabum-Eisinger, cercò le vecchie allieve e riuscì a rintracciare in Israele Reneé. La donna custodiva ancora come un tesoro l’album di Selma e, grazie anche all’interessamento di Segal, la raccolta fu pubblicata in un’edizione privata in Germania nel 1976. Nel 1979 vide la luce la prima edizione pubblica di Blütenlese a cura dell’Università di Tel Aviv.
L’album originale, in cui la giovane poetessa aveva copiato a mano le sue liriche, è oggi conservato a Gerusalemme presso lo Yad Vashem, il Memoriale dei martiri e degli eroi dell’Olocausto.

Nel manoscritto, le poesie sono trascritte in corsivo, con inchiostro nero, e la grafia è piccola e ordinata. Il corpo delle composizioni è centrato sulla pagina, con i titoli per lo più leggermente spostati verso il margine sinistro dei fogli.
La raccolta è composta da 57 liriche in tedesco – di cui 52 originali della giovane poetessa – tre testi in yiddish, due poesie di Paul Verlaine scritte in francese come da originale e una lirica in rumeno di Discipol Minhea. Nella prima parte di Florilegio le poesie sono suddivise nei seguenti capitoli: Fiori di Melo, Lillà scuri, Morelle, Garofani rossi, Astri, Vessilli, Orchidee Esotiche; la seconda parte è suddivisa in: Fiori di tè, Crisantemi bianchi, Papaveri Selvatici, Papaveri da Oppio. La prima poesia del manoscritto, Canto, è a sé stante e fu scritta il 25 dicembre 1939. Selma aveva inoltre scelto di intervallare con immagini di dipinti famosi i propri componimenti.

La poesia che nel manoscritto risulta essere la più “antica” (35esima nell’ordine di copiatura) risale al maggio-giugno 1939, mentre l’ultima (46esima nell’album) è datata 24 dicembre 1941. Secondo l’amica Reneé, Selma avrebbe composto molti altri testi poetici – spesso ne scriveva quattro o cinque nello stesso giorno – e l’album conterrebbe una selezione di componimenti.

Sulla prima pagina spicca la dedica al ragazzo di cui era innamorata: Con amore a Leiser Fichman, come ricordo e ringraziamento per tanta indimenticabile bellezza

manoscritto_poesie

Nell’introduzione di Florilegio, Francesca Paolino riporta anche svariate notizie sulla pubblicazione del 1968, curata da Heinz Seydel, che include un’ampia selezione di testi, poesie scritte nella notte fascista, circondate dal gelido soffio dell’orrore: quali parole gridate nel freddo! (pag. 15 dell’edizione citata di Florilegio). Il resoconto continua, quindi, con l’edizione privata del 1976 e quella pubblica del 1979. Infine, le poesie spurie, testi che in un primo tempo erano stati attribuiti a Selma, scritti in lingua inglese presumibilmente durante il periodo di prigionia. Cosa che a priori non appare strana: la ragazza viveva in un ambiente poliglotta e nello stesso campo di lavoro in Transnistria era detenuto il professor Henner, un insegnante di inglese che aveva portato con sé una grammatica di lingua inglese e una di italiano per dimenticare con lo studio l’amarezza e l’orrore quotidiani. (pag. 36) Tuttavia, Paolino propende per l’attribuzione di “maternità” a Else Keren, l’amica con cui Selma condivise l’amore per i versi.

Interessante, a mio parere, è la riflessione della curatrice circa il parallelo che nell’edizione miscellanea del ’68 era stato tracciato fra Selma e Anne Frank, confronto poi scomparso nell’edizione pubblica di Florilegio del 1979. Come osserva correttamente Paolino, il confronto nasce spontaneo considerando la giovane età delle due vittime della Shoah, ma le personalità sono differenti:

In Anne Frank non troviamo la prontezza di Selma a gettarsi nella mischia, quel coraggio nel non evitare lo scontro, ma anzi nell’aspettarselo fermamente, né percepiamo la “profondità di sentimento e pensiero” e la “stupefacente maturità” dell’agonismo meerbaumiano, la caparbietà e l’intraprendenza della giovane poetessa. […] Entrambe manifestano un grande amore per la natura e hanno lasciato parole di gratitudine per la consolazione derivante dalla sua contemplazione, ma se Selma ama porsi come interlocutore del creato, presenza viva e attiva tra piante e animali, la più timida Anne sente, osservando il cielo da una finestra, tutta la propria piccolezza. (pagg. 26-27 dell’edizione citata)

C’è un altro motivo per cui la scrittrice ritiene non del tutto calzante il parallelo tra le due giovani: Anne aveva scritto il suo Diario durante il periodo trascorso nel nascondiglio, in una condizione limite, mentre le poesie che Selma aveva composto risalgono anche al periodo precedente l’occupazione di Czernowitz e la sua deportazione. Se il quadernetto dalla copertina floreale è arrivato fino a noi, esso raccoglie i testi già composti e trascritti e nessuno scritto autografo abbiamo di Selma risalente al suo internamento a Michajlovka, se non la lettera che Frieda Eisinger ritrovò nel cappotto della figlia e la lettera inviata nel luglio 1942 e miracolosamente pervenuta all’amica Renee Abramovici-Michaeli, anche lei internata in un differente campo in Transnistria.

Sicuramente i versi composti durante gli anni difficili, in cui ogni certezza sembrava svanita, ogni sogno destinato ad infrangersi sulla sagoma appuntita del filo spinato, spine conficcate direttamente nel cuore di una giovane innamorata, soprattutto della vita, trasmettono dolore e consapevolezza che nulla potrà essere come prima.

Mi cullo e continuo a cullarmi
coi sogni al mattino e alla sera
e bevo lo stesso vino drogato
di chi dorme quando è ben sveglio.

Io canto, mi canto una canzone,
canzone di gioia e speranza,
la canto come chi va ma non vede
che non potrà più ritornare.

Io dico e mi dico e ridico una voce,
diceria d’una storia d’amore,
la dico a me stessa e più non le credo,
perché so: non avrà lieto fine.

Io suono, mi suono e risuono il motivo
dei giorni che sono passati,
e mi sbarazzo della verità
e fingo di essere cieca.

Io rido e rido ancora e me la rido
di questo mio giocare.
E invento intricate trame di sogni
che non hanno meta
.
(Ninna nanna per me, Gennaio 1941, da Florilegio, edizione citata, pagg. 104-105)

UNA BIONDA SEMPRE DISPONIBILE… MEGLIO SE GHIACCIATA: LA BIRRA

peroniA metà degli anni Sessanta un famosissimo spot rilanciava il consumo della birra, che come vedremo affonda le sue radici nell’antichità, grazie alla sensualità, non volgare ma molto accattivante, di una modella bionda (negli anni seguenti sostituita da altre bellezze nordiche) che rivolgeva agli spettatori un ammicante invito: “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”.

Tutt’oggi la birra è una delle bevande più apprezzate – dai giovani forse un po’ troppo, dato che all’alcol si avvicinano precocemente proprio grazie alla bevanda spumeggiante -, tanto che anche i monaci benedettini di Norcia hanno fondato un birrificio per contrastare la crisi.

monaciUt laetificet cor. Dio ha dato il pane all’uomo per rinforzare il cuore e il vino per allietarlo. Il salmo 103 recita più o meno così. «Solo che noi al posto del vino preferiamo la birra». Frate Agostino Wilmeth, 23enne originario del South Carolina, è uno dei monaci benedettini di Norcia e così spiega la nascita del birrificio di cui è il manager. Birra Nursia è nata nel 2012 da un’idea di alcuni frati che, per sostenere le spese dell’abbazia, hanno pensato di far rientrare in quel labora della regola di San Benedetto anche la lavorazione di malto e luppolo. (QUI potete leggere un reportage completo).

Un ritorno al passato se consideriamo che nel Medioevo proprio ai monaci fu affidato il compito di preservare dall’oblio l’arte di fare birra. Esattamente come negli scriptoria gli zelanti amanuensi vestiti con l’umile saio copiavano diligentemente e con notevole arte i manoscritti dell’epoca classica.

monaci-birraFurono proprio i monaci ad introdurre precise regole igieniche e tecnologiche: il luppolo è usato come aromatizzante per la prima volta al posto di tante spezie, piante officinali e bacche.
Ma le origini della birra ci riportano nella fertile Mesopotamia, una delle terre della cosiddetta mezzaluna, dove 4500 anni fa si coltivava l’orzo, il cereale dalla cui fermentazione si ricava la bevanda bionda.

Probabilmente la sua nascita è dovuta all’abitudine di conservare i cereali nell’acqua, un ambiente favorevole per innescare i processi di maltazione e poi di fermentazione. Presso i Sumeri, ogni persona, in base al censo, aveva diritto giornalmente ad una certa quantità e qualità di birra: dai due litri di birra chiara per gli operai ai cinque litri di birra pregiata per i governatori.

I Babilonesi ne conoscevano almeno venti varietà e, fedeli al detto occhio per occhio…, punivano chi annacquava la birra destinata alla vendita con l’annegamento del colpevole nella bevanda stessa.
In breve, l’arte del produrre la birra raggiunse gli Egizi che a loro volta la fecero conoscere ai Greci, agli Ebrei, agli Etruschi e ai Celti, mentre i Romani, che pur la conoscevano (personaggi illustri come Cesare, Augusto e Nerone ne appezzarono le qualità) preferivano il vino considerato bevanda più “civile”.

birra spot inglese

Nel XIII secolo Suor Hilgedard von Bingen, botanica dell’Abbazia di St. Rupert in Germania, scoprì che il luppolo aveva anche proprietà conservanti, oltre al fatto che donasse alla bevanda il tipico aroma. Sempre in Germania nacque la figura del mastro birraio, assieme alle scuole di formazione di questa figura professionale, ma furono soprattutto gli Inglesi ad apprezzarne l’aroma e a diffonderne il consumo, tanto che già nel 1300 in Inghilterra i tipici pub proliferavano, non senza pagarne le conseguenze: i governanti, infatti, ben presto imposero le tasse sulla birra. Nello stesso tempo la sua diffusione fu incoraggiata per questioni igieniche, dato che per ottenere la birra l’acqua doveva essere bollita e quindi era sterilizzata.
Va detto che gli inglesi si opposero a lungo al luppolo come aromatizzante canonico della birra. Da qui nasce la distinzione tra la tradizionale “ale” e la “beer” contenente il luppolo.
Nel XVI secolo vennero emanati editti sulla produzione della tipica bevanda, tra cui il famoso “editto sulla purezza” del 1516 che codifica in modo definitivo gli ingredienti della birra: malto d’orzo, luppolo ed acqua.

In Italia la birra, chiamata “cervogia” (parola facilmente accostabile, a livello fonetico, allo spagnolo cerveza che deve la sua origine al nome romano della dea Ceres la quale a sua volta “regala” la radice alla parola “cereale”) continuò ad essere apprezzata ad ogni livello sociale durante la dominazione longobarda. Nel Basso Medioevo il consumo crebbe soprattutto nel nord Italia tra le classi abbienti, ma era appannaggio quasi esclusivo degli uomini, poiché per le donne l’assunzione poteva avvenire solo sotto controllo medico. Si trattava, tuttavia, sempre di un prodotto di importazione, dato che sul territorio nazionale ancora non se ne produceva.

Nel nostro Paese la prima fabbrica di birra fu aperta nel 1789 a Nizza (allora territorio piemontese) da Giovanni Baldassarre Ketter. Un secolo dopo le fabbriche erano già 140 (tutte dislocate nel nord Italia) per una produzione pari a 161.000 hl; nel 1910 la produzione è quasi quadruplicata (598.000 hl).

Still life with a keg of beer and hops.
Still life with a keg of beer and hops.

La birra prodotta fino al secolo scorso era sempre ottenuta mediante la fermentazione alta, ma nell’Ottocento, grazie anche agli studi di E.C. Hansen che isolò il saccharomyces carlsbergensis, oggi il lievito più usato per far fermentare il malto, fu possibile l’introduzione della bassa fermentazione. Di seguito, l’utilizzo dell’impianto frigorifero nella produzione permise di produrre birra secondo il metodo lager (che richiede temperature di 4-10 °C) anche nella stagione estiva, procedimento tutt’oggi largamente usato. A ciò si aggiunge la scoperta della pastorizzazione, grazie agli studi di Louis Pasteur (Étude sûr la bière, 1876) da cui prende il nome, che permette l’eliminazione dei microrganismi oggi indispensabile nella preparazione delle bevande.

dreherNel primo dopoguerra assistiamo al consolidamento di quelle aziende che diventeranno poi protagoniste del mercato italiano come la Wuhrer di Brescia, la Dreher di Trieste, la Peroni, la Moretti di Udine e molte altre industrie che hanno modo di espandersi grazie all’aumento del consumo della bevanda prodotta: già 3,5 litri a testa nel 1925.
La concorrenza sul mercato vinicolo spinge, quindi, i produttori di vino a far approvare varie leggi per contrastare il consumo di birra: la legge Marescalchi del 1927 impone l’utilizzo del 15% di riso, a scapito della qualità; viene introdotto, inoltre, un dazio straordinario di 40 lire per ettolitro e la birra può essere venduta solamente al dettaglio in bar, birrerie e trattorie. In molti comuni il dazio è indicato con l’applicazione di una fascetta sul collo di ogni bottiglia causando perdita di tempo e intralcio ai commercianti.

L’aumento del prezzo, associato anche al secondo periodo bellico che interessa il Novecento, fa diminuire notevolmente il consumo di birra, provocando la crisi di molte industrie. Nel dopoguerra il consumo torna nuovamente a salire e nel 1950 si raggiungono i livelli produttivi del 1925 (1.550.000 hl). Per tutti gli anni Cinquanta comunque la birra è considerata una bevanda dissetante al pari di aranciate e gassose e viene consumata prevalentemente nella stagione estiva. Con gli anni Sessanta, infine, la bevanda color oro s’impone definitivamente tra gli usi alimentari degli italiani. Ecco perché proprio in quel periodo la pubblicità della Peroni furoreggia, donando alla famosa bevanda gialla le fattezze di una bionda mozzafiato, sempre disponibile… meglio se ghiacciata.

[immagine monaco e boccali di birra da questo sito; foto monaci dal sito birranursia.it; immagine Dreher da questo sito; immagine spot inglese da questo sito]

I GIOVANI E LA MAFIA: VIAGGIO IN SICILIA SULLE ORME DELLA LEGALITÀ

no mafia
La mafia, assieme alla Shoah, è uno di quegli argomenti che, nei programmi scolastici, hanno uno spazio limitato ad una sola giornata: il 23 maggio (Giornata della legalità) l’uno, il 27 gennaio (Giornata della Memoria) l’altro. Per il resto dell’anno, eventi come la strage di Capaci – avvenuta il 23 maggio 1992 – e la liberazione dei prigionieri nel campo di sterminio di Auschwitz – avvenuta il 27 gennaio 1945 – possono essere tranquillamente ignorati.

Forse dell’Olocausto, se non altro perché occupa un capitolo nei libri di Storia, qualcosa si dice. Ma della mafia, quando si parla a scuola? Quasi mai, almeno da noi al Nord.

Eppure ci sono scuole, sparse in tutta la penisola, in cui si cerca di avvicinare i giovani a queste realtà scomode. L’educazione civica impone che nelle aule si parli di diritti negati e di legalità. Difficile, però, farlo in tutte le classi e rivolgersi a bambini e ragazzi di ogni età.

Nelle scuole superiori, tuttavia, questi argomenti devono trovare spazio.

Nel mio liceo, ad esempio, ogni anno un gruppo di allievi, provenienti da tutte le classi quarte e quinte, volontariamente aderiscono alla proposta di un viaggio-pellegrinaggio ad Auschwitz. Ne tornano arricchiti a livello culturale ed emotivo, anche se quest’ultimo spesso coincide con uno choc che rende difficile la ripresa della vita di tutti i giorni, allegra e spensierata, immersa nelle comodità di ogni tipo.

Della mafia è molto più difficile parlare, considerando anche che noi stessi docenti dobbiamo ancora imparare molto, prima di salire in cattedra. E cosa c’è di meglio di un viaggio d’istruzione un po’ speciale? Qualcosa che eviti di fare entrare la mafia in classe, come un qualsiasi altro argomento di studio, ma faccia in modo di portare i ragazzi sui luoghi in cui questa piaga ha operato e, ahimè, continua ad operare.

Una delle mie classi quest’anno ha aderito al progetto culturale che da molti anni l’associazione Addiopizzo porta avanti nelle scuole siciliane e no. Attorno ai volontari di questa associazione, che timidamente hanno mosso i primi passi in questa direzione qualche anno fa, è sorta una vera e propria agenzia turistica che propone alle scuole un tour tra Palermo e le località d’interesse culturale più o meno vicine.
Dall’inizio alla fine di questo viaggio gli studenti sono accompagnati dai volontari di Addiopizzo che tengono le loro “lezioni” sui luoghi ancora segnati dall’efferatezza dei crimini mafiosi.

Al loro ritorno, dai resoconti degli allievi ho potuto capire quanto questa esperienza li abbia arricchiti.
Hanno raccontato di essere stati a Capaci e in via D’Amelio, a Brancaccio sulle orme di Padre Pino Puglisi, nei luoghi che Peppino Impastato ha più volte calpestato con i suoi cento e più passi. Ma hanno potuto anche vedere le bellezze del sito archeologico di Agrigento e, proprio nei pressi, varcare l’uscio di quella che fu la casa dello scrittore Pirandello. Hanno assaggiato le prelibatezze siciliane, soprattutto i dolci tipici, ma, per quanto riguarda il salato, non hanno apprezzato particolarmente l’utilizzo generoso dell’aglio (immagino che i più preoccupati fossero i compagni di stanza e le coppie di innamorati) e soprattutto una pasta con i ceci assaggiata – ma per lo più lasciata nel piatto – in un’azienda agricola sorta nei luoghi confiscati alla mafia.

Le foto ricordo li immortalano sulla spiaggia di Mondello, dove hanno cercato di catturare quanto più sole possibile per compensare la primavera piovosa tipica del Nord-Est, ma anche sulla collina di Capaci dove campeggia la scritta “NO MAFIA”.

Hanno imparato che la libertà va conquistata e non considerata semplicemente un diritto.
Hanno capito che la Storia non è solo quella che si studia sui manuali e che l’approccio che avviene attraverso l’anima e il corpo vale molto più di mille parole scritte.

Forse sono troppo giovani per comprendere una cosa così grande fino in fondo ma, come c’insegna Seneca, «ciò che il cuore conosce oggi, la testa comprenderà domani».

[immagine da questo sito]

10 FEBBRAIO 2015: IL GIORNO DEL RICORDO ATTRAVERSO LE PAROLE DI MARISA MADIERI

Marisa_MadieriMarisa Madieri (Fiume 1938 – Trieste 1996), insegnante e scrittrice, moglie del germanista triestino Claudio Magris, raccolse nel suo libro Verde acqua, alcune toccanti pagine di diario – che riguardano gli anni tra 1981 e 1984 – in cui, ormai donna adulta, madre e moglie, rievoca la sua infanzia e adolescenza, segnata dall’esperienza dell’esodo da Fiume, città dov’era nata e in cui aveva vissuto fino a undici anni.

Così descrive il periodo in cui il destino degli Italiani dell’Istria fu segnato dall’esperienza amara dell’esodo:

Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu richiesta l’opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optò per l’Italia e conobbe un anno di emarginazione e persecuzioni. Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsione dell’esodo. Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per aver nascosto due valigie di un perseguitato politico che aveva tentato di espatriare clandestinamente e, catturato, aveva fatto il suo nome. Con la sua consueta ingenuità, il papà si fece cogliere con le mani nel sacco.
Quei mesi di vita sospesa, non più casa e non ancora del tutto altrove, furono da me vissuti con un profondo senso di irrealtà, non con particolare sofferenza. […] E’ così che ricordo la mia Fiume – le sue rive ampie, il santuario di Tersatto in collina, il teatro Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida – una città di familiarità e distacco. Tuttavia quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lontananza, hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici. Per molti anni dopo l’esodo non ho più rivisto la mia città e l’ho quasi dimenticata, ma quando ho avuto l’occasione di passare per Fiume […] ho provato la chiara sensazione di ritornare nella mia verità. […]
Nell’estate del 1949, ottenuto il visto per l’espatrio e dopo una breve visita a papà in carcere, partimmo da Fiume – mia madre, mia sorella, io e la nonna Madieri, già molto anziana e malata di cancro.

silos trieste

Arrivate a Trieste, le donne trovarono rifugio, assieme a molte altre famiglie di profughi, nel Silos (oggi trasformato in un parcheggio), un enorme edificio a tre piani, costruito durante l’impero asburgico come deposito di granaglie. Lo spazio era suddiviso in tanti box in cui venivano ospitati i nuclei familiari. “Entrare nel Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio”, scrive Madieri.

Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti. […] Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale. […] Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino. […] Era orribile spogliarsi la sera e coricarsi tra le lenzuola che sembravano di marmo e ancor più uscire al mattino dal tepore del letto per affrontare l’aria intorno, subito ostile, e l’acqua gelida dei lavandini. Soffrivo di raffreddori e geloni. Quando studiavo e dovevo restare a lungo ferma sui libri, la mamma mi riscaldava dell’acqua, riempiva un catino e lo poneva sotto il tavolo in modo ch’io potessi immergervi i piedi doloranti. […] Imparai ben presto ad estraniarmi completamente da tutto ciò che mi succedeva intorno e a pensare solo ai miei libri.
(M. Madieri, Verde acqua, Einaudi, 1987, passim)

La Madieri riuscì, nonostante tutto, a frequentare il liceo classico Dante Alighieri di Trieste e a laurearsi in Lingue e letterature straniere a Firenze, dove conobbe lo scrittore Claudio Magris, che sposò e da cui ebbe due figli, Francesco e Paolo. Morì a soli 58 anni nel 1996.

Nelle pagine conclusive di Verde acqua, scrive:

Fuori, la notte chiara, frusciante di stelle, custodisce volti e parole che non saprò mai dire. Molta parte della mia storia affonda in questa dolce oscurità, simile forse a quella, grande e buona, che mi accoglierà un giorno nella pace in cui già dimorano mio padre e mia madre.
Ma non provo tristezza, solo gratitudine. Se sono ritornata ad Itaca, se nei lunghi silenzi della mia vita hanno echeggiato per qualche istante le note di un valzer che i pianeti e le stelle, così lucenti stasera, danzano nell’odissea degli spazi, sento di dover ringraziare una folla di persone, anche dimenticate, che, amandomi, o semplicemente standomi accanto con la loro fraterna presenza, non solo mi hanno aiutato a vivere ma, forse, sono la mia vita stessa. (M. Maideri, Verde acqua, 27 novembre 1984)

La storia di Marisa Madieri è solo una delle tante che raccontano l’esodo dei giuliano dalmati.
Ma nel Giorno del Ricordo non possiamo dimenticare l’eccidio che si compì nelle foibe.

CENABIS BENE MI FABULLE … A TAVOLA CON GLI ANTICHI ROMANI

Come mangiavano gli antichi Romani? Le fonti ci danno molte informazioni ma, onestamente, non sembrano prelibatezze culinarie paragonabili a quelle moderne. In fondo, come si usa dire proprio riprendendo un detto latino, de gustibus non est disputandum.
Buona lettura … magari provate qualche ricetta.

Marisa Moles's Weblog


Così inizia il carme 13 di Catullo, famoso poeta latino vissuto nel I secolo a.C. Ecco il testo originale:

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores,
seu quid suavius elegantiusve est:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque;
quod tu cum olfacies, deos rogabis
totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

Famoso lo era davvero, Catullo, ma non tanto per l’attività poetica, quanto per l’amore appassionato che gli ispirò gli indimenticabili versi dedicati a Lesbia. Ma di questo ho già parlato in un altro post. (LINK )
L’attività poetica, a quanto pare, non doveva essere molto redditizia; infatti, al verso 8 del carme…

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PAPA FRANCESCO A REDIPUGLIA, NEL FRIULI TERRA DI SACRARI

papa francesco redipuglia
Molto commovente la cerimonia in ricordo dei caduti della I Guerra Mondiale che si è tenuta sabato mattina a Redipuglia (Gorizia), presieduta da Papa Bergoglio. Nel centenario del primo conflitto mondiale il Santo Padre ha voluto non soltanto ricordare le vittime, il sangue versato per amore della Patria, ma anche lanciare un monito affinché si ponga fine a quella follia chiamata guerra.

State attenti, dice Bergoglio, perché il terzo conflitto mondiale è già tra noi.

«Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni…».

Ora come allora, ancora vittime. E come si fa a non pensare a chi ha perso la vita per difendere la propria terra? Non si può non farlo, trovandosi in un luogo sacro come Redipuglia. Il Sacrario più grande d’Europa, dove riposano più di 100mila caduti, molti dei quali senza nome.

redipuglia

La costruzione del monumento simbolo dei caduti italiani della Grande Guerra ebbe inizio nel 1936 e fu inaugurato da Benito Mussolini il 18 settembre 1938. Una maestosa scala in marmo bianco, proveniente dalla vicina cava di Aurisina, si erge sul monte Sei Busi. Per realizzare il monumento fu necessario scavare la collina con delle cariche di dinamite.
Nei 22 gradoni (alti 2,5 metri e larghi 12) furono traslati i resti di 39.857 caduti identificati; sopra le lastre con nome, cognome e grado militare troneggia la scritta “Presente”. In alto, ai due lati della cappella votiva, ci sono le salme di 60.330 caduti ignoti. In basso, la tomba di Emanuele Filiberto di Savoia – Aosta, comandante della Terza Armata, e le cinque urne dei suoi generali caduti durante i combattimenti.

Con alle spalle il maestoso monumento, che ai tempi della mia infanzia rimaneva acceso durante tutta la notte provocando stupore soprattutto in chi percorreva l’autostrada in direzione di Venezia, Papa Francesco ha celebrato la Messa, alla presenza di molte autorità civili e militari, regionali e nazionali.

Non a caso, tra le letture, è stato scelto il passo della Genesi che parla di Caino e Abele. Non solo il fratricidio. Soprattutto quella frase: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Parole che esprimono l’indifferenza, lontane da quella caritas, l’amore che nulla chiede in cambio, al centro della lettura dal Vangelo Secondo Matteo:

“Lui è nel più piccolo dei fratelli: Lui, il Re, il Giudice del mondo, è l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ammalato, il carcerato… Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: “A me che importa?”, rimane fuori”.

Caino è ancora tra noi e continua ad uccidere. Come scrisse il poeta Quasimodo, all’indomani del secondo conflitto mondiale, nella poesia Uomo del mio tempo:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo
. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
– Andiamo ai campi
. – E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere
,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore
.

Il Carso è stato teatro della Grande Guerra. Redipuglia è certamente il monumento più importante, il più maestoso. Ma non è l’unico in questa terra che è stata bagnata dal sangue di migliaia di soldati e civili.

monte san michele

A pochi chilometri da Redipuglia, sul Monte San Michele, c’è un museo all’aperto dove al posto delle opere d’arte si possono “ammirare” le trincee in cui si combatté per difendere la Patria.
Questi luoghi sono stati designati “monumento nazionale” e sulla sommità del monte si trova un belvedere da cui si gode di un ampio panorama, che ricorda la guerra e i suoi caduti, e un piccolo museo.

Poco lontano, sul medesimo fronte, a San Martino del Carso, ha combattuto anche il poeta Ungaretti che affidò ai suoi versi il compito di descrivere lo strazio del suo cuore:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro.
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
E’ il mio cuore
il paese più straziato
.

sacrario_militare_oslaviaSulle colline sopra Gorizia si trova l’Ossario di Oslavia, costruito nel 1938 sul monte Calvario. Ospita i resti di 57.741 caduti italiani nelle battaglie di Gorizia e Tolmino (ora in Slovenia).
L’Ossario copre un’area triangolare ed è formato da quattro torri, una per ogni vertice della figura, più una centrale. Ognuna di queste custodisce al suo interno i loculi dei caduti identificati, disposti lungo le pareti, per un totale di circa 20 mila nomi, tra cui 138 austro-ungarici. Gli altri 37 mila corpi senza nome (539 di nazionalità non italiana) sono invece tumulati in tre grandi ossari posti al centro delle tre torri laterali.
Tutte le torri inoltre sono collegate tra loro tramite dei tunnel sotterranei e possiedono delle cripte.

tempio ossario udineI caduti della Prima Guerra Mondiale sono ricordati anche a Udine. Poco lontano dal centro cittadino si erge il Tempio Ossario ai Caduti d’Italia, costruito nel 1931 su progetto degli architetti Alessandro Limongelli e Provino Valle.
Sulla facciata si possono ammirare quattro imponenti statue che raffigurano un fante, un aviatore, un alpino ed un soldato della marina. All’interno, il tempio ha tre navate divise da pilastri in granito rosso. Sulle pareti della cripta sono incisi i nomi dei 25.000 militari italiani sepolti all’interno delle pareti stesse, esumati dai cimiteri di guerra del Friuli.

Tempio_di_Cargnacco
Infine, non si possono dimenticare le vittime della Seconda Guerra Mondiale. Alla periferia di Udine, a Cargnacco, si erge il Tempio Nazionale “Madonna del Conforto” la cui costruzione fu voluta da don Carlo Caneva, già cappellano militare e reduce di Russia e dal Senatore Amor Tartufoli, per ricordare i caduti e i dispersi di quella tragica campagna.
Nella cripta del Tempio di Cargnacco sono collocati, su leggii metallici, i 24 volumi che contengono, in ordine alfabetico, i 100.000 nomi di coloro che, per obbedire alle leggi della Patria, dalla Russia non sono più tornati. Sullo sfondo una scritta luminosa, color sangue, ricorda “Ci resta il nome”.
Negli anni Novanta è stata costruita un’altra cripta, collegata alla preesistente da una galleria, in cui sono stati traslati altri resti di dispersi in Russia. Dal 1991 sono state riportate in patria 11.601 salme. Quelle identificate erano 2.244 e di queste 1.960 sono state consegnate ai parenti. In Ucraina sono stati recuperati e identificati i resti di 1244 soldati, per la maggior parte restituiti ai parenti. A Cargnacco sono state riportate 8.518 salme di cui 7.405 non identificate.

Sulla sommità del Tempio troneggia, a caratteri cubitali, la scritta
P A C E, il bene più grande che l’U O M O deve perseguire se non vuole rimanere quello della pietra e della fionda.

[fonte (per il viaggio di Papa Francesco a Redipuglia) Il Corriere; varie notizie sui sacrari del Friuli sono state tratte da un reportage del Corriere.it; i link presenti nel post sono fonte di altre notizie e, per la maggior parte, rimandano ai siti da cui sono state tratte le immagini]

MATTEO RENZI TWITTA: IMPOSSIBILE SPIEGARE LA GUERRA AI BAMBINI

renzi tweet
Che dire? Certo, ha ragione. Ai bambini non si può spiegare la guerra. Si dovrebbe insegnare loro la pace, casomai. Eppure, pensandoci, la storia è piena di guerre, vicine e lontane.

Quando un bambino prende in mano il sussidiario, ha inizio il suo approccio con la storia dell’Uomo che è soprattutto storia di guerra.

Pensiamo ai poemi epici, l’Iliade e l’Odissea, che i bambini e i ragazzi amano (dipende, ovviamente, da quanto gli insegnanti li fanno amare …). Due classici che si devono leggere, almeno in parte, a prescindere. Eppure i personaggi sono guerrieri spietati, pronti a tutto per dimostrare il loro valore. La guerra di Troia, poi, scoppia per via di una donna, Elena, contesa tra Paride e Menelao. Greci e Troiani si affrontano in un conflitto decennale per colpa di una donna. Pensate un po’.
E va bene che stiamo parlando di miti, che le cause della guerra tra Achei e Troiani furono altre, specialmente economiche. Così spieghiamo ai bambini che il bottino di guerra, comprese le donne e i loro figli ridotti in schiavitù, servivano a dimostrare inequivocabilmente che il più forte vinceva e gli altri erano a lui sottomessi, diventavano una sua proprietà. Che bella lezione!

Lasciamo i miti e parliamo di storia. Anzi, iniziamo dalla preistoria: lotta per la sopravvivenza, sangue sparso in nome della legge del più forte, predominio degli uni sugli altri anche solo per conquistarsi lo spazio dove vivere. Mors tua vita mea, questo insegniamo agli alunni, fin dalla più tenera età.

Non va meglio quando iniziamo a parlare di civiltà. L’approccio con i primi focolari ecumenici non è confortante: nascono le classi sociali, c’è il capo, una delle classi più importanti è quella dei guerrieri, la maggior parte del popolo è sottomessa. Che bella civiltà!

E quando esaltiamo le imprese degli antichi Romani, le guerre di difesa e poi quelle di conquista, il nemico cartaginese che, battuto, risorge. Carthago delenda est, tuonava Catone. Ecco che il nemico viene annientato solo privandolo della sua propria terra. Storia di guerra eppure tutti ad acclamare la bravura del popolo romano, dei nostri progenitori che hanno dato splendore, guerra dopo guerra, alla nostra penisola.

Parliamo di imprese belliche anche quando l’argomento è la religione. Le Crociate sì, per combattere gli infedeli (anche se tutti sappiamo che l’obiettivo dei Crociati era molto più venale). Bravi i soldati che hanno combattuto in nome della Cristianità.

Che dire, allora, di Colombo? Che la sua missione fosse quella di portare la Fede nelle terre d’Oriente, non era credibile nemmeno per la cattolicissima Isabella di Castiglia. Tant’è che ella stessa si aspettava tesori inestimabili, ricchezza e prestigio per il suo Stato. In nome della Fede ecco che spagnoli e portoghesi annientarono civiltà antichissime. Ancora guerre e stragi, il copione rimane lo stesso. Gli altri incivili, noi civilissimi popoli europei.

Non serve che faccia un excursus storico completo, tutti sanno che la Storia è fatta di guerre e la insegniamo ai bambini sin dalla più tenera età.

Renzi ha in parte ragione: non è impossibile spiegare ai bambini la guerra, è impossibile spiegare loro perché esistano ancora le guerre, perché tutt’oggi i popoli si armino in nome della supremazia, del potere.

Come scriveva Quasimodo:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo
[…]

Il suo tempo, però, era quello immediatamente successivo al secondo conflitto mondiale. E’ triste constatare che passano i decenni e le cose non cambiano. Questo è difficile da spiegare ai bambini.

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: RACCONTARE LA GRANDE GUERRA CON UN VIDEOGAME

the great war
Come tutti sanno, in questi giorni c’è stata la celebrazione dell’inizio della I Guerra Mondiale: il 28 luglio 1914 l’Impero Austro-ungarico dichiara guerra al Regno di Serbia. Un conflitto sanguinoso che è costato la vita a 16 milioni di persone, fra militari e civili, e causato il ferimento di altri 20 milioni. Bisognerebbe ricordare fatti come questi se non altro per imparare che dalle guerre non ci si può aspettare niente di buono. Ma tutti sappiamo che non sempre la storia è maestra di vita, considerando che tutt’oggi numerosi conflitti (anche quelli di cui non si parla) continuano a seminare morte ovunque.

Dimenticare ciò che successe 100 anni fa però non si può. E’ giusto che le nuove generazioni conoscano i fatti e allora perché non spiegarglieli in modo semplice, con strumenti ai quali i nativi digitali hanno a che fare tutti i giorni?

Ubisoft ha pensato di parlare di guerra ai giovanissimi con un videogame.
Valiant Hearts The great War racconta la Grande Storia attraverso le vicende di piccoli uomini: Emile, un contadino francese arruolato a forza, Freddie, un volontario americano, Karl, un soldato tedesco disertore e Anna, un’infermiera belga. I personaggi si trovano a fronteggiare eventi infinitamente più grandi di loro, che li strappano dalle loro case e li trascinano nelle trincee, nei campi di prigionia, nelle città del Belgio devastate dai gas, nelle battaglie della Marna e della Somme.
La storia termina nell’anno 1917, proprio quando gli Stati Uniti entrano in guerra e mandano il loro esercito in Europa mentre Freddie vede arrivare le navi americane.

La struttura del gioco si avvicina a quella del puzzle: per poter proseguire con la storia è necessario mettere le cose al loro posto. Valiant Hearts: The Great War, infatti, richiede al giocatore di proseguire lungo la trama risolvendo i rompicapo che ostacolano le storie di Karl, Anna, Emile e Freddie. Il gioco è diviso in quattro capitoli, ognuno dedicato ad un anno del conflitto (più o meno). La trama, i colpi di scena, i capovolgimenti rendono Valiant Hearts: The Great War un gioco interessante, divertente e nello stesso tempo istruttivo.

[fonti: wired.it; mondoxbox.com e wikipedia; immagine da questo sito]

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