15 ANNI SENZA LADY D

DIANA FRANCES SPENCER PRINCESS OF WALES
Sandringham (Norfolk) 1° luglio 1961 – Parigi (France) 31 agosto 1997

Addio rosa d’Inghilterra
Che tu possa crescere sempre nei nostri cuori
Eri la grazia che si poneva
Dove le vite erano straziate
Tu esortavi il nostro Paese
E sussurravi ai sofferenti
Ora appartieni al cielo
E le stelle sillabano il tuo nome

E mi sembra che tu abbia vissuto la tua vita
Come una candela nel vento
che non si è mai spenta nel tramonto
quando cominciava a piovere

E i tuoi passi si poseranno sempre qui
sulle colline più verdi di Inghilterra
la tua candela si è consumata molto prima
di quanto farà mai la tua leggenda

(traduzione parziale del testo “Candle in the wind – tribute to Princess Diana” di Elton John)

IL PRIMO AMORE NON SI SCORDA MAI MA È MEGLIO NON CERCARLO

Il primo amore non si scorda mai, così dicono. La memoria mantiene impresse le immagini del primo bacio, della prima volta, anche della prima delusione d’amore, forse non solo della prima. Ma siamo proprio sicuri che sia così? E poi, ciò vale più per le donne o più per gli uomini?

Verrebbe da dire: più per le donne. Siamo delle eterne romantiche, non è forse così? Noi ci pensiamo alla prima cotta e a tutto ciò che abbiamo sperimentato, in amore, per la prima volta. E loro, gli uomini, ci pensano? E che dire di quell’insano proposito di incontrare nuovamente quel lui o quella lei che mai abbiamo dimenticato?

Secondo uno studio inglese, il romanticismo non è prerogativa delle donne. Il 24% degli uomini intervistati ha ammesso di pensare al primo amore e il 19% dei londinesi avrebbe addirittura riallacciato i rapporti con la ex all’insaputa dell’attuale compagna. Non scappatelle innocenti ma vere e proprie storie che rischiano di diventare ben più durature della precedente relazione. Mentre le donne tendono a chiudere definitivamente con il partner e se ci ripensano, è solo per questioni di sesso. Almeno così ammettono le intervistate.

Secondo gli esperti questi ritorni di fiamma sarebbero deleteri. «Il primo amore tende a lasciare una grande impronta emotiva in ognuno di noi –spiega lo psicologo Cary Cooper della Lancaster University al “Daily Mail” – e ci spinge a dimenticare le cose che allora non funzionavano per farci vedere tutto foderato di rosa. Ma è un errore pensare che possa essere lo stesso di 10 o 20 anni fa, perché le circostanze sono cambiate, noi stessi siamo cambiati».

Ma cosa spinge a ripensare ai vecchi tempi? Sicuramente l’insoddisfazione per il rapporto attuale, anche a costo di ricadere nella trappola di una storia sbagliata. E come si fa a riprendere i contatti con le ex o gli ex? Oggi galeotto non è un libro, come accadde molto tempo fa a Paolo e Francesca, ma Facebook. Il social network più famoso al mondo, nato per ritrovare vecchi compagni di scuola, ha ormai travalicato gli angusti confini del “ehi tu, ma non eri in classe con me al liceo?” per approdare al più diretto “ehi, tu, ma non venivi a letto con me tanto tempo fa?”. E sono le donne a preferire FB mentre gli uomini si fidano più degli sms o delle e-mail … sempre che abbiano scoperto il numero di cellulare e l’indirizzo di posta elettronica delle ex. Ma i rischi sono molti, nel caso di persone che si incontrano nuovamente ma che hanno in piedi delle relazioni sentimentali con altri.

“Niente sesso siamo inglesi”, celebre titolo della commedia teatrale scritta da Anthony Marriot & Alistair Foot nel 1971, pare ormai superata come battuta.
E noi italiani come ce la caviamo con gli/le ex? Per quanto mi riguarda, non faccio ricerche su Internet. Anche perché penso che sia molto più semplice per i miei ex trovare me (Google dà circa 522,000 risultati in 0.33 secondi) piuttosto che per me trovare loro. 🙂

Battute a parte, non saprei come scegliere l’approccio. Come potrei mentire spudoratamente dicendo “sai per caso ti ho trovato …”? Il caso vuole che non si trovi mai ciò che si cerca. E poi, anche ammesso che si riesca a superare l’imbarazzo iniziale, si rischia di portare la conversazione su argomenti banali come famiglia, lavoro, città in cui si vive … ma è possibile riassumere venti o trent’anni della propria vita in poche parole senza la certezza di suscitare l’interesse dell’interlocutore?
Da evitare assolutamente, secondo me, il rivangare i vecchi tempi. Se si è degli ex è più che evidente il fatto che un tempo si era stati una coppia e poi uno dei due aveva mandato a monte quell’idillio. Sì, perché è estremamente difficile che, specie parlando di primo amore e quindi di un evento avvenuto in un’età in cui con tutta probabilità non si era pienamente coscienti, si sia giunti alla rottura di comune accordo. Allora che fare? Rimproverare l’abbandono all’altro, dirgli/le che è stato/a proprio uno/una str°°°o/a? Oppure spostare l’attenzione sul terzo incomodo, su quella persona che aveva causato la rottura? Perché c’è quasi sempre il terzo o la terza. Inutile prendersi in giro. Magari il nuovo incontro potrebbe svelarne l’esistenza, nel caso si fosse ignari del tutto. In questo caso credo ci voglia un buon autocontrollo per non serbare rancore e sfogare la propria rabbia.

Ricapitolando, due sono le eventualità: quella di voler rivedere chi abbiamo amato e ci ha lasciati facendoci soffrire da cani oppure quella di voler ricontattare chi avevamo lasciato e, dopo venti o trent’anni, ci siamo resi conto di aver commesso l’errore più madornale della nostra vita.
Ma in entrambi i casi mi chiedo: come possiamo immaginare la reazione dell’altro/a? Diamo per scontato che una rimpatriata sia comunque gradita, anche solo per fare una chiacchierata tra vecchi amici? Ma non eravamo stati davvero degli amici … E poi, perché mai dovrebbe interessarci una persona, di cui ignoriamo la vita che ha condotto per qualche decennio?

[fonte per la notizia: Il Corriere]

LIBRI: “LA RAGAZZA DELLE ARANCE” di JOSTEIN GAARDER

PREMESSA
Ho fatto molta fatica, anni fa, a leggere “Il mondo di Sofia”, successo planetario dello scrittore norvegese Jostein Gaarder. Difficile seguire il doppio piano narrativo, quello del vero e proprio racconto e quello che si può definire una specie di compendio filosofico. Io non ho mai amato la filosofia e me ne rammarico. Al liceo avevo un insegnante troppo buono che si accontentava dell’argomento a piacere quindi, a occhio e croce, di tutto il programma triennale devo aver studiato più o meno dodici argomenti a piacere. Non me ne ricordo nemmeno uno. Poi ho cercato di recuperare all’università ma alla fine ho fatto solo l’esame di Filosofia medievale dato che era obbligatorio solo uno, a scelta, e quello era più attinente al mio percorso di studi.
Quando in libreria ho incontrato nuovamente questo autore, qualche settimana fa, non mi sono lasciata condizionare dal pregiudizio. Ho letto sulla quarta di copertina la trama del romanzo e mi ha subito conquistata. E per fortuna non mi sono pentita di averlo scelto.

L’AUTORE
Jostein Gaarder, classe 1952, è uno scrittore norvegese. Dopo aver studiato filosofia, teologia e letteratura, è stato professore di filosofia per dieci anni. Il suo promo romanzo è stato pubblicato nel 1986 ma il successo internazionale è arrivato agli inizi degli anni novanta con il romanzo Il mondo di Sofia. L’opera, pubblicata in Norvegia nel 1991, è stata tradotta in una quarantina di lingue; in Italia è stata pubblicata nel 1994, ed ha vinto il Premio Bancarella nel 1995. (da Wikipedia)

IL ROMANZO
Georg Røed è un ragazzo di quindici anni che vive a Humleveien assieme alla mamma, Jørgen, suo patrigno, e Miriam, la sorellina di sei mesi che la mamma ha avuto dal secondo marito. Il papà di Georg è morto undici anni prima lasciandogli in eredità la sua passione per l’astronomia. Tanto che il giovane ha appena finito di preparare una tesina sul telescopio spaziale Hubble Space Telescope, da presentare ai compagni di scuola. Non sono molti i ricordi che Georg ha del padre, la cui malattia e la conseguente scomparsa avevano segnato profondamente la famiglia, ma l’adolescente ha bene impressa una notte passata ad osservare le stelle in compagnia del papà, poche settimane prima del ricovero in ospedale.

La vita scorre tranquillamente per undici anni finché compare dal passato una lettera del padre e irrompe di prepotenza nella quotidianità del giovane Georg, fatta di scuola, amici, giochi, simile a quella di tanti suoi coetanei. Una sera i nonni paterni, che vivono in un’altra città, si presentano alla porta di casa e consegnano al nipote un pacco di fogli. Dicono di averli trovati per caso nella fodera del vecchio passeggino rosso di Georg, custodito in un ripostiglio. Appare chiaro, a questo punto, il motivo per cui il padre Jan aveva chiesto espressamente che quel passeggino non fosse mai buttato via. Una quindicina di fogli, un racconto, una lettera del padre della cui esistenza tutti erano all’oscuro. Una lettera per Georg che viene consegnata nelle sue mani perché nessuno la deve leggere, almeno, non prima che la legga il legittimo destinatario.

Quando il ragazzino si trova tra le mani la busta sigillata su cui c’era scritto semplicemente “Per Georg”, è colto da una serie di interrogativi:

Non era la scrittura della nonna, e nemmeno quella della mamma o di Jørgen. Strappai la busta e tirai fuori un grosso mazzo di fogli. Sussultai, perché in alto sulla prima pagina c’era scritto:
Sei seduto bene, Georg?
È importante che ti trovi una posizione comoda, perché ora ti racconterò una storia emozionante ..
Mi girava la testa. Che cos’era? Una lettera di mio padre. Ma era autentica?
«Sei seduto bene, Georg?»
Mi sembrava di sentire il suo vocione, e non solo su video, ora sentivo la voce di mio padre come se fosse tornato di nuovo in vita e fosse seduto lì con noi in soggiorno. (pag. 13)

La lettera è, dunque, un racconto, quello della “Ragazza delle arance”, una sconosciuta che suo padre aveva incontrato per caso su un tram di Oslo quand’era diciannovenne. L’aveva colpito il giaccone arancione perfettamente in tinta con il contenuto di un grosso sacco di carta che la ragazza reggeva tra le braccia: delle arance. In quell’occasione il giovane Jan fa di tutto per attirare l’attenzione della ragazza, con il risultato di apparire in tutta la sua goffaggine. Ma in quel preciso istante sa che deve incontrarla di nuovo.

Inizia la ricerca nei luoghi in cui il padre di Georg crede di poter trovare la ragazza delle arance. Qualche volta le sfugge, altre riesce ad avvicinarla. La rincorre anche oltre i confini della Norvegia ed ottiene da lei la promessa che non l’avrebbe mai lasciato.

È una storia d’amore ma anche una riflessione sulla vita e sulla morte. Sul destino che attende tutti noi e che non possiamo scegliere. Di certo Jan avrebbe voluto un epilogo diverso, avrebbe desiderato veder crescere quel figlio che era stato costretto ad abbandonare quando aveva meno di quattro anni.
Quando Jan scrive questa lunga ed accorata lettera sa che la sua lotta contro il tempo è iniziata. È un medico e le malattie per lui non hanno segreti. Ciò, tuttavia, non rende meno doloroso l’approccio con la morte.

Devi sapere che si prova una sensazione di calore intenso sulla pelle a scrivere una lettera a un figlio che si sta per lasciare, e fa piuttosto male anche leggerla. Ma ora sei un ometto. Una volta che io sarò riuscito a fermare queste righe sulla carta, tu devi resistere a leggerle. Come hai già capito, vedo chiaramente che forse sto per staccarmi da tutto quanto, dal sole e dalla luna e da tutto ciò che è, ma soprattutto da mamma e da te. E’ la verità, e fa male.

Il racconto si chiude con una domanda rivolta dal padre al figlio:

Cosa avresti scelto se ne avessi avuta l’occasione? Avresti scelto di vivere per un breve momento sulla terra, per poi, dopo pochi anni, venire strappato da tutto quanto e non tornare mai più? Avresti rifiutato? (pagg. 163-64)

Una domanda difficile cui Georg troverà, seppur con difficoltà, una risposta.

Lo stile di Gaarner è semplice, a tratti infantile, ricco di frasi piccole ma dense di significato. È, in definitiva, un racconto nel racconto in cui si distinguono i due piani narrativi: da una parte la lettera del padre, dall’altra il racconto del figlio che serve a contestualizzare la narrazione di Jan, a presentarci i luoghi e i personaggi del suo presente e quelli del passato. Un intreccio temporale e spaziale che rappresenta la metafora della vita, con le sue sorprese, le sue incognite, ciò che dà e ciò che toglie in quell’ineluttabile trascorrere del tempo che si chiama esistenza.
Il linguaggio si adegua al narratore: lo scrivere del padre è semplice perché in realtà non sa quando Georg avrebbe letto la storia della ragazza delle arance, anche se spera che abbia l’età giusta per caprine le sfumature filosofiche; la narrazione del figlio rispecchia la sua giovane età e le sue esperienze, non è, quindi, complessa o artificiosa.

Nel complesso la lettura è emozionante. Nella sua semplicità “La ragazza delle arance” è un piccolo gioiello narrativo che riesce a trasmettere emozioni forti senza rinunciare a decantare la bellezza della vita, anche quando essa non c’è più.
Un libro da non perdere.

LE MIE (ALTRE) LETTURE

NEIL ARMSTRONG: UN GRANDE UOMO PER UN PICCOLO PASSO


Neil Armstrong, comandante della missione spaziale Apollo 11, il primo uomo ad aver messo piede sulla luna, il 20 luglio 1969, è morto all’età di82 anni in conseguenza di alcune complicazioni sopraggiunte in seguito ad un intervento chirurgico al cuore subito lo scorso 7 agosto.

Tutti ricordiamo l’allunaggio e le parole pronunciate da Armstrong nel momento in cui metteva piede sul suolo lunare: «un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l’umanità». Io non so quali vantaggi siano davvero derivati dalle missioni spaziali denominate Apollo. C’è anche qualcuno che mette in dubbio il fatto che l’allunaggio sia davvero accaduto. Stamane, commentando in famiglia la scomparsa di Armstrong, mio figlio ha detto “Un grande attore, niente di più”. Lui appartiene alla schiera degli scettici …

In ogni caso ritengo che Armstrong sia stato un grande uomo e meriti di essere ricordato per un evento di cui il mondo intero è stato quasi incredulo spettatore quel lontano giorno di luglio dello scorso secolo.

Ripubblico in parte, per l’occasione, il post che avevo scritto nel 2009 per il quarantennale.

Dell’allunaggio ricordo ben poco, ma l’atmosfera che si respirava in quel lontano 1969 non la dimenticherò mai. Ero una bambina eppure non mi persi quello storico evento, anche se probabilmente nelle lunghe ore passate davanti alla Tv fui colta dal sonno. Allora mi trovavo al mare, in vacanza. Inutile dire che nell’appartamento in affitto non c’era il televisore; non l’avevamo nemmeno a casa perché credo che i miei l’avessero acquistato un anno dopo. Al bar una folla si era riunita per assistere allo spettacolo. Noi eravamo fortunati perché avevamo il posto a sedere –a fronte, credo, di un cospicuo numero di consumazioni acquistate nelle ore passate là, senza schiodarci mai dalla sedia- e potevamo guardare agevolmente la diretta televisiva. Quelle immagini in bianco e nero mi sono passate davanti in questi giorni, innumerevoli volte. Così non riesco a capire quanto davvero mi ricordassi e quanto, invece, mi pare di ricordare vedendo Tito Stagno che annuncia, sbagliando, l’allunaggio. L’errore di Stagno, subito corretto dall’inviato negli USA Ruggero Orlando, e il bisticcio che ne seguì tra i due giornalisti, me lo ricordo benissimo. A parte il fatto che allora non mi pareva importante il momento esatto in cui il modulo lunare toccò veramente il suolo del nostro satellite, l’evento in sé mi apparve prodigioso.

Da quel giorno guardai la luna con occhi diversi. Cercavo di immaginare gli astronauti che passeggiavano, ovvero saltellavano buffamente, sul suolo lunare. Anzi, talvolta credevo di individuarne le sagome, confondendo le ombre che caratterizzano la luna osservata da quaggiù, specialmente se piena. Nonostante sapessi bene che anche la terra è sferica, o quasi, e che noi ci camminiamo sopra come se fosse piatta, mi chiedevo come facessero quegli astronauti a non cadere nello spazio. È evidente che la luna per me era più tonda o forse mi condizionavano le immagini che alla Tv venivano trasmesse: vedevo quegli uomini circondati dal buio, un buio più buio di quello che potevo osservare intorno a me di notte. Un mondo diverso, surreale. Fantasie di bambina, che altro?

Ora guardo la luna ancora una volta con occhi diversi. La vedo violata dall’uomo e incapace di difendersi da questa specie di aggressione umana. La guardo chiedendomi se mai ci sarà una stazione stabile sulla luna, una di quelle “città trasparenti” che ho visto in qualche film di fantascienza. Nel momento in cui mi rispondo di no, comprendo anche che, semmai l’uomo riuscirà a colonizzare il nostro satellite, io non ci sarò più e forse nemmeno i miei nipoti. Se li avrò.

Eppure, a quarant’anni da quel lontano dì, la NASA non ha mai smesso di pensare alla luna. Nel frattempo, però, un altro pianeta ha attirato l’attenzione di chi si occupa di missioni spaziali: Marte. Il pianeta rosso, con quel nome che trasmette la forza, quella di un dio, anzi il dio della Guerra. Quando penso a Marte non mi chiedo se mai l’uomo ci metterà piede, ma mi viene in mente la canzone di David Bowie “Life on Mars?”. C’è vita su Marte? Mah, chissà. Io sono spesso criticata in famiglia per il mio scetticismo, per il mio essere sicura che l’uomo sia davvero unico nell’universo. Non credo che da qualche parte ci possano essere degli ET che ci osservano, tantomeno sono disposta a riporre la mia fiducia nelle parole di chi dice di essere stato rapito dagli alieni. Ma so che questa è solo una mia opinione, sicuramente discutibile.

Altri scettici, però, e ben più importanti di me, hanno messo in dubbio il fatto che l’uomo sia davvero allunato quel 20 luglio del 1969. C’è chi ritiene che la missione Apollo 11 e le successive siano solo un bluff. Di recente mi è capitato sottocchio il libro di William Kaysing Non siamo mai andati sulla luna. Ho sfogliato solo alcune pagine e ne ho parlato a casa. Mio marito, fanatico filoamericano, mi ha ascoltata sgranando gli occhi. Di dubbi sulla veridicità dei fatti nemmeno parlarne, secondo lui. Mi sono sentita alquanto meschina nell’aver dubitato, anche solo per qualche ora, che la missione Apollo 11 avesse avuto luogo veramente. Però poi, senza farlo sapere al mio consorte, ho scovato un sito interessante in cui si parla dei dubbi sorti a seguito delle dichiarazioni di Kaysing e di altri che la pensano come lui. Se pensiamo che dal libro è stata tratta la sceneggiatura del film di successo “Capricorne one”, dobbiamo credere che il dubbio si è insinuato in molti americani, e non solo in loro.

Leggendo le dichiarazioni di Kaysing e le argomentazioni che porta a sostegno della sua tesi, mi sono resa conto che sono davvero convincenti. D’altra parte, dopo aver letto delle controargomentazioni qui, le mie idee si sono fatte ancor più confuse, quindi non merita che ci perda dell’altro tempo. Ma la lettura dei due siti indicati nei link merita davvero un po’ di attenzione.

Da parte mia continuerò a guardare con occhi romantici la luna, dimenticando che l’uomo c’è stato, esattamente come ho fatto nei quarant’anni che mi hanno divisa da quel lontano 20 luglio, pensando che i problemi di quaggiù siano più urgenti rispetto alle future probabili, o forse no, missioni spaziali. [LINK all’articolo originale]

ROMENO NECESSITA DI UN TRAPIANTO DI CUORE: PADOVA LO RESPINGE, UDINE LO SALVA

Faccio una premessa: ho letto la notizia su Il Corriere e, spinta dall’incredulità, ho consultato altre fonti tra cui Il Messaggero Veneto, Il Gazzettino e net1news. Siccome do per scontato che le notizie che i quotidiani, o altri mezzi di informazione, diffondono siano vere, nonostante abbia riscontrato alcune difformità, la mia riflessione si basa su ciò che ho letto considerandolo degno di fiducia.

Dunque, il fatto riguarda un trapianto di cuore. Un marinaio romeno di 53 anni, che lavora per un armatore italiano, ha avuto un infarto, definito “devastante” dai bollettini medici. Si rende, quindi, necessario un trapianto. L’uomo è degente all’ospedale di Mestre e deve essere trasferito al centro trapianti di Padova, dove, però, l’intervento viene negato. Perché? Semplice: il cittadino romeno non ha diritto ad un cuore italiano, deve essere trasferito nel suo Paese d’origine e lì operato. Come dire: moglie e cuore dei paesi tuoi.

Naturalmente la questione è molto più complessa. Da Padova fanno sapere che la decisione di non intervenire è stata dettata dalla prassi che, secondo le indicazioni del “Nord Italia Transplant“, organismo nato nel 1976 che lavora in un territorio che comprende diciannove milioni di abitanti, i cuori italiani vanno ai pazienti italiani e non agli stranieri. Così viene giustificata tale “prassi”: «Data la tragica scarsità di organi, quando un ammalato, che non è nelle nostre liste d’attesa nazionali, può essere trasportato nel suo Paese di provenienza, perché anche lì esiste un centro trapianti, lo si deve fare. E in questo caso era possibile farlo». Così si esprime il direttore sanitario dell’ospedale di Padova, Giampietro Rupolo, chiarendo che la decisione è stata presa di comune accordo con la ASL di Mestre. Naturalmente da Mestre negano il fatto.

A parte il quadro clinico del paziente che appare confuso, stando alle dichiarazioni contraddittorie dei due ospedali veneti, la Prefettura di Mestre nega l’utilizzo di un aereo per il trasferimento del rumeno in Romania dal momento che era possibile operarlo in Italia . Allora è lecito chiedersi: ma il paziente poteva essere trasferito o no? Se i bollettini parlano di un “quadro devastante” pare di no. Nel frattempo il romeno rimane in balia dei medici che si rimpallano le responsabilità e la corretta interpretazione della “prassi” sottoscritta da “Nord Italia Transplant”.

In breve: l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine accoglie l’Sos dell’ospedale dell’Angelo di Mestre dove l’uomo è ricoverato dall’8 agosto, dichiarandosi disponibile a operare. E così martedì l’equipe di Cardiochirurgia diretta dal professor Ugolino Livi, effettua, con successo, l’intervento. Spiega il primario di cardiochirurgia di Udine: «A parte la polemica con Padova devo dire invece che a Mestre il caso è stato ottimamente gestito, nella fase di emergenza, e affrontato poi nella maniera giusta. Noi abbiamo operato al meglio grazie all’assistenza che l’uomo ha ricevuto proprio all’ospedale dell’Angelo.»

Insomma un elogio allo stesso ospedale che, però, aveva rifiutato il trapianto di un cuore italiano ad un romeno. Ma c’è un altro punto su cui rimango perplessa: stando alle parole di Livi, l’uomo si trovava in una situazione di emergenza tale da dover essere operato nel più breve tempo possibile in Italia perché non era trasportabile nel suo Paese. Allora per quale motivo Padova si è rifiutata di operare? Neppure il Santo ha potuto fare un miracolo e infondere un po’ di saggezza nei medici dell’Angelo. Come dire: non c’è né Dio né Santi che tengano.

Ovviamente della vicenda si stanno occupando non solo i media, nazionali e locali, ma anche i politici. L’accusa più gettonata è quella di “razzismo sanitario“. La direzione sanitaria dell’ospedale di Udine commenta il fatto con parole appropriate: «la “Nord Italia Transplant” ha come priorità la salute delle persone, non la loro provenienza e la loro cultura.»

L’ho scritto proprio recentemente in un altro post: i friulani hanno un cuore grande così. Anche quando c’è la necessità di trapiantarne uno.

[foto ANSA]

LIGNANO IN LUTTO, UNA PENISOLA UN PO’ MENO FELICE

Non ho intenzione in questo post di parlare del massacro dei coniugi Burgato avvenuto nella loro villetta di Lignano Sabbiadoro (Udine) nella notte tra sabato e domenica. Non lo faccio perché ho letto ogni riga su questo efferato omicidio su tutti i quotidiani nazionali e locali e sempre rabbrividendo, nonostante i 36 gradi di quest’estate infuocata.

Chi, come me, ha passato più di metà dei suoi anni a villeggiare nella splendida Lignano, non può non conoscere, o almeno ricordare, i coniugi Burgato. Leggendo i vari articoli, da parte di chi li conosceva bene sono state dette tante belle parole di affetto e vicinanza. Descritti come persone oneste, grandi lavoratori, coppia affiatata, sempre pronta a dare una mano a chi aveva bisogno d’aiuto … belle testimonianze sulla cui genuinità non ho alcun dubbio. Perché i friulani sono davvero gente onesta, gente con un cuore grande così.

Ora Lignano è sotto choc ed è di questo che voglio parlare. Noi che viviamo in questa terra semplice ed onesta siamo propensi a credere di stare in un’isola felice, un luogo protetto dove, a parte i casi di criminalità minore, da cui non possiamo essere immuni, nulla di male può accadere. Leggiamo quasi con distacco, come fossero sequenze di film violenti, le notizie di cronaca nera che riguardano persone a noi sconosciute, accadute in luoghi non noti, con la presunzione di dire “qui no, non può succedere”. Eppure casi drammatici sono accaduti in passato.
Ricordo, ad esempio, l’assassinio di una quasi vicina di casa e collega, insegnante di Inglese, avvenuto parecchi anni fa da parte di uno studente minorenne a cui la poveretta dava lezioni private. Non ha ancora colpevoli, per fare un altro esempio, l’omicidio della compagna di un noto industriale del manzanese avvenuto qualche anno fa. Non dimentichiamo, poi, l’ordigno fatto esplodere sull’arenile di Lignano Sabbiadoro nel 1996, con la replica nel 2000, da unabomber dal volto ancora ignoto.
Insomma, dopo ogni fatto del genere ci sentiamo un po’ meno protetti, un po’ più esposti ma ce ne dimentichiamo presto, convinti che questa sia davvero un’isola felice.

In verità Lignano si adagia su una penisola, con i suoi otto chilometri di spiaggia dorata, da cui il nome della Lignano più conosciuta. Poi c’è Pineta e Riviera. Una penisola felice, specie in questo agosto caldo e assolato, senza nemmeno l’ombra della pioggia. Una vacanza indimenticabile per chi la sta passando da quelle parti. Ma la felicità, la tranquillità di una piccola cittadina, pulsante di vita specialmente in estate, è stata travolta da questo fatto di sangue. Da qui partono molti interrogativi, si fanno supposizioni, l’opinione pubblica, anche se quella ristretta di un paese di villeggiatura, si sostituisce al lavoro degli investigatori. Ognuno ha la sua idea, ma quella che più mi spaventa è l’irrazionale attribuzione di responsabilità sugli stranieri. Qualcuno, infatti, nei commenti ai vari articoli comparsi sul Messaggero Veneto ha subito gridato allo straniero. La solita paura del diverso si trasforma in un grido di odio che non mitiga di certo la paura stessa.

Non è mio costume esprimermi su un crimine finché non sono stati acciuffati i colpevoli, contestati i reati, svolti i processi … una mia idea ce l’ho ed è terribile. Una cosa che ho subito sentito a pelle anche se spero di sbagliarmi. Non la rivelo perché, com’è ovvio, si tratta di una illazione e, trattandosi di pubbliche esternazioni, non vorrei poi avere delle conseguenze spiacevoli. Tuttavia ritengo che chi grida allo straniero, dice che Lignano è popolata da residenti perlopiù extracomunitari, e per questo non ci si può aspettare nulla di buono, anzi, le cose andranno sempre peggio, non sa quello che dice.

Come tutti i luoghi di villeggiatura, anche Lignano è poco popolata al di fuori della stagione estiva. Presumibilmente la disponibilità di alloggi, a prezzo modico, ha attirato anche gli stranieri che forse per recarsi ogni giorno al lavoro devono farsi chilometri e chilometri, trovando tuttavia conveniente una sistemazione del genere, visto che gli affitti in città sono spesso esosi, senza contare che c’è chi se ne approfitta (e lo può fare dando in locazione un appartamento ammobiliato).

La caccia ai mostri assomiglia sempre più a una caccia alle streghe, basta su pregiudizi e sospetti infondati. Il mostro può essere il vicino di casa che parla italiano e non arabo, il parente più amato, l’amico più fidato. Ogni estate, di fronte ai fatti di sangue, psicologi, criminologi e psichiatri hanno sempre fatto a gara per dimostrare che il troppo caldo dà alla testa, che i crimini aumentano nella stagione calda. Per ora stanno zitti, per fortuna. Perché il Male esiste da sempre e non ha stagione né va in vacanza.

Fra tutti gli articoli che ho letto vi segnalo questo di Pino Roveredo per il Messaggero Veneto. S’intitola “L’ultimo bacio d’amore fra Paolo e Rosetta”. Ne riporto l’incipit:

La tragedia è come il temporale, arriva senza farsi annunciare, poi scoppia, scuote, devasta, e quando se ne va, come una beffa, ti riconsegna una consuetudine da rivivere. Quando passa il temporale, dentro quella consuetudine si è costretti a raccogliere le angosce di una confusione, e tutti i punti di domanda che si smarriscono in cerca di una risposta. Cos’è successo? E com’è potuto accadere? Ma, perché proprio a loro? Dio mio, e se toccava a me?…

A Lignano è passato un temporale, e ha lasciato sopra la ferita atroce della tragedia. In quel luogo di vacanza e mare, una cattiveria senza riposo, ha sfogato la maledizione di una furia assassina su due persone indifese, offendendo il loro diritto di vivere con l’arroganza bestiale e animale di una strage. CONTINUA A LEGGERE>>>

PER AMORE DI UNA EX

Non è la prima volta che accade né sarà l’ultima. Comperare un’intera pagina del quotidiano locale per gridare il proprio amore o, come in questo caso, cercare di riconquistare la ex, è un gesto plateale che, seppur compiuto con le migliori intenzioni, rimane un clamoroso esempio di quanto difficili siano le relazioni oggigiorno, di quanto gravi sui rapporti la difficoltà di comunicazione.

Sia ben inteso: non giudico nulla e nessuno. Il fatto che conosca personalmente i due protagonisti non significa che sappia tutti i risvolti della loro storia e, soprattutto, i motivi della rottura. Questa notizia, non recentissima ma giunta alle mie orecchie solo qualche giorno fa, mi fa riflettere e, com’è mio costume, lo faccio ad alta voce.

Dunque, lui è Mauro, ha quarant’anni, una relazione con Sara, sedici anni più giovane, che dura da parecchi anni (agli inizi la ragazza era minorenne). I due quasi tre anni fa hanno avuto una bambina che, in questa spiacevole situazione, è come sempre la vittima innocente. Ma, come dichiara Mauro al giornalista del quotidiano Il Piccolo, in questa vicenda non ci deve entrare. Se ha comprato un’intera pagina del quotidiano per cercare di convincere la sua amata Sara a fare un passo indietro, pur consapevole che c’è una possibilità su un milione che le cose vadano per il verso giusto, non l’ha fatto perché vuole riavvicinarsi alla figlia, visto che nessuno gli impedisce di vederla.

Dicevo, non mi sono noti i risvolti ma dal testo che Mauro ha fatto pubblicare il problema è lui: le pubbliche scuse ed una promessa: «Non posso cambiare il passato, ma posso dare il meglio di me stesso per darti il presente e soprattutto il futuro che meriti».

Dopo più di un mese, come pare, la situazione non è cambiata. Certo, come poteva pensare lui di riconquistare lei acquistando una pagina di giornale? Insomma, la vita è qualcosa di diverso rispetto ad un romanzetto di Federico Moccia. I tre metri sopra il cielo sono un luogo dove si può anche stare per i primi tempi, poi bisogna mettere i piedi per terra e guardare in faccia la realtà.

In questa vicenda ci sono più cose su cui riflettere:
la differenza d’età. Perché mai una ragazzina di sedici-diciassette anni va alla ricerca di un uomo più grande? Forse quello che vuole è un surrogato del padre? Oppure si sente troppo matura per i suoi coetanei? O forse cerca un uomo adulto con la speranza di andarsene da casa presto, progetto assai difficile da concretizzare con un ragazzo della sua età?
la decisione di mettere al mondo un figlio in età (quella della donna, intendo) piuttosto giovane. Avere un figlio a vent’anni o poco più al giorno d’oggi non capita di frequente. Anzi, meglio non usare il verbo “capitare” perché, almeno in questo caso, la bambina è stata voluta. Forse solo il desiderio di maternità ha spinto la giovane Sara a portare avanti la relazione?
la decisione di andarsene. Indubbiamente, con il tempo i nodi vengono al pettine. Anche l’idillio più magnifico a lungo andare diventa routine. La nascita della bimba, poi, forse ha portato a dei problemi di assunzione di ruoli e responsabilità cui i due non erano pronti. Lui ha quarant’anni, è vero. ma non è detto che si sia pronti a fare il padre solo perché l’età anagrafica è quella in cui normalmente si è padri, in certi casi anche da molto tempo. E i vent’anni di lei? Troppo pochi? Sarebbe stato diverso se avessero atteso un po’ di più per diventare genitori? Forse Sara si è resa conto che la gioventù è un periodo bellissimo che non torna più e magari la sua le sta sembrando un po’ “sprecata”?
la difficoltà di tornare indietro. Lei non ci pensa proprio. D’altra parte, com’è possibile che si possa sperare di ottenere qualcosa attraverso un gesto così plateale, quando i problemi sono rimasti irrisolti parlandosi a quattr’occhi?
E il prossimo passo di Mauro quale sarà? Forse quello di rivolgersi a Maria De Filippi e trascinare Sara a C’è posta per te?

ANTÒ FA CALDO!

Correva l’anno 2001, lo spot pubblicizzava una nota marca di tè freddo e regalava la grande notorietà ad una giovane attrice partenopea: Luisa Ranieri, ora moglie felice del commissario Montalbano, Luca Zingaretti, e madre di Emma.

Lo spot è stato un vero tormentone di quell’estate di undici anni fa e ancora adesso, con il caldo che fa e non sembra darci tregua, sarà ritornato alla mente di molti. Tutti a ricordarsi della sensuale Luisa che, nel letto, cercava di allontanare il bell’Antò perché faceva troppo caldo. Ma lui chi era? L’affascinante Edoardo Sylos Labini, attore teatrale preso in prestito dalla tv solo negli ultimi anni ed interprete di alcuni spot pubblicitari.

Nel 2004 fa il bis: nelle vesti di Antò questa volta ha al suo fianco la bella Karin Proja, altra giovane attrice, che lo mette in imbarazzo a passeggio in una città sicula (credo Siracusa) assolata e soffocata dall’afa, con le sue forme provocanti e la scollatura che più scollata di così non si può.
Naturalmente, dopo aver bevuto il solito tè freddo, Antò si precipita a casa con la dolce lei, finalmente rifocillata.

Non so perché ma, a parte il fatto che il tè in questione non è nemmeno buono e onestamente non credo abbia effetti afrodisiaci, penso che quella di Antò sia ormai una specie estinta. Infatti, più recentemente il bell’Antonio è stato sostituito da uno strafottente Ciro che per rinfrescarsi non trova di meglio da fare che … buttarsi nel mare. Naturalmente, dopo aver bevuto una bottiglietta di tè.

LIBRI: “UN GIORNO” di DAVID NICHOLLS

PREMESSA:
Il mio incontro con questo romanzo non è stato casuale. Ero in libreria e avevo già fatto i miei acquisti, ovvero la scorta di libri da leggere in queste settimane d’estate. Cercavo “La settima onda” di Glattauer ma, come capita spesso nelle librerie, giro dopo giro, pur guardando attentamente in ogni scaffale, la ricerca fu inutile. Allora mi rivolsi al banchetto informazioni e l’addetta mi trovò il romanzo in me che non si dica. Le dissi quanto mi fosse piaciuto il primo romanzo di Glattauer e di quanto temessi che il seguito non fosse all’altezza, come a volte succede quando si hanno determinate aspettative. Lei, d’un tratto, sparì, lasciandomi come una scema, per ricomparire dopo qualche secondo con in mano un romanzo. “Se le è piaciuto il romanzo di Glattauer non le può non piacere questo”. Guardai la copertina, lessi il titolo, “Un giorno”, feci mente locale e capii che l’autore non rientrava tra le mie conoscenze, diedi un veloce sguardo alla quarta, senza in verità leggere quello che sul libro veniva rivelato. Il tutto mentre un’esaltata commessa mi diceva: “L’ho letto tutto d’un fiato durante il volo per New York”. Mi lasciai sfuggire un “Be’, già quella situazione ha il potere di rendere gradevole qualsiasi cosa …”, guardando perplessa la pila di libri che già tenevo a stento tra le braccia. Mi disse che potevo anche non comperarlo, almeno non in quel momento. Pensai che la Master Card mi permetteva di realizzare almeno quel desiderio, se non proprio un viaggio a New York.
Avrei potuto intitolare questa premessa “In libreria qualsiasi consiglio non è un consiglio qualsiasi”, prendendo a prestito il celebre motto riferito alle farmacie. Avrei voluto iniziare la “recensione” con un entusiastico “Fa – vo – lo – so!!!” e invece …
Alla fine la lettura non mi è dispiaciuta. Tuttavia devo essere onesta: per le prime cento pagine (il romanzo è piuttosto corposo, ne ha 487) le parole della libraia mi martellavano in testa e non facevo altro che ripetermi quanto fossi stata scema a fidarmi del suo giudizio. Insomma, un libro per me è come un profumo: i gusti sono gusti, non a tutti piacciono le stesse fragranze, non siamo tutti portati per le stesse letture e non siamo per forza obbligati a farci piacere un libro – o un profumo – che altri esaltano. Poi, se vogliamo, questi “altri” sono milioni di lettori in tutto il mondo. Ma best seller, in fondo, significa “più venduto” mica più apprezzato. Tuttavia devo ammettere che le recensioni che ho letto sono quasi tutte positive.
Per farla breve: questo romanzo mi ha delusa all’inizio, ha iniziato ad essere interessante verso la metà per conquistarmi nell’ultimo terzo. A questo punto credo che forse dovrei rileggere la prima metà … senza pensare alla libraia e al suo entusiastico giudizio.

L’AUTORE.
David Nicholls, inglese, classe 1966, prima di dedicarsi alla scrittura ha studiato da attore ed è autore televisivo nonché sceneggiatore per il cinema. Il suo primo romanzo, Starter For Ten (2004), è diventato un film, Il quiz dell’amore, e il secondo, The Understudy, è in attesa di trasposizione cinematografica. Un giorno, uscito nel giugno 2009, è stato per dieci settimane nella classifica dei bestseller. Venduto in tutto il mondo, è diventato un clamoroso successo in Germania, il primo paese che lo ha pubblicato dopo la Gran Bretagna. (informazioni dal risvolto di copertina)

IL ROMANZO.
Un giorno (Neri Pozza, Bloom, 2009) narra la storia di un’amicizia che dura quasi vent’anni, tra alti e bassi. Lei è Emma Morley, una ragazza di modeste origini proveniente dallo Yorkshire, di cui mantiene un leggero accento, fatto che le viene più volte rimproverato. Lui è Dexter Mayhew, di buona famiglia, diciamo pure ricca, viziatissimo rampollo londinese, abituato ad ottenere tutto ciò che vuole. Una coppia che più diversa non si può, due giovani che s’incontrano, anche se si conoscono da anni, alla fine dell’università, ad Edimburgo. Una storia apparentemente scontata: un’amicizia fra un uomo e una donna che ha inizio da una notte di sesso che però nessuno dei due vuole diventi una relazione amorosa. Almeno, così pare.

La particolarità di questo romanzo è l’impostazione narrativa: ad ogni capitolo corrisponde un giorno di un anno (l’unica eccezione riguarda il 1993, suddiviso in due capitoli autonomi). La data è sempre la stessa: il 15 luglio, giorno in cui Emma e Dexter, dopo la notte di sesso, si ripromettono di mantenersi in contatto, di restare buoni amici: correva l’anno 1988. In ogni capitolo, dunque, li ritroviamo dodici mesi dopo, con le loro storie a volte parallele a volte distanti, tra alti e bassi, litigi e riconciliazioni, avventure amorose che immancabilmente non sono gradite all’altro/a. Due persone così diverse che non possono essere altro che amiche e che continuano a costituire l’uno il punto di riferimento per l’altra, e viceversa, per molti anni, a volte in modo del tutto inconsapevole, senza il sospetto che quel legame possa diventare qualcos’altro, un qualcos’altro che si chiama amore.

Emma, laureata in Letteratura, ha due sogni: fare l’insegnante e diventare una scrittrice famosa. Spesso impacciata, insoddisfatta della sua persona che ritiene essere tutt’altro che attraente, non è sicura di sé né delle sue capacità, tant’è che accetta un lavoro che Dexter considera degradante: la cameriera in un ristorante messicano. Anche quando farà “carriera” diventando direttrice del locale, secondo l’amico è uno spreco di talento e di intelligenza. Dex, invece, è sicuro di sé e sa esattamente ciò che vuole: diventare famoso e ricco nell’ambito dei media. Bello, affascinante, sfoggia abiti firmati, belle donne al suo fianco, un bell’appartamento nella Londra che conta, un’automobile da fare invidia. Dopo aver preso la laurea in antropologia, senza troppa convinzione e senza ammazzarsi di studio, inizia una brillante carriera in tv, conducendo trasmissioni televisive che Em considera inutili. È talmente travolto dal successo che inizia un viaggio di perdizione, tipico dei “belli e maledetti”, tra droga, alcol e sesso. Nessun rapporto amoroso lo soddisfa, anche quando dura abbastanza a lungo. Seppure Emma non rientri nell’ideale di donna che Dexter ha in mente, non può fare a meno di pensare a lei.

Il tempo passa e verso i trent’anni arriva il momento dei bilanci. Emma, che inizia ad assistere ai matrimoni delle vecchie compagne di studi e ai battesimi dei loro figli, è insoddisfatta della vita che conduce, passata tra relazioni di poco conto e la poca disponibilità ad investire in amore, anche di fronte ad un uomo sinceramente innamorato, Ian, che la chiede in moglie con l’unico risultato di essere lasciato. Dexter, vedendosi precipitare sempre più nel tunnel e rendendosi conto di quanto la fama sia effimera, decide di cambiare vita e lo fa affidandosi ad una donna che gli sembra l’ancora di salvezza, così dotata di quella vocazione di salvatrice che le deriva dal suo sentirsi superiore e dalla voglia di sottolineare la sua superiorità in confronto alla pochezza di Dexter. Questa donna diventerà sua moglie e la madre della sua unica figlia ma non lo salverà.

È il 15 luglio 2001. Sono passati tredici anni da quella notte di sesso a Edimburgo. La location cambia, non più Londra ma Parigi. Emma, che nel frattempo è diventata un’insegnante apprezzata, sta rincorrendo il suo secondo sogno: fare la scrittrice. Nella sua mansardina della Ville Lumière qualcosa cambierà. È solo l’inizio di un cambiamento e la fine della ricerca. Em&Dex, Dex&Em for ever.

Nell’ultima parte della narrazione fabula e intreccio non coincidono più. È come se si chiudesse un cerchio: negli ultimi capitoli ai fatti del presente si intrecciano ricordi del passato, dei flashback che ci riportano a quel giorno da cui tutto ha avuto inizio: il 15 luglio 1988.

Lo stile di Nicholls è scorrevole, per nulla noioso visto che in certe pagine Emma non rinuncia all’ironia e i dialoghi tra i due protagonisti si riducono a un botta e riposta particolarmente carino. Ciò vale anche per le relazioni che si instaurano tra gli altri personaggi. Non ci sono molte descrizioni dei luoghi che appesantirebbero la lettura, ma l’autore non rinuncia all’introspezione psicologica rendendo particolarmente “vivi” i protagonisti.

In conclusione, non posso definire questo romanzo un’opera letteraria di grande spessore e, ripeto, mi sembra molto strano che abbia riscosso un così grande successo in tutta Europa. Però è anche vero che, pur trattandosi in fin dei conti di una storia d’amore, non lo si può considerare a livello dei romanzetti rosa, alla Harmony o Liala, per intenderci. Nel complesso merita di essere letto.

Dal romanzo di Nicholls è nato, nel 2010, il film “One day”, per la regia di Lone Scherfig che ha già firmato l’incantevole An education. Lo stesso Nicholls ne ha curato la sceneggiatura, operazione non troppo difficile visto che l’impianto narrativo si presta perfettamente alla trasposizione cinematografica.
Nel video sotto potete vedere il trailer italiano del film. ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER.

A mio avviso, infatti, rivela un po’ troppo della trama del romanzo per chi volesse leggerlo e non ha ancora visto la pellicola.

LE MIE (ALTRE) LETTURE

LA VERITÀ SULL’AVE MARIA CHE NON SI PUÒ CANTARE IN CHIESA


Al momento la notizia mi aveva lasciato indifferente. Non fosse altro che per i protagonisti: da una parte lo sposo, Michele Placido, al suo terzo sì, pronunciato a 66 anni con una giovane attrice di soli 29 anni, dall’altra il solito Albano che non perde occasione per far polemica. Perché alle nozze dell’amico, il cantante pugliese era stato diffidato dal cantare l’Ave Maria di Bach-Gounod. Divieto di cui, manco a dirlo, Albano si è altamente infischiato, eseguendo, come d’accordo con gli sposi, il celebre pezzo.

Ora, messo da parte il gossip che, se non altro, ha fatto accorrere numeroso il pubblico al matrimonio che si è celebrato a Cisternino, ridente paesello in provincia di Brindisi, uno dei borghi più belli d’Italia, che male c’è a cantare in Chiesa l’Ave Maria di Bach-Gounod? Non per dire, ma l’hanno suonata anche al mio matrimonio e recentemente l’ho pure sentita ad un funerale …

Incriminata, comunque, anche l’altra celebre Ave Maria, quella di Schubert. In questo caso, pare che non sia la melodia ad essere messa sotto accusa ma il testo. parlerebbe, infatti, di “due innamorati che convivono nel peccato”; l’altro pezzo, invece, è messo al bando – dalla Chiesa di Puglia, per mezzo di una circolare del 1994 firmata dall’allora presidente della Conferenza episcopale pugliese e oggi Arcivescovo emerito a Taranto, Luigi Papa [che sia incazzato perché, nonostante il cognome, non è ancora salito al soglio pontificio?] – perché uno dei musicisti era protestante e l’editore ebreo. Insomma, quando si cerca il pelo nell’uovo in barba al tanto declamato dialogo interreligioso

Ora io mi chiedo: perché impuntarsi su un canto, tra l’altro tanto stupendo da far venire i brividi ad ogni ascolto, mentre si indulge sul fatto che lo sposo, Placido, è pluridivorziato, la coppia ha convissuto per quattro dieci anni “nel peccato” e, nel frattempo, ha messo al mondo un bimbo che ne ha due sei?

A casa mia questa si chiama ipocrisia bella e buona. Bene ha fatto, almeno questa volta, Albano ad impuntarsi e a cantare ugualmente il pezzo.

[fonte: Il Corriere; foto da questo sito]