GLI ITALIANI LEGGONO POCO E NON AMANO LAVARE I PIATTI

lettori
Che gli italiani leggano poco non è una novità. D’altronde le statistiche non lasciano dubbi: nel 2012 soltanto il 46% degli italiani ha letto almeno un libro, tra questi il 51,9% sono donne e il 39,7% uomini. E parliamo di almeno un libro, praticamente nulla.
Per fare un confronto con altri paesi europei, l’82% dei tedeschi, il 70% dei francesi e 61,4% degli spagnoli hanno letto, sempre nel 2012, almeno un libro.

Secondo il “Rapporto sulla promozione della lettura in Italia – 2013” – cui i dati si riferiscono – solo il 18,4% degli italiani leggono dai 4 agli 11 tomi e solo il 6,3% della popolazione legge almeno 12 libri.

Ma cos’è che porta i nostri connazionali al disinteresse nei confronti della lettura? Si potrebbe pensare che sia una questione di costi: con la crisi, infatti, si sta bene attenti alle spese e i libri costano, a volte davvero troppo. Le nuove tecnologie, tuttavia, possono invogliare maggiormente a metter mano al portafoglio: nel 2011 gli italiani hanno speso 131milioni di euro per l’acquisto di un e-book reader (contro i 16milioni dell’anno prima) e 472milioni (contro 210milioni) per l’acquisto di un tablet, così come sono aumentati i titoli digitali disponibili: erano 1.619 nel 2009, sono diventati 31.416 a metà 2012.
I dati di vendita dei supporti tecnologici possono far pensare che i lettori preferiscano gli e-book per questioni di prezzo. Ma non è detto che la scarsa passione per la lettura sia imputabile solamente alla necessità di risparmiare.

Un ottimo spunto di riflessione ci viene offerto da Stefano Izzo sul blog officinamasterpiece del Corriere.

Secondo l’Istat (dati.istat.it/), nel 2012 gli italiani hanno speso per il tempo libero, la cultura e i giochi, una somma di pochi centesimi inferiore ai 100 euro mensili. […]
Tra le spese culturali, appunto 100 euro al mese, i libri non scolastici valgono appena 4,29, ovvero 51,48 l’anno, in netta diminuzione rispetto al 2011, quando la cifra sfiorava i 60.
[…]
Ma le maggiori sorprese – e con esse, forse, anche una risposta alla domanda iniziale [Quanto incidono i libri nel nostro bilancio familiare? NdR] – si trovano comparando la lettura con altre voci presenti nel bilancio familiare mensile Istat. Scopriamo così che all’interno del «tempo libero», i libri se la passano peggio, per esempio, di giochi e giocattoli (8,04), ma anche di lotto e lotterie (4,57) e di piante e fiori (6,89). Allargando un po’ lo sguardo su altri gruppi di spesa, troviamo poi gelati (7,18), birra (5,99), vino (12,01), tabacchi (20,44).

L’articolo di Izzo si conclude con una rivelazione davvero sconvolgente: perfino per tovaglioli e piatti di carta o di alluminio siamo disposti a spendere quasi il doppio (8,18).

Insomma, si legge poco o niente e per i libri si spende la metà di quanto sborsiamo per acquistare tovaglioli e piatti di carta. Sono lontani i tempi in cui, con un certo detersivo liquido, i piatti li voleva lavare lui. Ora non solo lui legge meno (il 12,2% rispetto a lei), ma usa pure i piatti di carta per non lavarli. 😦

[per i dati sulla lettura ho fatto riferimento all’articolo di Giuditta Mosca su Il Sole 24 Ore; immagine: “Pomeriggio in terrazza” di Vittorio Matteo Corcos da questo sito]

SENZA FIGLI È MEGLIO?

cullaProprio stamattina parlavo con una mia amica che, alla soglia dei cinquant’anni, non si è pentita della sua scelta: non ha voluto figli. Mai un ripensamento né la corsa alla maternità attempata solo perché va di moda. Eppure lei adora i bambini.

Quand’era adolescente impazziva per i suoi nipoti. La sorella, infatti, al contrario di lei, di figli ne ha messi al mondo due, la prima a 19 anni. La mia amica ha un attaccamento a questi nipoti che raramente ho riscontrato in donne con figli. Sarà un caso?

La nipote, ormai giovane donna, ha seguito le orme della madre, si è sposata giovanissima e ora, non ancora trentenne, è in attesa del suo terzo figlio. La mia amica impazzisce per i bambini di sua nipote. Mi ha raccontato che la primogenita, cinque anni, ha passato domenica notte con lei e tutta la giornata del lunedì. Seguivo il suo racconto guardandola negli occhi: sprizzavano di felicità. Eppure mi ha sempre detto di non avere mai sentito l’istinto materno.

Non c’è stato nemmeno bisogno di dire nulla, lei mi ha letto nel pensiero e ha detto, a proposito dei suoi pronipoti: li coccolo, li vizio, non sai quanti regali gli faccio, poi me le sento dalla madre ma per lei, quand’era piccola, ho fatto anche peggio. Però alla fine della giornata ritornano a casa loro. Sono nata per fare la zia non la mamma, mi dice sorridendo.

Io non giudico le scelte degli altri, anzi, in questo caso apprezzo moltissimo la coerenza. Mi dà fastidio, sinceramente, chi accampa mille scuse, nel frattempo fa carriera e, dopo la realizzazione di sé, sente che manca qualcosa. Così nascono i figli delle madri attempate. Ma un figlio non deve far parte delle realizzazioni personali, non deve riempire un vuoto, non può essere programmato quando è il momento, perché quel momento può non arrivare mai e poi queste donne vanno fuori di testa o si affidano alla scienza nella speranza di generare un figlio a tutti i costi.

Io, nella mia esperienza di madre, ho capito che se ci mettiamo a pensare quale sia il momento giusto per mettere al mondo un figlio, allora probabilmente quel figlio non nascerà mai. Un po’ perché più tempo passa e meno feconda è la donna, un po’ perché, quando ci si gode la vita di coppia a lungo, è difficile accettare l’arrivo di una specie di intruso che assorbe energie e tempo. In questo caso, è probabile che il figlio arrivi, ma è anche concreto il rischio che poi lo si consideri un vero e proprio tiranno.

Non dico di aver fatto le cose senza pensare, ma per me diventare madre è stata la cosa più naturale del mondo e, soprattutto, la realizzazione di un sogno. Aver deciso di dare un fratellino al primogenito senza aspettare anni, con l’idea di offrire al piccolo un compagno di giochi non mi è sembrato né un azzardo né tanto meno un gesto eroico. Per me è stata la più naturale delle cose, pur rendendomi conto delle spese che sarebbero gravate sul bilancio familiare e delle rinunce che i figli mi avrebbero imposto.

Ora leggo sul blog La 27esima Ora del Corriere, un articolo firmato da Maria Serena Natale la quale, citando la giornalista americana Lauren Sandler, asserisce che possiamo essere pienamente noi stesse anche mettendo da parte la responsabilità e la fatica della procreazione. E aggiunge che la decisione di non avere figli è già un orizzonte naturale per milioni di donne soddisfatte di una sessualità consapevole, armonicamente inserita in una vita non «childless» ma «childfree», non «senza figli» ma «libera».

Io invito i lettori a leggere l’intero articolo della Natale e mi permetto un’osservazione: sostituire il termine chldless con childfree mi sembra accettabile dal punto di vista semantico ma non condivido che si consideri un figlio come una catena che toglie la libertà. Insomma, libera dai figli non è sinonimo di libertà assoluta, semmai di una libera scelta.
E poi ‘sto childfree mi fa pensare alle caramelle: come le vuoi, con lo zucchero o sugarfree? E la tua vita come la vuoi? Senza zucchero, grazie.

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: LA RINASCITA DEL PRINCIPE TRASIMENO

Non è facile trovare delle buone notizie di questi tempi. Ma ho preso un impegno e in questi casi non mi tiro mai indietro. Però devo ammettere che in questa buona notizia mi sono imbattuta per caso, cercando delle informazioni sul lago Trasimeno, incuriosita dal fatto che un’amica avesse scelto proprio questa meta per passare un periodo di vacanza.
L’articolo, firmato da Marco Gasperetti per Il Corriere, è talmente bello che non mi va di “metterci mano”, rielaborando il testo come faccio di solito. Ve lo riporto in parte, invitandovi a continuare la lettura al link dell’articolo originale.

trasimeno

La voce della ninfa si ascolta al tramonto quando arriva la brezza e le foglie vibrano sul lago quasi accarezzandolo. E’ un lamento triste e senza tempo provocato, come racconta la leggenda, dal dolore di quella creatura mitica per la perdita del principe Trasimeno, il suo grande amore, annegato in quelle acque. Eppure quel pianto, dicono in molti, non è della ninfa Agilla, bensì del lago stesso (che ha l’identico nome del principe innamorato), malato e senza acqua. Quest’anno quel gemito è diventato un sorriso: per la prima volta il lago Trasimeno, che rischiava di essere risucchiato da un vampiro, è tornato al livello idrico di 25 anni fa ed è sempre più pulito e gonfio d’acqua.

trasimeno 2

E’ una buona notizia perché il merito non è soltanto delle piogge cadute in abbondanza, ma dell’opera degli umani ravveduti e pentiti, che hanno abbandonato le coltivazioni intensive, hanno costruito nuovi depuratori e sistemi idraulici capaci di non far disperdere quell’oro trasparente. Il Trasimeno, quarto lago d’Italia con il record d’essere il più esteso, non ha emissari e dunque l’acqua che contiene è un tesoro. E’ anche un monumento. Guardatelo al crepuscolo, sembra un mare placido e all’alba i colori lo trasformano in una tavolozza infinita. Gli isolotti, poi, sono capolavori. Polvese, in mezzo al lago, si raggiunge da San Feliciano (comune di Magione) e a volte si anima con feste mitiche organizzate dalla Provincia o altri enti locali. E se sbarchi su quel lembo di terra capisci immediatamente la buona salute del lago: attorno tutto sorride, la flora, la fauna e l’idrometro cresciuto dallo scorso anno di 130 centimetri, un record.

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ALTRE BUONE NOTIZIE:

“ Pedibus”, “Ventibus”, “Ombrellibus” di Laurin42 (promotrice dell’iniziativa)

L’avatar che aiuta a perdere peso di unpodichimica

MORTA A TRIESTE L’ASTROFISICA MARGHERITA HACK

hack margherita
Si è spenta a 91 anni appena compiuti l’astrofisica Margherita Hack. Da una settimana era ricoverata all’ospedale di Cattinara a Trieste, città di adozione in cui viveva dagli anni Sessanta, dopo aver lasciato la Toscana di cui era originaria.

Era nata a Firenze il 12 giugno 1922.
È stata professoressa ordinaria di astronomia all’Università di Trieste dal 1964 al 1º novembre 1992 anno nel quale fu collocata “fuori ruolo” per anzianità.
È stata la prima donna italiana a dirigere l’Osservatorio Astronomico di Trieste dal 1964 al 1987, portandolo a rinomanza internazionale.
Membro delle più prestigiose società fisiche e astronomiche, Margherita Hack è stata anche direttore del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Trieste dal 1985 al 1991 e dal 1994 al 1997.
Era membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei (socio nazionale nella classe di scienze fisiche matematiche e naturali; categoria seconda: astronomia, geodesia, geofisica e applicazioni; sezione A: Astronomia e applicazioni).
Ha lavorato in numerosi osservatori americani ed europei ed è stata per lungo tempo membro dei gruppi di lavoro dell’Esa e della Nasa.
In Italia, con un’intensa opera di promozione ha ottenuto che la comunità astronomica italiana espandesse la sua attività nell’utilizzo di vari satelliti giungendo ad un livello di rinomanza internazionale.
In segno di apprezzamento per il suo importante contributo, le è stato anche intitolato l’asteroide 8558 Hack. (notizie dal Messaggero Veneto)

IL MIO COMMENTO

L’ultima volta che ho visto Margherita è stata in occasione della presentazione del libro, scritto a quattro mani con don Pierluigi Di Piazza, Io credo. Dialogo tra un’atea e un prete (ne ho parlato QUI). Sì, l’ultima volta, perché ho sempre sentito la Hack come una di famiglia (era molto amica di uno zio di mio marito, grande scienziato scomparso negli anni Novanta), oltre ad essere una mia concittadina.
Nel novembre scorso l’ho vista molto affaticata, fisicamente. La mente no, quella era sempre vivace, lucida, così come la sua favella. Uso apposta questa parola così inusuale per la sua derivazione dal verbo latino fabulare, “parlare”, e perché ricorda la parlata toscana che nei cinquant’anni trascorsi a Trieste non aveva mai abbandonato.
Ma il suo parlare non era semplicemente trasmettere pensieri a voce, emettere suoni, era soprattutto affascinare. Ecco, questa è la dote che nell’astrofisica ho sempre apprezzato. Anche il suo modo di trasmettere il sapere, quasi sempre strettamente legato alla sua scienza, era dote poco comune.

Al di fuori della veste ufficiale, tuttavia, era una donna particolare. Schietta fino a rasentare l’insulto, quando qualcosa o qualcuno non la convinceva, arrogante ogni qual volta la sua determinazione le faceva scordare il concetto di diplomazia nei rapporti interpersonali. Ecco, questo era il lato di Margherita che non ho mai apprezzato. Appena poco più di un anno fa avevo espresso il mio disappunto sulla sua gestione di una vicenda personale – il mancato rinnovo della patente – in cui non aveva lesinato schiettezza e arroganza.

Era una grande scienziata, è cosa nota, com’era nota la sua simpatia politica per la sinistra e il suo ateismo mai tenuto nascosto, anzi, com’era sua abitudine, urlato. Molti tendono a considerare queste caratteristiche come imprescindibili: se uno crede nella scienza non può credere in Dio e preferibilmente deve essere comunista.
Non sempre è così. Lo scienziato suo amico, ad esempio, era un fervente cattolico. Ricordo ancora l’entrata quasi trionfale in chiesa, attraverso la navata centrale, rigorosamente in ritardo, in occasione del funerale di mio zio. Sprezzante di tutto e di tutti ma allo stesso tempo alla ricerca del primo piano, dell’attenzione generale. Pensai che dovesse essere stato per lei uno sforzo quasi titanico presenziare alla funzione religiosa. Ma l’amicizia non ha confini di fede o di ideali politici.

Leggo basita alcuni commenti all’articolo che Il Corriere dedica alla scomparsa della Hack. Sembra che il cordoglio debba essere espresso solo da quelli di sinistra e dagli atei. I credenti, invece, devono esultare perché della morte di una che ha sempre disprezzato Dio loro non si curano, anzi, le augurano di bruciare nelle fiamme dell’inferno.
Eppure Margherita aveva una profonda spiritualità, molto meno ipocrita rispetto a tanti che si professano credenti e poi gioiscono della morte di una persona. Essere comunisti non è una colpa, essere atei non è un peccato. Se uno è ateo non crede al peccato e chi ha fede, se solo ricorda l’insegnamento di Gesù (scagli la prima pietra chi è senza peccato), non può e non deve giudicare. La morte annulla tutto ciò che siamo stati e come lo siamo stati. Il resto non conta.

In un’intervista concessa a Marinella Chirico (la giornalista del Tg regionale del Friuli – Venezia Giulia che ha curato l’edizione del libro Io credo), a proposito della morte, Margherita Hack aveva espresso la sua condivisione della logica epicurea che sostiene quanto sia infondata la paura della morte perché quando c’è lei, noi non ci siamo (Dalla Lettera a Meneceo di Epicuro).

Non solo il suo sguardo è stato per tutta la vita elevato al cielo (anche negli ultimi tempi in cui si era incurvata a tal punto da dover usare le stampelle per muoversi), LEI era davvero figlia delle Stelle:

«Tutta la materia di cui siamo fatti noi l’hanno costruita le stelle, tutti gli elementi dall’idrogeno all’uranio sono stati fatti nelle reazioni nucleari che avvengono nelle supernove, cioè queste stelle molto più grosse del Sole che alla fine della loro vita esplodono e sparpagliano nello spazio il risultano di tutte le reazioni nucleari avvenute al loro interno. Per cui noi siamo veramente figli delle stelle».
Intervista su Cortocircuito

Dopo la scomparsa di Rita Levi Montalcini, la dipartita della Hack costituisce la perdita di un’altra grande scienziata che ha accompagnato l’umanità nel passaggio dal XX al XXI secolo.

Ovunque tu sia, Margherita, riposa in pace.

VORREI CREPARE SENZA AMMALARMI“. L’INTERVISTA DEL VIDEO CORRIERE PER I 90 ANNI DELLA HACK

MARGHERITA RACCONTA LA SUA VITA. VIDEO CORRIERE

margherita hack don di piazza marinella chirico

IL RICORDO DI DON PIERLUIGI DI PIAZZA

Ho conosciuto personalmente Margherita Hack il 23 giugno 1993 quando l’ho invitata nella chiesa di Zugliano per una riflessione sul rapporto possibile fra fede e ateismo, piú direttamente fra persone che si considerano credenti e altre non credenti.
La motivazione che mi sollecitava partiva dalla percezione che, contrariamente a situazioni considerate definitive e congelate, le storie delle persone sono in movimento e che certo fideismo e certo ateismo specularmente si contrappongono nell’immobilità; che invece dalle due dichiarazioni il discorso, il dialogo, il confronto possono iniziare, approfondirsi, riscontrare differenze e convergenze.
CONTINUA A LEGGERE >>> [articolo del Messaggero Veneto]

L’ULTIMA INTERVISTA AL “PICCOLO”: «Urania Carsica va riaperta, è patrimonio della scienza» LINK

«Ti amo». Così all’alba Aldo, il compagno di una vita, ha salutato la sua Margherita. Articolo di Paola Bolis per Il Piccolo

«Il Credo di Margherita Hack: la vita, la morte, la malattia, il rifiuto delle cure», articolo di MARINELLA CHIRICO per il blog del Corriere la 27esima Ora

[la giornalista del Tg regione Friuli – Venezia Giulia, grande amica dell’astrofisica Margherita Hack, era al suo capezzale al momento della morte. Sulle pagine de Il Piccolo, quotidiano di Trieste, ha scritto un bell’articolo sull’amica scomparsa, non ancora leggibile on line. Nel necrologio la Chirico ha salutato Margherita chiamandola semplicemente Marga, soprannome che usava sempre nelle presentazioni del libro Io credo]

[ULTIMO AGGIORNAMENTO: 2 LUGLIO 2013; foto dal Messaggero Veneto]

LETTERA APERTA A BEPPE GRILLO

GRILLO ESCE DALLA VILLA AL MARE, NON MI ROVINATE DUNA SABBIARiporto la lettera indirizzata a Beppe Grillo da Enrico Andreoli, 26 anni, praticante avvocato di Verona (pubblicata dal blog Solferino28 per Il Corriere). Le domande di un ragazzo che continua a credere nella Costituzione e nel suo Paese. E voi cosa chiedereste al leader del Movimento che ha sconvolto la scena (politica) italiana?

Caro Beppe Grillo,

cosa propone per l’Italia?

Glielo chiedo senza rabbia, senza acrimonia, senza risentimento alcuno verso Lei o verso il movimento che intende rappresentare. Glielo chiedo come cittadino italiano ventiseienne, interessato al futuro.

Per sapere come intende affrontare i problemi (perché ce ne sono, di problemi) del Paese in cui vivo e dal quale mi rifiuterò sempre di emigrare. Lei, o meglio, il suo movimento rappresenta milioni di italiani, ora.

Cosa dite, adesso, a questi cittadini?

Volete incappucciarvi tutti e non parlare più a nessuno, come i bambini che vengono sempre scelti per ultimi e che finalmente sono riusciti a rubare il pallone?

Agite solo per ripicca verso un indefinito “tutto e tutti”? È il rancore che vi muove, o avete anche qualcosa di propositivo? Non Le pare se non altro bizzarro il Suo comportamento post elettorale?

Lei ha avuto il merito di incanalare un sentimento di partecipazione democratica che è esploso in tutta la sua forza nel consenso dato al Movimento 5 stelle.

Vi siete inseriti in un quadro politico che lasciava poche alternative ai delusi dai vecchi partiti, se non un voto di protesta indirizzato a voi.

Non tolgo alcun merito alle Sue azioni, per quanto riguarda la capacità innovativa che avete riversato sulle istituzioni, ma mi permetta di farLe presente che il (voto al) vostro movimento ha avuto senso e riscontri solamente a causa dell’assenza di una proposta Politica alternativa, seria e veramente innovativa.

In ogni caso, cosa proponete adesso?

In cosa vi distinguete dai tanto vituperati partiti che non hanno combinato nulla?

Volete semplicemente fare ostruzionismo alla vita parlamentare? Volete essere ricordati come coloro che, con tutti i numeri tecnicamente possibili per ragionare sulle cose di buon senso, hanno bloccato l’Italia?

Volete ergervi ad unici paladini della capacità, ritenendo aprioristicamente i “non Movimento 5 stelle” degli ignoranti non capaci di intendere e di volere? Dei collusi con il fantomatico sistema, come diceva pre elezioni?

Voi, che nel vostro programma avete previsto esplicitamente l’insegnamento della Costituzione e l’esame obbligatorio per ogni rappresentante pubblico, ma che sembrate i primi a non conoscerla, o quanto meno a non ritenerla meritevole (per voi) di applicazione? Sia ben chiaro, io, lo ripeto, Le faccio i miei complimenti, davvero, per essere riusciti ad incanalare un forte disagio trasversale esistente nella società tutta.

Ma adesso fate qualcosa!

La vita di un Paese non è il palcoscenico di un teatro, non si misura in condivisioni di un video o di un link.

La vita di un Paese è fatta di proposte concrete, gli spot da “incappucciato” fanno tristezza, non fanno ridere.

Lei, Beppe Grillo, unico sommo leader che pare voler fagocitare la libertà di opinione e di pensiero dei singoli eletti, che messaggio vuole dare, in concreto ed oltre alle urla isteriche?

Perché guardi che quelli che pensano semplicemente alle prossime elezioni sono proprio i tanto insultati politici…

Voi riuscite a guardare anche alle prossime generazioni?

NULLA DA AGGIUNGERE. SOLO UN APPLAUSO AL GIOVANE ENRICO ANDREOLI. smile-applauso

PORRE UN LIMITE AL DIRITTO DI CRONACA

Leggo sul blog La 27esima ora, pubblicato su Il Corriere on line, un interessante articolo firmato da Fulvio Bufi, in cui si parla dei limiti che talvolta, per puro buon senso, si dovrebbero porre al diritto di cronaca.

Sempre più spesso, infatti, specie nei casi di omicidio, vengono pubblicati i verbali degli interrogatori (a proposito, mi chiedo come mai non siano segretati, o magari lo sono e in quel caso mi domando come mai sia così facile una “fuga di notizie”) delle persone informate sui fatti oppure degli indagati.

L’ultimo caso, balzato alle cronache dopo un silenzio di ben otto anni, è quello dell’omicidio di due donne, Elisabetta Grande e Maria Belmonte, madre e figlia, i cui corpi sono stati scoperti in casa del marito della prima, in quel di Castel Volturno.

Ecco, a tal proposito, la riflessione di Bufi:

Ci sono pagine di cronaca giudiziaria che si può rivendicare con orgoglio di non aver voluto scrivere. La vicenda di Elisabetta Grande e Maria Belmonte, le due donne, madre e figlia, scomparse nel 2004 e i cui resti sono stati ritrovati sepolti nella casa dove era rimasto a vivere da solo l’uomo che di Elisabetta e Maria era marito e padre, ne offre l’ultimo esempio.

I verbali di interrogatorio di quest’uomo, Domenico Belmonte e dell’ex marito di Maria, Salvatore Di Maiolo, è pieno di domande che rivoltano fin nei dettagli più intimi la vita delle due donne, in particolare la più giovane. Gli inquirenti che le pongono sono spinti ovviamente da motivazioni che nulla hanno di morboso.

In qualunque indagine verificare ogni elemento emerso può servire a giungere alla verità, ma questo, appunto, attiene al lavoro degli investigatori. I lettori del Corriere – e anche quelli di altri giornali – quelle domande e quelle risposte non le hanno trovate nei resoconti di cronaca, e non per questo l’informazione che sulla vicenda hanno ricevuto ne è stata penalizzata al punto da non avere un quadro chiaro – per quanto chiara può essere una storia ancora oggetto di indagine – di quello che è successo a Elisabetta e Maria.
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Finalmente un giornalista che ammette che la cronaca debba porsi un limite, che debba pubblicare ciò che basta per informare chi legge su di una data vicenda, senza rispondere al desiderio morboso di chi vuole conoscere i minimi particolari che nulla aggiungono alla notizia in sé. Soprattutto, senza pensare alla tiratura dei giornali o ai click di accesso alla testata on line.
A giudicare dai commenti all’articolo, la maggior parte dei lettori chiede informazione e non particolari morbosi sulle vicende che hanno come protagoniste delle vittime che non possono difendersi.

Un bell’esempio di civiltà, finalmente.
Spero lo seguano anche i conduttori dei vari programmi di approfondimento giornalistico che, in nome dell’audience, in televisione ad ogni ora del giorno propongono servizi che di giornalistico hanno ben poco, criminalizzando presunti colpevoli (dimenticando che in Italia vige la presunzione di innocenza) e facendo processi sommari in cui spesso la vita privata delle vittime, perlopiù donne, viene smontata e rimontata privandole della dignità. Il tutto post mortem, naturalmente.

ROMENO NECESSITA DI UN TRAPIANTO DI CUORE: PADOVA LO RESPINGE, UDINE LO SALVA

Faccio una premessa: ho letto la notizia su Il Corriere e, spinta dall’incredulità, ho consultato altre fonti tra cui Il Messaggero Veneto, Il Gazzettino e net1news. Siccome do per scontato che le notizie che i quotidiani, o altri mezzi di informazione, diffondono siano vere, nonostante abbia riscontrato alcune difformità, la mia riflessione si basa su ciò che ho letto considerandolo degno di fiducia.

Dunque, il fatto riguarda un trapianto di cuore. Un marinaio romeno di 53 anni, che lavora per un armatore italiano, ha avuto un infarto, definito “devastante” dai bollettini medici. Si rende, quindi, necessario un trapianto. L’uomo è degente all’ospedale di Mestre e deve essere trasferito al centro trapianti di Padova, dove, però, l’intervento viene negato. Perché? Semplice: il cittadino romeno non ha diritto ad un cuore italiano, deve essere trasferito nel suo Paese d’origine e lì operato. Come dire: moglie e cuore dei paesi tuoi.

Naturalmente la questione è molto più complessa. Da Padova fanno sapere che la decisione di non intervenire è stata dettata dalla prassi che, secondo le indicazioni del “Nord Italia Transplant“, organismo nato nel 1976 che lavora in un territorio che comprende diciannove milioni di abitanti, i cuori italiani vanno ai pazienti italiani e non agli stranieri. Così viene giustificata tale “prassi”: «Data la tragica scarsità di organi, quando un ammalato, che non è nelle nostre liste d’attesa nazionali, può essere trasportato nel suo Paese di provenienza, perché anche lì esiste un centro trapianti, lo si deve fare. E in questo caso era possibile farlo». Così si esprime il direttore sanitario dell’ospedale di Padova, Giampietro Rupolo, chiarendo che la decisione è stata presa di comune accordo con la ASL di Mestre. Naturalmente da Mestre negano il fatto.

A parte il quadro clinico del paziente che appare confuso, stando alle dichiarazioni contraddittorie dei due ospedali veneti, la Prefettura di Mestre nega l’utilizzo di un aereo per il trasferimento del rumeno in Romania dal momento che era possibile operarlo in Italia . Allora è lecito chiedersi: ma il paziente poteva essere trasferito o no? Se i bollettini parlano di un “quadro devastante” pare di no. Nel frattempo il romeno rimane in balia dei medici che si rimpallano le responsabilità e la corretta interpretazione della “prassi” sottoscritta da “Nord Italia Transplant”.

In breve: l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine accoglie l’Sos dell’ospedale dell’Angelo di Mestre dove l’uomo è ricoverato dall’8 agosto, dichiarandosi disponibile a operare. E così martedì l’equipe di Cardiochirurgia diretta dal professor Ugolino Livi, effettua, con successo, l’intervento. Spiega il primario di cardiochirurgia di Udine: «A parte la polemica con Padova devo dire invece che a Mestre il caso è stato ottimamente gestito, nella fase di emergenza, e affrontato poi nella maniera giusta. Noi abbiamo operato al meglio grazie all’assistenza che l’uomo ha ricevuto proprio all’ospedale dell’Angelo.»

Insomma un elogio allo stesso ospedale che, però, aveva rifiutato il trapianto di un cuore italiano ad un romeno. Ma c’è un altro punto su cui rimango perplessa: stando alle parole di Livi, l’uomo si trovava in una situazione di emergenza tale da dover essere operato nel più breve tempo possibile in Italia perché non era trasportabile nel suo Paese. Allora per quale motivo Padova si è rifiutata di operare? Neppure il Santo ha potuto fare un miracolo e infondere un po’ di saggezza nei medici dell’Angelo. Come dire: non c’è né Dio né Santi che tengano.

Ovviamente della vicenda si stanno occupando non solo i media, nazionali e locali, ma anche i politici. L’accusa più gettonata è quella di “razzismo sanitario“. La direzione sanitaria dell’ospedale di Udine commenta il fatto con parole appropriate: «la “Nord Italia Transplant” ha come priorità la salute delle persone, non la loro provenienza e la loro cultura.»

L’ho scritto proprio recentemente in un altro post: i friulani hanno un cuore grande così. Anche quando c’è la necessità di trapiantarne uno.

[foto ANSA]

SCRITTORI (FORSE) SI NASCE, LETTORI SI DIVENTA

Non amo i romanzi di avventura. Non sono mai riuscito a terminarne uno. Stevenson mi annoia, per non dire di Verne. Persino il grande Conrad mise a dura prova i miei nervi infantili.

Così inizia un articolo autobiografico di Alessandro Piperno, pubblicato su Il Corriere.

Non c’è nulla di male, intendiamoci, se uno scrittore, piuttosto noto e che, a parer mio, rappresenta uno dei pochi esemplari in via d’estinzione tra la fauna scrittoria attuale, confessa di non essere stato attratto dal piacere per la lettura fin dalla più tenera età. Insomma, scrittori forse si nasce ma lettori si diventa. Al di là degli stimoli che in casa e a scuola si possono ricevere, non è detto che ci si appassioni alla lettura. Se si ha a disposizione, ad esempio, una biblioteca paterna come quella di Leopardi, non è scontato che vi passino ore ed ore durante la giovinezza, emulando il poeta recanatese. Anzi, è molto più probabile che si finisca per odiare quella biblioteca e quei libri così a portata di mano. A volte il gusto della ricerca è molto più appassionante.

Capisco che il mio aspetto sedentario possa autorizzare chiunque a immaginarmi precocemente invischiato con carta, inchiostro, fumanti tazze di tè. La verità è che a dodici anni sguazzavo nel tiepido mare dell’analfabetismo di ritorno. I miei sogni di gloria, del tutto convenzionali, si esaurivano in qualche prodezza calcistica o canora. Così prosegue la sua confessione lo scrittore romano, classe 1972.

A dodici anni è più che umano nutrire altri interessi e non essere dei topi da biblioteca. Anch’io a quell’età avevo mille altri interessi, pur coltivati per la maggior parte in ambito culturale, sicché non sarebbe onesto definirmi, rispetto a quei tempi, un’analfabeta di ritorno. Ricordo che un anno prima avevo ricevuto in regalo per il mio compleanno un libro per bambine sceme dal titolo Il birichino di papà. Lo accantonai, trattenendo a stento il disgusto e diprezzo per un dono che, nella classifica dei regali più graditi, stava decisamente all’ultimo posto. Mi trattenni solo perché quel dono proveniva da un ragazzino che mi piaceva assai. Poi realizzai che sicuramente non l’aveva acquistato, nonché scelto, lui ma la sua mamma, quindi non ebbi alcuna remora nell’accantonare quel libro esprimendo liberamente il mio disgusto e il mio disprezzo.
Lo lessi solo qualche anno più tardi. Il primo libro in assoluto che letteralmente divorai fu Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, ma solo perché seguivo la serie televisiva. Dovevo avere circa tredici anni, se non ricordo male.

Piperno, nel seguito del suo racconto, spiega in che modo si era accostato alla lettura: dopo una delusione amorosa, avendo il ragazzino indetto una specie di sciopero della fame come forma di protesta nei confronti dell’insensibile Viola che aveva ignorato le sue attenzioni, arrivò in soccorso il padre che si presentò in camera sua con un libro e con fare perentorio gli disse: “leggilo“.

Che sciocchezza! L’idea che una cosa pallosa come un libro potesse liberarmi del grumo di desiderio frustrato che mi strozzava l’esofago mi sembrava un insulto. Tuttavia c’era un non so che di familiare nel ragazzino in copertina. Oggi so che si trattava di un quadro di Modigliani intitolato Il figlio del portinaio. Eppure nessuna delle cose che so oggi è in grado di restituirmi l’empatia che mi colse alla sprovvista la prima volta che incrociai quel mesto sguardo di ragazzo. Tutto mi accomunava a lui: solitudine, indolenza, inessenzialità.

Il libro si intitolava “Il segreto”. L’autore era anonimo. Per la precisione Anonimo Triestino. Una specie di inno al mistero. Oh, ecco finalmente un mistero attraente. Il mistero di quel ragazzino senza nome con un segreto da custodire, ovvero il mio stesso mistero, il mio stesso segreto.

Quindi l’attenzione del giovanissimo Alessandro alle prese con la prima delusione d’amore fu catturata dall’immagine di copertina e dal ritrovarsi in quel fanciullo. Il tutto fa pensare che a volte il titolo di un libro non sia l’unica cosa in grado di catturare l’attenzione, né lo scrittore, in questo caso addirittura senza nome. Allora, quando ogni residua resistenza, pur tenace fino a quel momento, si allenta, si prende il libro, lo si sfoglia, quasi ostentando indifferenza, si legge l’introduzione, forse pensando che la lettura del tutto si esaurisca nella rapida scorsa di quella parte. E invece – almeno a Piperno è successo questo – si prosegue. Lo scrittore si sofferma in particolare sulla dedica:

Tutto il turbamento che mi comunicò questa introduzione non era niente a confronto del terremoto emotivo prodotto in me dalla dedica del libro e dal suo incipit.

«A Bianca, nel cui costante pensiero le ho scritto, dedico queste pagine, perché si meravigli, e sorrida di tanta fanciullaggine, e provi forse un po’ di rimpianto».

Se oggi, nel trascriverla, mi colpiscono soprattutto la sintassi macchinosa e il lessico ottocentesco, la prima volta che la lessi mi bastò sostituire al nome Bianca quello della mia volubile amata (una sostituzione non troppo difficile visto che anche il suo nome era un colore), per sentire il groppo in gola premere fin quasi a soffocarmi di commozione. Ero certo di essere il solo uomo sulla faccia della terra che potesse capire una dedica del genere. Così romantica, così nostalgica, così piena di magnanimità. Ma allo stesso tempo così subdolamente ricattatoria!

L’immedesimazione: ecco quel quid che si attendeva. Galeotto fu il libro, dunque. Galeotto nel senso che da allora iniziò l’amore per la lettura che non deve essere mai forzato. Amare i libri deve essere una scelta e l’inizio di questo amore non ha data né età. Quando si viene catturati dalla lettura è per sempre, non importa se abbiamo sei anni, e sappiamo a mala pena leggere, o se ne abbiamo sessanta. L’importamte è che sia una scelta spontanea, non una forzatura come la scuola vorrebbe imporre.

La lettura per diletto si distingue, quindi, da quella scolastica. Ciò non significa che non si possa trovare gradevole una lettura imposta, ma che, almeno nella maggior parte dei casi, l’obbligo uccide il piacere se quel piacere non è già insito nel bambino o nell’adolescente alle prese con le letture scolastiche.

Continua Piperno: L’attacco del libro, invece, era decisamente autocelebrativo: «Non c’è dubbio: io fui un bambino precoce». Possibile che quest’uomo mi avesse letto dentro così bene? Fu la prima volta nella mia vita in cui provai risentimento per un autore che mi aveva rubato l’idea per un romanzo. Molti anni dopo, all’università, sarebbero stati parecchi i professori che avrebbero cercato di inculcarmi due principi fondamentali per leggere un libro:
1) Non identificarsi mai con i personaggi.
2) Non confondere mai la vita del Narratore con quella dell’Autore.

Fu l’Anonimo Triestino a donarmi l’antidoto per resistere al veleno di quei dogmi così assennati e meschini.

Quegli insegnamenti, quella raccomandazione a non immedesimarsi, a non provare a vestire i panni di uno dei personaggi, a non confondere la realtà con la finzione … sono proprio questi gli errori da evitare se si vuole davvero provare il piacere della lettura. Cosa c’è di più bello del calarsi nell’atmosfera magica di un libro, del sentirsi parte della vita dei personaggi, del gioire o piangere insieme a loro, dell’ammirare un paesaggio attraverso l’immaginazione ma con la convinzione che il tramite siano gli occhi stessi di quei personaggi? Cosa c’è di più gratificante dell’abbandono completo della realtà, di cui non si percepiscono più odori, immagini, colori, di cui non si sentono più i suoni, nello sfogliare lento o rapido, a seconda dei gusti personali e dell’abilità di ognuno, le pagine che descrivono la vita vera, annullando la nostra nella finzione? E cosa c’è di più gradevole dell’espressione quasi estasiata che assumiamo, alla fine del libro, quando ormai abbiamo già di fronte la quarta di copertina con quei commenti che non abbiamo letto prima (per non esserne influenzati) e che ora continuiamo ad ignorare perché nulla ci può donare quella beatitudine, quel rapimento quasi estatico che abbiamo conquistato con le sole nostre forze, senza imposizione alcuna?

Ecco, quando queste sensazioni, questo distacco dalla realtà sarà originato da una lettura obbligata, allora potrò anche essere d’accordo sul fatto che i giovani debbano essere obbligati a leggere, secondo i gusti personali dei genitori o degli insegnanti.
Certo, capita di affrontare letture poco piacevoli anche se scelte da noi, un errore di valutazione ci può sempre stare, un consiglio dato da un amico può non rientrare nelle proprie preferenze. Però l’importante è che si sbagli da soli.

Mi rendo conto di essermi allontanata dall’articolo di Piperno, soprattutto dallo spirito della sua confessione che è quello del mistero e della scoperta. Per questo invito i lettori a leggerlo per intero al link de Il Corriere.
Quel che mi importava sottolineare era che nessuno deve sentirsi obbligato a leggere e nessuno deve arrogarsi il diritto di costringere alla lettura. In questo condivido appieno i dieci diritti del lettore elencati da Daniel Pennac nel suo Come un romanzo.

Mi piace concludere con una frase dell’indimenticabile Massimo Troisi: «Io non leggo libri. Perché loro sono in tanti a scrivere, io sono uno a leggere. Non ce la posso fare». Ed effettivamente in Italia si scrive tanto e si legge poco. Che sia anche colpa delle letture imposte agli studenti?

[immagine da questo sito]

LA T-SHIRT DELLA VERGOGNA: LA SIGNORA ORA PIANGE PER QUELLA SCRITTA. E NOI PIANGIAMO CON LEI


Credo sia nota a tutti la vicenda della signora che, manifestando contro la riforma del lavoro proposta dall’attuale governo, in particolare dal ministro Fornero, era stata ritratta, qualche giorno fa, in compagnia dell’onorevole Oliviero Diliberto, con addosso una t-shirt su cui compariva la scritta “La Fornero al cimitero”.

Oggi il Corriere della Sera pubblica un articolo in cui la signora in questione, Paola Francioni, casalinga romana di 57 anni, piange pentita per quella che lei stessa definisce una maledetta scritta.
Riporto l’articolo integralmente perché merita.

È lei, vero?
«Sì, sono io… sono io quella della maglietta».
(Alcuni secondi di silenzio. Poi la voce della signora Paola Francioni, 57 anni, romana, casalinga, si incrina in un singhiozzo).

Non faccia così, signora.
«E invece faccio proprio così!».

La prego.
«Sì, certo, mi scusi… però io mi dispero, e piango, e mi addoloro, perché mi dispiace tantissimo per tutto questo macello, per quella maledetta scritta e… Ho anche spedito tre email di scusa alla Fornero, ma non mi ha risposto… non mi ha risposto, capito? Sarà arrabbiatissima, mannaggia».

Piano, si calmi, proviamo a ricostruire l’accaduto.
«Aspetti: mi soffio il naso… Ecco, va bene, d’accordo. Cosa vuole sapere?».

Cominciamo dall’inizio: perché, martedì pomeriggio, davanti a Montecitorio, ha deciso di indossare quella maglietta con su scritto «La Fornero al cimitero»?
«Perché sono una stupida. Io non auguro mai la morte a nessuno, pensavo di essere ironica, mi sono fatta suggestionare da tutti i discorsi che leggo su Facebook, su internet: questa Fornero così ci ammazza, ci manda tutti al cimitero… perciò, in vista del sit-in di martedì pomeriggio, ho pensato di farmi stampare quella maglietta con quella scritta… Una cretina, me lo dico da sola».

Lei, al sit-in, era con altri rappresentanti del movimento «Giù le mani dalle pensioni».
«Siamo un gruppo di oltre cinquemila persone, tutti con faticose storie legate, appunto, alle pensioni».

Ma lei è casalinga…
«Infatti ero lì per protestare al posto di mio marito, ramo bancario, che a 61 anni e con 37 anni di contributi pensava di poter andare in pensione il prossimo mese di settembre. Invece, con le nuove leggi, ci andrà tra cinque, o sei anni. E questo ci ha fatto saltare tutta una serie di progetti, di idee…».

Tipo?
«Tipo che con i soldi della liquidazione volevamo poter aiutare i nostri figli… non tanto il maschio, laureato con 110 e lode e che una sua strada l’ha trovata, quanto la femmina, pure lei laureata, laureata in Giurisprudenza, e che però a 30 anni è ancora precaria… e… e…».

No, signora, coraggio, non ricominci a piangere.
«Eh, lo so lo so… ma mi hanno trattato come una criminale… Ha sentito cosa dicevano l’altra sera da Vespa? E adesso cosa diranno da Giletti a “Domenica in”?».

Mi stava raccontando di sua figlia.
«Beh, con i soldi della liquidazione pensavamo di aiutarla… sa, una mano per il matrimonio, per…».

È sua figlia ad aver dato un esame con l’onorevole Oliviero Diliberto, giusto?
«Giusto. Un esame, cinque anni fa. E la cosa mi è appunto tornata in mente martedì pomeriggio, quando Diliberto l’abbiamo visto in un angolo, mentre rilasciava un’intervista. Allora l’abbiamo chiamato, gli abbiamo chiesto di aiutarci, e poi pure di farsi una foto ricordo con noi. E adesso mi dispiace tremendamente anche per lui, finito in questo tritacarne… io credo che lui non si sia neppure accorto di quella scritta idiota… Sì, in quel video dà la sensazione di osservarla, ma io sono sicura che abbia solo deposto lo sguardo, senza leggere, senza capire».

Lei, signora, per chi vota?
«Voto per chi mi convince durante le campagne elettorali. Sono una casalinga ma leggo i giornali, leggo libri, vedo la tivù: ho votato anche per Berlusconi, per dire. Ma adesso la scena politica è cambiata e, con la vicenda di mio marito, con l’ingiustizia riservata a mio marito, mi sono ritrovata a protestare. Pensi che… beh, sì, insomma: la prima volta che sono andata a un corteo è stato lo scorso 9 marzo, con quelli della Fiom…».

(La signora Francioni è molto più scossa di quanto questa intervista lasci intuire. Da due giorni è chiusa in casa, stesa sul letto).

Fabrizio Roncone

Adesso ditemi se Il Corriere può pubblicare un’intervista simile … con quel corsivo finale, poi, che è proprio la ciliegina sulla torta.
Non dico altro … non ci resta che piangere.

SANREMO 2012: TRA BATTUTE DA CASERMA E FARFALLINE, LA DECADENZA DI UN FESTIVAL


Pubblico di seguito, e solo parzialmente, la lettera aperta che la redazione del blog La 27esima Ora, de Il Corriere on line, ha indirizzato a Gianni Morandi. 

Pur non condividendo quanto sentito a proposito dell’esibizione del corpo delle donne come insulto nei confronti del sesso debole (ormai non più tale), poiché ritengo che quel tipo di esibizione sia una libera scelta e non rappresenti la totalità delle donne, condivido lo spirito della lettera.
Con rammarico mi chiedo se la tv, specie quella di Stato, debba abbassarsi a mettere in scena, su un palco che dovrebbe essere principalmente dedicato alle canzoni in gara (è o non è un festival della canzone?), siparietti di dubbio gusto con protagonisti personaggi noti cui viene data carta bianca, per attirare l’attenzione del pubblico televisivo. Se le canzoni non bastano a fare share, allora forse è il caso di calare definitivamente il sipario del teatro Ariston di Sanremo.

Caro Morandi,
è la prima volta che ci capita come blog 27esima ora di scrivere una lettera aperta a qualcuno. Lo facciamo con lei per spiegarle quel che non ci è piaciuto di questo Festival. Pur in una cornice tradizionale, il palco di Sanremo da oltre 60 anni dà ospitalità al talento e alla bellezza femminili. In una sequenza di scenografie fatte di fiori, luci, sorrisi semplici, all’Ariston è andata in scena una rappresentazione popolare del rapporto tra uomini e donne in Italia. Un Paese che ancora insegue quella che viene chiamata “maturità di genere”: l’equilibrio nel rapporto tra i sessi, la consapevolezza della propria diversità e complementarietà. Da Gigliola Cinquetti ad Alice, da Anna Oxa a Laura Pausini a Giorgia, i successi al femminile hanno composto in qualche modo la colonna sonora delle conquiste avvenute e dei cambiamenti in arrivo. Il nostro titolo per tutti: Quello che le donne non dicono, Fiorella Mannoia, 1987, premio della critica.

Questa volta non è andata così. Questa volta – con i sermoni decadenti di Celentano e il vestito svolazzante di Belén Rodriguez – il Festival è apparso un passo indietro rispetto al Paese di cui è stato a lungo uno specchio più leale: ci siamo trovate rinchiuse in una scatola machista e stereotipata, soffocate da una sceneggiatura vecchia, troppi sottintesi, troppe battute da caserma. La questione, lo avrà capito, è legata (anche) alla farfallina. Ma la questione non è la farfallina e neppure chi si è divertita a ostentarla. La signora Rodriguez ama giocare con il proprio corpo, fa consapevolmente la parte della donna oggetto, provoca gli uomini (e le donne). Il punto è che attorno a quel tatuaggio è stata costruita l’intera serata, la farfalla ha fatto ombra persino a Celentano: e resterà il simbolo dell’edizione 2012.

Sotto il vestito ognuno può metterci (o non metterci) quel che vuole. Il problema è piuttosto se una donna viene invitata sul palco a fare la valletta, dando per scontato che sotto il vestito non abbia null’altro che carne da mostrare. CONTINUA A LEGGERE >>>