IL DETERSIVO DI TOTTI E LA PUBBLICITÀ AL MASCHILE

“Hai provato il detersivo di Totti?”, mi chiede mia mamma.

La mia mente corre agli spot anni Settanta, dove il testimonial dello stesso detersivo per lavatrici, versione in polvere nel fustino cilindrico, era l’indimenticabile Paolo Ferrari, attore di grande talento che girava di città in città per proporre alle casalinghe di scambiare il fustino del loro detersivo preferito con due di un’altra marca. Naturalmente tutte rifiutavano.

I testimonial nella pubblicità ci sono sempre stati.

Ricordo Ernesto Calindri che, seduto a un tavolino nel bel mezzo del traffico, sorseggiava con ostentata tranquillità il “suo” amaro contro il logorio della vita moderna. Oggi come oggi, rischierebbe di essere travolto nel traffico impazzito delle città e altro che amaro: lo stress cui siamo sottoposti non è qualcosa da mandar giù con un bicchierino di amaro al carciofo.

E Tino Scotti, ve lo ricordate? Aveva un modo simpatico di convincere a ingoiare un lassativo con quel “basta la parola” che rendeva quel problema così semplice da risolvere. E dire che adesso i prodotti maggiormente pubblicizzati producono l’effetto contrario, basti pensare alla disinvoltura con la quale, uomini e donne per par condicio, fanno l’elenco dei disturbi intestinali legati al colon irritabile… a proposito di stress.

Ricordo con tenerezza il simpatico sorriso di Carlo Dapporto, nel ruolo di Agostino il cameriere, che rimane affascinato dalla cliente dai denti bianchi e splindenti (Giorgia Moll) grazie al dentifricio del capitano.

A proposito di detersivi, indimenticabile è anche l’uomo in ammollo: Franco Cerri, per provare l’efficacia del prodotto reclamizzato anche sullo sporco impossibile, stava in ammollo nella vasca da bagno. Un remind dello spot fu mandato in onda qualche anno fa (l’uomo che, con la camicia macchiata di gelato, si butta nella fontana pubblica aggiungendo il detersivo in polvere, sotto lo sguardo inorridito delle signore presenti) ma rimase un tentativo maldestro di riproporre un modello che ormai non convince più nessuno. Molto meglio Totti alle prese con la capsula 3 in 1. Almeno lui non si butta nella lavatrice per testare l’efficacia del prodotto che pubblicizza.

Erano gli anni del Carosello che per tutti, specialmente per noi bambini, era uno spettacolo irrinunciabile. Le storie raccontate erano spesso siparietti divertenti recitati da grandi attori e cantanti. Ve la ricordate Mina, testimonial di una famosa azienda che produce pasta? Lo charme della tigre di Cremona nulla ha a che fare con Claudia Gerini in camice bianco e il suo “rigorosamente”.

Ma torniamo all’uomo nella pubblicità attuale: com’è? Diciamo che o ha problemi con la dentiera, poveretto, ma li risolve grazie all’adesivo, oppure fa la pipì dieci volte a notte e non vuole dirlo alla moglie. Ma lei, intelligente, va in farmacia e acquista un integratore che fa dormire sonni tranquilli a entrambi. Consigliare il marito a farsi visitare da un urologo, no?

Gli uomini non sono tutti così sfortunati. Ci sono anche quelli belli e aitanti che danno mostra di sé, per pubblicizzare i più svariati prodotti. Qualcuno, però, mi deve spiegare perché quel giovane dal fisico michelangiolesco, per convincere il pubblico che un dato sito immobiliare con le sue proposte ti fa sentire subito a casa nel primo appartamento che vedi (una fortuna sfacciata!), deve sfoggiare il lato b desnudo: ma c’è davvero bisogno di mettere in mostra due chiappe per pubblicizzare le offerte immobiliari?

Anni fa mi sarei ubriacata di Jagermaister sentendo la voce sensuale e l’accento esotico di Raz Degan mentre pronunciava la frase: “Non bevevo Jagermeister… non so perché”.
Quel suo modo sexy di concludere lo spot con “Sono fatti miei” lo rendeva così intrigante da battere qualsiasi belloccio odierno in capacità persuasiva, anche senza esibire il lato b.

Nel ripercorrere vecchi spot mi rendo conto che forse sto invecchiando (togliamo il “forse”, va). Totti, comunque, lo lascio a mia mamma.

POSSO ANCHE DIRE «NO!»

Non so se qualcuno di voi ha letto il libro Puoi anche dire «no!». L’assertività al femminile, scritto da Beatrice Bauer, Gabriella Bagnato e Mariarosa Ventura (Dalai editore, 2012). Ad ogni modo, tratta l’assertività al femminile, ovvero quella capacità di esprimere le proprie idee in modo aperto, onesto e diretto, imparando a farlo cercando di essere ascoltati pur nel rispetto del vostro interlocutore. Ovviamente ciò vale anche per gli uomini ma le donne, si sa, cercano sempre dei compromessi, gli strumenti e i modi per non ferire gli altri facendo anche cose che non condividono (il classico detto “far buon viso a cattivo gioco”) oppure tentando di far valere le proprie ragioni senza troppa sicurezza e alla fine quasi convincendosi che no, le cose non stanno come le vediamo noi, forse hanno ragione gli altri.
Ciò, naturalmente vale anche per certi uomini, il mio discorso non vuole assolutamente sembrare sessista. Ma l’esperienza mi porta a considerare il fatto che per i maschi le cose sono davvero più semplici. Se poi hanno a che fare con donne determinate, quelle che non lasciano passare nulla, non perdonano, meditano vendetta e magari la mettono in pratica, allora i signori uomini depongono le armi e si arrendono in nome del “quieto vivere”. Quindi l’assertività al femminile è ciò che ci vuole non per dominare ma per arrivare ad un rapporto alla pari. E sto parlando di ogni ambito, da quello familiare a quello lavorativo, passando attraverso le reti di conoscenze e i legami di amicizia.

Perché è così difficile dire “no!”? Perché è così difficile dire “Signori miei, a me ‘sta cosa non va proprio giù!”?

Da bambina e da adolescente ero molto determinata. Ottenevo quasi sempre ciò che volevo adottando la furbizia: sapevo ciò che dovevo dire e come era conveniente mi comportassi per averla vinta. In altre parole: ammansivo.

Certo, non in tutte le situazioni la strategia funzionava. Diciamo che in famiglia e con gli amici sapevo fino a che punto potevo spingermi, mentre nelle situazioni che non potevo gestire la cosiddetta assertività andava a farsi benedire.

Faccio un esempio.

Da bambina ho studiato danza classica. Chi ne ha esperienza sa che la danza è “maestra di vita”, insegna il rigore e la disciplina, insegna a non accettare i propri limiti e difetti ma a cercare di superarli e di migliorarsi. Tutto ciò con grande fatica e a volte con una buona dose di umiliazioni.
Un giorno feci un bel ruzzolone giù dalle scale e il mio osso sacro ne risentì parecchio. Quel pomeriggio dovevo andare a lezione e, vive o morte, noi ballerine in erba dovevamo presentarci altrimenti la maestra, detta Crudelia Demon (non so se è chiaro il motivo del soprannome), sbraitava, naturalmente alla lezione successiva.
Mi presentai al suo cospetto dolorante e, come da prassi, feci un inchino. Spiegai, quindi, l’inconveniente e il motivo per cui quel pomeriggio non avrei potuto eseguire tutti gli esercizi. La risposta glaciale fu: «La prossima volta vedi di romperti la testa». Incassai il colpo e mi ritirai fra le lacrime, dopo aver fatto un alto inchino, pronta a eseguire, senza fiatare, i vari jeté e piqué cercando di mantenere il sorriso sulle labbra, come si conviene a una brava ballerina.
Cosa avrei dovuto fare? Forse replicare alla maestra “Brutta strega, vedi di rompertela tu quella testa vuota!”. Ma avevo avuto una buona educazione.

Crescendo ho imparato l’arte del compromesso. Tuttavia, ci sono state occasioni in cui, non potendo dire “no!”, mi sono dovuta adattare.

Altro esempio.


Insegnavo da una decina d’anni. Avendo due figli piccoli e la cattedra in montagna, per due anni consecutivi ero riuscita a ottenere l’assegnazione in una scuola cittadina. Quando con notevole ritardo (per motivi burocratici, non per causa mia) rispetto all’inizio dell’anno scolastico mi presentai alla dirigente, convinta di aver diritto alla continuità sulla cattedra dell’anno precedente, chiesi quali classi mi avrebbe assegnato, lei secca rispose: “Le darò gli avanzi”. Incassai il colpo e da quell’anno soffro di colon irritabile.
Non so se avrei ottenuto nulla ma in quella circostanza avrei dovuto rispondere: “Brutta strega, certi avanzi li farei volentieri mangiare a lei!”. Sempre a proposito della sindrome del colon irritabile…

Anche da adulta, quindi, in nome del famoso “quieto vivere” ho dovuto incassare i colpi senza protestare. In famiglia le dinamiche sono più gestibili ma quando si esce dalle pareti domestiche è molto più difficile dire “no!”.
Arrivata alla mia età ho capito che assertivi non si nasce, si diventa. E ci vuole molta pazienza nonché un buon allenamento. Magari all’inizio si pensa a quale avrebbe potuto essere il modo migliore per esprimere apertamente le idee, con educazione e rispetto, cercando di essere ascoltati. Diciamo che dopo aver messo in pratica “virtualmente” varie strategie, arriva il momento di passare dalla teoria alla pratica.

Da qualche tempo (un paio d’anni, per la precisione) ho iniziato a dire la mia anche sul lavoro. Non sempre sono stata ascoltata, intendiamoci, in democrazia la maggioranza vince, lo sappiamo, ma mi sembra almeno di aver smosso le acque. Cero, qualche muro si è alzato, qualche collega non mi saluta più, altri lo fanno a denti stretti e solo per educazione. Tuttavia, una piccola vittoria l’ho messa in tasca: ho detto “No! A me ‘sta cosa non va bene, farò come volete ma sappiate che non sono d’accordo.”. Una bella soddisfazione per una che ha spesso detto “sì” pensando “no”.

Ma il capolavoro dell’assertività l’ho messo in pratica quest’estate, in due diverse occasioni (che chiamerò “intoppi”) in qualche modo legate fra loro.

Primo intoppo.

Il 7 agosto mi scadeva la Carta d’Identità e avevo urgenza di rinnovarla perché con mio marito avevamo deciso di fare una breve vacanza in Croazia. Mi muovo verso fine giugno, vado sul sito del Comune per cercare gli orari degli sportelli e scopro che il rinnovo del documento si fa solo su prenotazione on line. Ok, clicco sul link e, amara sorpresa, scopro che il primo giorno libero è il 29 settembre. Mando mio marito all’Ufficio Anagrafe, lui spiega il problema e un usciere replica: “Si faccia il passaporto”.
Senza parole.
Non demordo. Scrivo al sindaco e, non ottenendo risposta, mi reco nel suo ufficio. Non c’è, è in ferie fino al 31 agosto. Chiedo di parlare con il vicesindaco, lo attendo (non mi sarei mossa da là nemmeno se fosse arrivato a mezzanotte!) e lui, gentilissimo, comprende il problema e mi mette in contatto con l’assessore ai Servizi Demografici con cui parlo al telefono. L’assessore, gentilissimo, mi spiega che per le urgenze c’è una prassi ma è meglio rivolgersi alla dirigente dei Servizi Demografici la quale mi informa che posso ottenere la Carta d’Identità solo presentando una prenotazione (albergo, treno o aereo) con destinazione una località oltreconfine.
Nel frattempo avevo contattato la struttura in cui avevamo soggiornato lo scorso anno e, fortunatamente, nel primo pomeriggio del giorno in cui avevo parlato con la dirigente dell’Anagrafe mi risponde una gentilissima ragazza che sa bene l’italiano e mi manda un preventivo. Con il documento in mano mi presento allo sportello e in 10 minuti ottengo l’agognato documento. Senza l’urgenza avrei dovuto attendere il 9 ottobre perché nel frattempo altri avevano prenotato.

Secondo intoppo.

Come ho detto, mio marito ed io abbiamo deciso di ritornare nello stesso albergo dello scorso anno perché ci eravamo trovati bene, la camera era ampia e dotata di ogni comfort. Non avevamo, però, fatto i conti con il fatto che quell’hotel fa parte di un grande gruppo assieme ad altre 6 strutture. Io ero, comunque, tranquilla perché nelle numerose e-mail scambiate con l’addetta alle prenotazioni mi ero più volte sincerata che la camera (nel frattempo ne aveva trovata un’altra con balcone, su mia richiesta) si trovasse nello stesso hotel dello scorso anno.
Arriviamo a destinazione e, con grande sorpresa, veniamo deviati verso una specie di dependance, limitrofa rispetto al “nostro” albergo, e accompagnati in una camera molto più piccola, trascurata (anche sporca!), con un bagno fatiscente e senza alcuna possibilità di trovare collocazione per le valigie vuote. Praticamente eravamo accampati.
Rinuncio a comunicare con la reception perché nessuno parla italiano e io quando sono agitata non riesco a esprimermi agevolmente in inglese. Non trovo proprio le parole… nel frattempo le avevo perse anche in italiano.
Afflitta da una cervicalgia che non mi dà tregua, passo una notte insonne durante la quale scrivo una e-mail alla ragazza che mi aveva contattata per la prenotazione e do un aut aut: o mi trovano un’altra sistemazione dignitosa oppure partiamo l’indomani stesso pagando solo la notte trascorsa.
Al mattino, quando scendiamo per la colazione, alla reception sanno già tutto. Si profondono in mille scuse, ci chiedono di attendere (offrono pure un caffè, noi decliniamo anche perché avremmo più bisogno di una camomilla, almeno io…) perché gli hotel del gruppo sono pieni ma garantiscono che qualcosa si trova. Dopo nemmeno 5 minuti veniamo accompagnati in un hotel vicino, molto più lussuoso, e ci viene mostrata una suite dotata di tutti i comfort: salotto con megaschermo tv, divano, tavolo da gioco con poltroncine, tavolino da lettura con poltrone giganti, camera con letto kingsize, tanto grande che io e mio marito ci perdevamo di vista, due armadi a muro, un bagno con vasca più grande di quello di casa mia, due balconcini (uno era il trionfo dei glicini e l’oasi delle api ma vabbè…) arredati con tavoli e sedie in ferro battuto.
Rimango senza parole, l’unica cosa frase che mi esce dalla bocca è “The same prize?”, “Of course!” è la risposta. E non basta: veniamo informati che il direttore, per scusarsi, è lieto di offrirci un pranzo, quando vogliamo e senza limiti di portate. Avrei preferito un massaggio gratis (uno degli hotel aveva la spa) ma vabbè…


Ripensando ai due intoppi, ho adesso molto chiaro il motivo per cui mi sono comportata così nella seconda situazione.
Avevo fatto tanto per ottenere la Carta d’Identità valida per l’espatrio, avevo contattato personalmente l’hotel dell’anno scorso, senza passare attraverso le piattaforme di prenotazione on line, convinta di poter ottenere un “trattamento di favore” in quanto cliente (in effetti nel preventivo era già stato calcolato uno sconto), non meritavo proprio di essere trattata così. Se lo scorso anno fossimo capitati in quella camera (intendo la prima, ovviamente), probabilmente non avremmo protestato ma in quell’hotel non ci avrebbero più rivisti.

Da non trascurare il fatto che avevo “carburato” un bel po’ nell’affrontare il primo intoppo. Non dico che per cambiare ci vuole poco, sarei falsa. Ci vuole tantissimo impegno, convinzione e un bel po’ di “carburante” che metta in moto l’assertività. E non è detto che funzioni sempre: anche l’automobile non va avanti in eterno senza benzina. Ogni tanto il pieno lo si deve pur fare.

[immagine animata ballerina da questo sito; immagine Cameron Diaz-prof da questo sito; immagine documenti da questo sito; immagine Hotel da questo sito; le immagini con scritte sono state realizzate con quozio.com]

QUANDO RIPENSO AL MIO PRIMO AMORE…


Se devo ripensare al mio primo amore non so esattamente a chi rivolgere la mente. Nel post dedicato a questo argomento (Il primo amore non si scorda mai ma è meglio non cercarlo), leggendo i numerosi commenti dei lettori che hanno lasciato le loro testimonianze, mi sono resa conto che non necessariamente è il primo amore a restare incollato nella nostra memoria. Infatti molti hanno parlato genericamente di un “grande amore” che non sempre coincide con il primo.

Secondo la mia esperienza, il primo forse è quello maggiormente destinato al dimenticatoio, specialmente se si è risolto in un filarino adolescenziale che ha lasciato molta tenerezza ma poche tracce di passione vera e propria. Piuttosto si tende a ricordare la prima storia importante o la “prima volta”, anche se quest’ultima può essere collegata a un episodio certamente bello della propria vita ma che si è concluso in breve tempo.

Il primo ragazzo che mi ha fatto battere forte il cuore, quando ero poco più che una bambina, ha caratterizzato sei mesi importanti della mia vita: quelli in cui ho compreso che le tante promesse fatte dagli “uomini” sono come foglie al vento. Mi lasciò per una ragazza un po’ più grande – davvero poco più grande, in realtà – da cui poteva ottenere qualcosa in più di semplici bacetti e gite domenicali sul Carso triestino. Chi vuol capire…

La mia prima storia importante risale ai tempi del liceo ed è durata due anni. Finì male, ahimè, ma di questo forse parlerò in un altro post (chissà… non so). Non l’ho più rivisto, l’ho solo intravisto molti anni dopo (ero sposata e già mamma) in una via del centro e si è girato dall’altra parte. Quando non si riesce a superare il risentimento…

Prima di passare al “terzo” vorrei soffermarmi sulla possibilità di rimanere amici fra ex. Nel secondo caso, come si è capito, non ci fu nulla da fare. Con il mio primo ragazzo, dopo una parentesi burrascosa (divenni “amica” della sua nuova ragazza e feci di tutto per intromettermi nella loro relazione, capitando “per caso” a casa di lei e rompendo le… uova nel paniere!), l’amicizia ci fu e fu anche molto bella. Non potemmo in effetti perderci di vista poiché il mio secondo amore era un compagno di classe del primo e si frequentavano regolarmente. Di costui divenni la “parrucchiera” prediletta quindi ricordo tanti tagli di capelli riusciti alla perfezione e la consapevolezza che potevo avere un mestiere in mano. Il classico piano B, per intenderci.

Il terzo ragazzo era quello di cui parlo QUI. Fu una storia breve ma intensa. Mi lasciò lui e fu molto difficile dimenticarlo anche perché trascorrevamo, con le nostre famiglie, le vacanze estive nella stessa località e frequentavamo la stessa numerosissima compagnia quindi, voglia o non voglia, almeno per quel periodo dovevamo sopportarci.

Nel frattempo io avevo incontrato mio marito e lui aveva conosciuto quella che poi sarebbe diventata sua moglie. Incredibile ma vero, lui divenne amico del mio fidanzato (tanto da proporgli di fargli da testimone di nozze!) e io amica di lei, nonostante fosse la responsabile della nostra rottura. Ciò dimostra che io non sono proprio capace di serbare rancore…

Sarei bugiarda se non dicessi che la nuova frequentazione non aveva risvegliato in noi i lontani ricordi, legati a un’esperienza della vita di entrambi difficile da dimenticare. Però ha prevalso la razionalità e la consapevolezza che tra noi qualcosa non aveva funzionato e che, a distanza di tempo e con i legami importanti che avevamo stretto con i nostri partner, un ritorno di fiamma non avrebbe portato nulla di buono.

L’amicizia durò molti anni. Matrimoni, figli, domeniche passate assieme… mai un vero e proprio ricordo di ciò che c’era stato tra noi. Eravamo amici, soltanto amici. Poi iniziammo a vederci più di rado finché la nostra frequentazione si interruppe senza traumi per nessuno. Ci sono cose che a un certo punto finiscono e amen.

Non so quanto possa essere stato interessante per i lettori questo breve excursus sui miei amori giovanili ma mi serviva per tornare all’argomento del post linkato.

Nei numerosi commenti, come dicevo, si fa spesso riferimento a un grande amore, non necessariamente il primo. Molte volte si tratta di persone felicemente sposate – almeno così si dichiarano… – che a un certo punto della vita ripensano a un antico amore e sentono prepotentemente il desiderio di un nuovo incontro. Diciamo che nell’era dei social l’obiettivo non è così difficile da raggiungere, tuttavia spesso anche un timido approccio, solo “per curiosità” e, almeno idealmente, privo di implicazioni emotive forti, può trasformarsi nell’inizio di una crisi esistenziale di cui non si aveva assolutamente sentore.

Se leggete le mie risposte, spesso volte a dissuadere più che a persuadere, faccio capire chiaramente che la “curiosità” non è abbastanza, il desiderio di incontrare un vecchio amore non è solo voglia di tenerezza. Insomma, secondo me se la vita sentimentale è appagante, non si sente nessun bisogno di rivedere una persona con cui non si avevano più contatti da 10, 20 o 30 anni. D’altra parte, se si è soli non si può riempire la solitudine anche solo fantasticando su un amore passato che, a distanza di tanto tempo, finiamo per idealizzare. La delusione è dietro l’angolo e non è esattamente il modo migliore per sollevare l’animo afflitto per la mancanza di un lui o una lei.

In particolare mi ha colpito uno degli ultimi commenti giunti, firmato da un certo Roger. Lo riporto in parte:

Ciao a tutti, sono un uomo di 49 anni sposato da 23 e con un figlio di 20. Amo mia moglie e la mia famiglia. Ho trascorso 4 anni della mia adolescenza con una ragazza. Ci siamo lasciati che ne avevo 20 ma ho sempre pensato che un pezzettino del mio cuore se lo fosse portato via. Per me è stata una storia molto importante che mi ha segnato profondamente. […] L’ho contatta e dopo un paio di mesi di chat ci siamo incontrati. […] Da quel giorno ci siamo sempre messaggiati con un progressivo aumento di intensità nei contenuti fino a un mese fa quando mi ha chiesto di rivedermi. Ovviamente ho accettato ed è stato un incontro molto passionale. Niente sesso (“solo” intensi abbracci e baci) ma un turbinio di emozioni e sensazioni meravigliose. Ci siamo ripromessi di vivere questa storia da persone mature e senza colpi di testa. Mi sono reso conto che lei mi è entrata dentro trent’anni fa e non ne è più uscita. Quello che mi fa specie è che non ho sensi di colpa nei confronti di mia moglie (che ripeto amo tantissimo) perché non la privo di qualcosa per dare all’altra, non so se mi spiego. Ciò che do alla mia ex non potrei darlo a nessun’altra.
La vita è strana…..

Roger dice di amare moltissimo sua moglie e lo ripete. Perché? Forse perché deve autoconvincersi che questa storia non può influire sulla sua vita matrimoniale. Accetta una relazione “platonica” (mica tanto, poi) perché «lei mi è entrata dentro trent’anni fa e non ne è più uscita». Conclude, quindi, dicendo che «La vita è strana…».

Personalmente non credo che la vita sia strana, non la sua almeno. Credo invece che “la terza incomoda” nel suo ménage familiare abbia un posto molto più rilevante di quanto non ammetta lo stesso Roger.

Dato che la passione ha una breve durata e le relazioni, anche molto lunghe, sono soggette a usura non nego che effettivamente il tenero ricordo di un vecchio amore possa risvegliare la curiosità di un nuovo incontro, ma ritengo che tra il pensiero e l’azione debba necessariamente esserci un freno, a meno che non ci sia davvero una crisi in atto.

Il detto “chiodo scaccia chiodo” decisamente non fa per me.

E voi vorreste incontrare una vecchia fiamma?

[Nell’immagine io e il mio “terzo amore”. © Immagine coperta da copyright. La pubblicità per la Coca-Cola è gratis. 🙂 ]

MATRIMONI E ALTRE “CORBELLERIE”

matimonio-un-annoRagazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro.

Così pensava don Abbondio quando, trovandosi nei pasticci per colpa della minaccia dei bravi di don Rodrigo, se la prende con Renzo e Lucia. “Ragazzacci” che non pensano ad altro che all’amore e addirittura vogliono sposarsi.

Ma i nostri tempi sono decisamente diversi. Ci si sposa poco, si convive di più, l’amore non è eterno, data la durata media dei matrimoni. (ne ho parlato QUI)
Nessun sacerdote condividerebbe i pensieri del curato manzoniano. Anzi, vista la crisi delle unioni celebrate davanti a Dio, i ministri della Chiesa sarebbero ben lieti di fare gli “straordinari”, celebrando matrimoni anche di notte.

Eppure ci sono “ragazzacci” che ancora pensano alle nozze. Coppie che, nonostante il rito religioso sia passato di moda, hanno ancora il coraggio di giurarsi fedeltà eterna. Ma il matrimonio come dev’essere?

L’annuncio con largo anticipo.
Sarò io strana, ma non riesco mai a fare programmi a lungo termine. La gente che prenota le vacanze da un anno all’altro (anche i miei genitori lo facevano…) non la capisco. Io non ce la farei. Sarà per questo che da vent’anni non vado in vacanza.
Prenotare l’aereo sei mesi prima per pagare di meno? Non ci penso neppure. Il pessimismo mi porta a pensare che magari succede qualcosa e perdo pure i soldi. Pochi ma li perderei comunque.
Figuriamoci se sarei capace di pensare al matrimonio un anno prima…
Eppure ci sono coppie che annunciano le nozze con largo anticipo, informando pure parenti e amici. “Siete liberi il 29 settembre del prossimo anno?”. A questa domanda posso rispondere in due modi: se sono ottimista, dico che non so nemmeno quello che farò domani; se, invece, mi trovano in giornata nera, rispondo che non so se domani sarò viva.

sposa

Il vestito della sposa.
L’abito che la donna indosserà alle nozze è di fondamentale importanza. Mesi prima – se non anni – si inizia sfogliando le riviste in cerca di ispirazione. Confesso che anch’io l’ho fatto. Poi ho scelto un abito molto diverso da quelli che mi avevano colpita sulle pagine patinate delle riviste specializzate. Ne deduco che non serva poi a molto, se non a sognare. Ammesso che si sia particolarmente romantiche.
Mi chiedo, però: ma come fai a scegliere l’abito un anno prima? Non è questione di stile – le mode cambiano ma non così in fretta – bensì di taglia. E se poi ingrassi? O magari dimagrisci per lo stress da matrimonio (a me è successo… 12 chili in tre mesi)? Vabbè, stringere il vestito si può ma allargarlo non sempre è possibile né si possono perdere i chili acquistati con la bacchetta magica.
Sarà, ma forse a causa del mio pessimo rapporto con la bilancia, acquistare il vestito un anno prima non mi sarebbe mai venuto in mente.

La scelta del ristorante.
Evidentemente questa mania di decidere di sposarsi con largo anticipo si è diffusa a macchia d’olio. Per me è incredibile che, con ben 12 mesi di anticipo, si fatichi a trovare un ristorante libero. Eppure succede. O i locali più gettonati sono pochi oppure – cosa molto più probabile – tutti i futuri sposi scelgono la data un anno prima e tutti decidono di sposarsi nello stesso periodo. Dovessi ancora convolare a nozze, per me la cosa sarebbe insopportabile.

Trucco e parrucco.
Per le spose ormai c’è il catalogo dove si possono scegliere l’acconciatura e il trucco preferiti. La scelta è ampia ma, una volta presa la decisione, non sia mai che si attenda il giorno del matrimonio per farsi fare l’acconciatura e il trucco. Le prove sono assolutamente necessarie. E non ne basta una, per carità. Metti che l’acconciatura scelta sul catalogo non sia la migliore per il tuo viso. E il trucco? Non esiste il trucco per la sposa perfetta e, soprattutto, non è detto che il make-up preferito sia proprio quello che sta bene con la tua faccia. E prova che ti riprova, spendi bigliettoni da 100 euro senza nemmeno accorgertene e del tutto inutilmente, visto che il trucco lo togli la sera prima di andare a dormire e al primo shampoo i capelli ritornano com’erano prima.
Lo ripeto: sarò strana ma non mi è mai passato per la testa – letteralmente – di fare le prove di trucco e parrucco. Mi sono affidata ciecamente alla mia parrucchiera – e non a un hair designer come si dice adesso – e per il trucco mi sono arrangiata da sola. Vi posso assicurare che l’acconciatura e il trucco hanno tenuto perfettamente dalle quattro di pomeriggio alle tre di notte. Non mi sono nemmeno tolta il velo al ristorante, per dire.

Per concludere, io davvero non capisco tutte queste complicazioni. La vita è già tanto complicata di suo…
Mi sono laureata a febbraio, ho deciso di sposarmi a maggio, a giugno ancora non avevamo trovato casa e il 31 agosto eravamo davanti al sacerdote apprestandoci a passare la vita assieme. Il vestito era ok, il ristorante l’abbiamo trovato senza difficoltà, la Chiesa non era libera il 1 settembre, come volevamo, e abbiamo accettato di anticipare al sabato precedente. Senza fare prove di trucco e parrucco ero bellissima (quale sposa non lo è?) ugualmente. Stanchissima per aver passato due mesi di preparativi intensi. Figuriamoci se avessi iniziato a pensarci un anno prima… probabilmente nel frattempo avrei deciso di non sposarmi più.

[immagine abito da sposa da questo sito]

PERCHE’ IL DDL SULLE UNIONI CIVILI E’ UNA BRUTTA COPIA DEL MATRIMONIO PER FAVORIRE I GAY

diritti-alle-coppie
Più di una volta ho affrontato, su questo blog, l’argomento “convivenza” dichiarando la necessità di una legge che tuteli le coppie che non sono sposate, in modo da garantire per esse dei diritti e, naturalmente, dei doveri.

Nel tempo sono state proposte e dibattute varie soluzioni al problema, dai cosiddetti PACS ai DICO, senza ottenere nulla a livello giuridico. Ora, tuttavia, sembra che l’approvazione del DDL Cirinnà (che risale al marzo 2013) sia diventata una priorità per il nostro governo. Vediamo perché.

Negli ultimi anni sempre più coppie omosessuali hanno chiesto presso i Comuni di residenza il riconoscimento legale del loro matrimonio contratto all’estero. Alcuni sindaci hanno dato il loro assenso per la registrazione all’anagrafe di questi matrimoni, altri si sono dimostrati contrari e il ministro dell’Interno Alfano ha diramato, già nel 2014, una circolare in cui chiedeva ai prefetti di cancellare le trascrizioni delle nozze celebrate all’estero tra persone dello stesso sesso.

Una vera e propria crociata malvista dalle associazioni gay che si appellano all’Europa – sì, quella che ci chiede sempre tutto in nome dell’unità – e minacciano ricorsi alla Corte di Giustizia Europea. Sicché, come già successo con la famigerata #buonascuola e le 90mila assunzioni dei docenti precari per evitare sanzioni (dato che la Corte Europea aveva già condannato l’Italia dai tempi della Gelmini), il governo italiano “cala le braghe” (scusatemi l’espressione colorita) e si affretta a far votare una Legge che garantirebbe agli omosessuali il riconoscimento giuridico della loro unione, pur non chiamandolo matrimonio.

Ma alle coppie eterosessuali che convivono chi ci pensa? Mi si dirà, a questo punto, che per gli etero c’è sempre il matrimonio. Certamente, ma ci sono anche coppie che non possono sposarsi. Molti preferiscono la convivenza per non impegnarsi, non lo nego. Tuttavia in alcuni casi la convivenza è un obbligo e sono pronta a portare due esempi.

Una mia conoscente ha convissuto per più di vent’anni con un uomo sposato che non ha potuto divorziare perché con la moglie aveva in comune affari e proprietà, naturalmente in regime di comunione di beni. Anche volendo mutare la comunione in separazione, non avrebbe potuto farlo senza il consenso della moglie, e comunque cambiare regime è costoso. Per farla breve, il compagno della mia conoscente, sapendo di essere gravemente ammalato, ha fatto in modo di garantirle almeno l’usufrutto a vita dell’appartamento in cui vivevano, soluzione osteggiata dagli eredi alla morte di lui e che è costata alla donna, oltre alle sofferenze morali, l’iter legale per ottenere il rispetto della volontà del compagno.

Un’altra mia conoscente ha convissuto per 20 anni con un uomo sposato la cui moglie si è sempre rifiutata di concedergli il divorzio. Ora, lo so che in certi casi ci sono dei mezzi legali per ottenere il divorzio comunque, ma vuoi per pigrizia vuoi perché forse l’uomo non si aspettava di morire così presto, alla fine la convivente è rimasta da sola, con due figli non ancora autonomi economicamente e senza un lavoro, visto che il compagno l’aveva praticamente obbligata a fare la casalinga.

Potrei aggiungere l’esempio di molti giovani che, comprando casa e arredandola, hanno speso tutti i risparmi e non hanno soldi a sufficienza per sposarsi. E non mi si venga a dire che, volendo, si va dal prete o dall’ufficiale di Stato Civile con due testimoni e il gioco è fatto. Ci sono delle convenzioni da rispettare e, sebbene al giorno d’oggi non sia così scontato che ci si sposi una sola volta nella vita, di quel giorno tutti vorrebbero avere un bel ricordo, potendo condividere la loro felicità con le persone vicine.

Tornando al DDL Cirinnà, la cosiddetta stepchild adoption non sarebbe aberrante di per sé (non sto qui a discutere sul fatto che i bambini hanno bisogno di una mamma e un papà quali figure di riferimento ecc. ecc.) se non costituisse una possibile premessa a maternità surrogate per le coppie di uomini. Per quanto riguarda le donne, la fecondazione assistita per le single è già possibile, compresa l’eterologa, e il DDL non sposterebbe di una virgola una situazione già in essere.

Su questo tema è nata una discussione sul blog dell’amica Diemme che vi invito a seguire, se interessati all’argomento.

In conclusione, a mio parere, questo DDL favorisce le unioni gay a scapito di quelle etero. Come al solito, dunque, si tratta di una discriminazione al contrario.

ZUCKERBERG: IN ARRIVO LA SOCIAL BABY E PAPA’ COMMUOVE SU FACEBOOK

Social baby
Mark Zuckerberg, 31 anni, fondatore del social network più famoso al mondo, ha annunciato sul suo profilo Facebook che lui e la moglie Proscilla, sposata nel 2012, a breve diventeranno genitori. La social baby è, appunto, una bambina, ed è stata a lungo cercata. La gravidanza, come scrive Mark sul suo profilo Fb al miliardo e 490 milioni di iscritti, sembra procedere per il meglio e pare siano limitati i rischi di un aborto. Perché il futuro papà dice questo? Perché ammette che da un paio d’anni lui e Priscilla stando tentando di mettere al mondo un figlio con scarso successo. La moglie di Mark ha infatti subito tre aborti prima dell’attuale gravidanza.

Commuovono le parole di Zuckerberg e la sua decisione di raccontare questa storia DI felicità negata e allo stesso tempo di speranza, perché serva da monito a tante coppie che non riescono a realizzare il sogno di diventare genitori.

«Al giorno d’oggi aprirsi, condividere con gli altri questo genere di problemi e discuterne assieme serve ad accorciare le distanze e a farci sentire più vicini agli altri. Anzi, fa sì che gli altri ci comprendano e allo stesso tempo per noi è più facile sopportare e sperare nel domani.
Quando ne abbiamo iniziato a parlare con gli amici [Mark si riferisce all’esperienza degli aborti, NdR] ci siamo resi conto di quanto ciò accada di frequente, tanto che molte persone che conosciamo hanno avuto lo stesso problema, riuscendo però ad avere, alla fine, dei bambini che godono di buona salute.
Speriamo che l’aver condiviso la nostra storia porterà conforto e speranza a tante persone che vivono questo tipo di esperienza, spingendole anche a condividere le loro storie

Una testimonianza toccante, a mio parere, che riesce a commuovere anche per le belle parole con le quali il futuro genitore descrive il suo stato d’animo quando pensa al futuro che lo attende:

«Quando scopri che presto avrai un bambino, ti senti così felice! Fin da subito provi a immaginare che cosa diventerà, fai progetti e inizi a sperare e sognare il suo futuro. Un’esperienza davvero unica.»
(le traduzioni, non letterali, sono mie; il testo originale potete leggerlo a questo link)

Questa bambina è una social baby fortunata e non perché nascerà in una famiglia ricca. I soldi, se non fanno la felicità, aiutano di certo a vivere serenamente però la cosa più bella è che lei avrà un papà giovanissimo e tenerissimo. A 31 anni molti coetanei di Zuckerberg perdono il loro tempo sui social scrivendo cose sciocche e inutili mentre lui già pensa al futuro che attenderà la piccola e se stesso:

«Nell’ecografia mi ha già fatto il like con il pollice all’insù, – scrive riferendosi alla figlia – pertanto sono già convinto che si prederà cura di me

[l’immagine è tratta dal sito linkato]

L’UOMO IN CASA: LA SPESA AL SUPERMERCATO

Questa è la quarta puntata de “L’uomo in casa”, tratta da un post vecchio che però rimane sempre attuale. Se la vostra dolce metà ama venire al supermercato con voi, spero sia un po’ meglio dell’esemplare preso in considerazione: mio marito.

Buona lettura!

L’uomo al supermercato.
A parte mio suocero, che non ha mai fatto la spesa né accompagnato sua moglie al supermercato, credo che oggigiorno quasi tutti gli uomini ogni tanto facciano la spesa o diano una mano alla propria compagna. In genere, l’uomo da supermercato è quello che spinge il carrello. Probabilmente le donne sono convinte che lo faccia per galanteria. In realtà il suo intento è un altro: dimostrare di essere lui padrone della situazione. Se solo provi, approfittando di un attimo di distrazione, a portarglielo via, t’insegue urlando e rivendicando il proprio diritto alla conduzione dello stesso. Talvolta l’operazione non riesce e l’uomo lo strappa letteralmente dalle mani alla sua compagna. Così succede che poi lui se ne vada per conto suo a girare fra gli scaffali mentre lei si carica di merce finché può e, arrancando, raggiunge il suo uomo – conduttore, scaraventando il carico nel carrello. Qualche volta capita che, essendo sparito il marito, si depositi la merce nel carrello altrui e te ne accorgi solo se lì ci trovi il cibo per gatti e tu il gatto non ce l’hai oppure una confezione di tampax di cui tu non hai più assolutamente bisogno.

Quando un uomo va a fare la spesa da solo è la fine: il 90% della merce acquistata è del tutto inutile e… fa ingrassare! Quando accompagna la moglie, scarica nel carrello quanto più dolci può: biscotti di ogni tipo, tavolette di cioccolata, merendine, barattoli di marmellata e di nutella … Con aria di trionfo poi ti guarda ed esclama: “sono per me, non per te; tu devi stare a dieta”.
Insomma, quando l’uomo accompagna la donna al supermercato sembra che sia in procinto di scoppiare la terza guerra mondiale. Peccato, però, che poi alla cassa, mentre lui è impegnato a stivare alla perfezione la merce nel carrello in previsione di riporla nei sacchetti che, regolarmente, dimentica in macchina, sia la donna a tirar fuori la carta di credito.

LE DONNE

VIRGINIA-WOOLF-

Le donne hanno illuminato come fiaccole le opere di tutti i poeti dal principio dei tempi. […] I nomi si affollano alla mente, e non richiamano l’idea di donne mancanti “di personalità e di carattere”. Infatti, se la donna non avesse altra esistenza che nella letteratura maschile, la si immaginerebbe una persona di estrema importanza, molto varia; eroica e meschina, splendida e sordida; infinitamente bella ed estremamente odiosa, grande come l’uomo, e, pensano alcuni, anche più grande.
Ma questa è la donna nella letteratura. Nella realtà, come osserva il professor Trevelyan, veniva rinchiusa, picchiata e malmenata.

Ne emerge un essere un essere molto strano e composito. Immaginativamente, ha un’importanza enorme; praticamente, è del tutto insignificante. Pervade la poesia, da una copertina all’altra; è quasi assente dalla storia. Nella letteratura, domina la vita dei re e dei conquistatori; nella realtà, era la schiava di qualunque ragazzo i cui genitori le avessero messo a forza un anello al dito. Dalle sue labbra escono alcune tra le parole più ispirate, alcuni tra i pensieri più profondi della letteratura; nella vita reale non sapeva quasi leggere, scriveva a malapena, ed era proprietà del marito.

[da Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé, prima pubblicazione 24 ottobre 1929]

Ho letto il saggio di Virginia Woolf l’estate scorsa. Devo essere sincera: non l’ho gradito molto. Tuttavia, recentemente l’ho riscoperto. L’occasione mi è stata data da una domanda rivolta ad un’allieva durante l’orale dell’Esame di Stato (che domani finalmente si conclude).

Partendo da questa citazione (per la verità molto ridotta rispetto al passo riportato), ho chiesto alla candidata quale fosse, secondo lei, la donna più celebrata della letteratura italiana di tutti i tempi. Avevo in mente Dante e la sua Beatrice… e chi, sennò?

Lascio da parte l’esame e mi soffermo qui a riflettere sulle parole della scrittrice inglese, che non possiamo fare a meno di condividere. La pubblicazione del saggio risale al 1929, eppure queste considerazioni non sono così lontane da una certa realtà, distante da noi occidentali, eppure abbastanza vicina, considerando il fenomeno dell’immigrazione, specie quella che interessa le popolazioni provenienti dall’area islamica.

Recentemente Papa Francesco ha difeso la dignità della donna.
«Come cristiani,- ha detto in occasione dell’udienza generale in piazza San Pietro, lo scorso aprile – dobbiamo diventare più esigenti a tale riguardo. Per esempio: sostenere con decisione il diritto all’uguale retribuzione per uguale lavoro; perché si dà per scontato che le donne devono guadagnare meno degli uomini? No! Hanno gli stessi diritti. La disparità è un puro scandalo!»

Com’è nel suo stile, non “assolve” nemmeno i testi sacri.
«È una forma di maschilismo, – ha proseguito – che sempre vuole dominare la donna. Facciamo la brutta figura che ha fatto Adamo, quando Dio gli ha detto: ‘Ma perché hai mangiato il frutto?’, e lui: ‘Lei me l’ha dato’. E la colpa è della donna. Povera donna! Dobbiamo difendere le donne, eh!”.

Ma davvero è sempre colpa della donna?

L’UOMO IN CASA E IL FERRO DA STIRO

Ecco la terza puntata del post “Gli uomini in casa, che palle!”.

Mai come in questo periodo avrei voluto un uomo che sappia stirare. Provate a stirare con una mano sola …
Al giorno d’oggi credo che siano molti gli uomini in grado di stirare – e di fare molte altre cose in casa – se non altro perchè i matrimoni o le convivenze durano molto poco e si assiste sempre più frequentemente al fenomeno dei “single di ritorno” … anzi direi quasi una nuova condizione, sempre che non decidano di tornare da mamma.

Ma che dire dei cinquantenni attuali?

L’uomo e il ferro da stiro.
Purtroppo il ferro da stiro è un oggetto sconosciuto ai più. Non dico mio suocero, ma nemmeno mio papà credo abbia mai stirato. Mio marito, più per un attacco di malinconia che per altro, in tanti anni di matrimonio ha voluto stirare solo qualche fazzoletto: dice che gli ricorda la sua infanzia, quando sua mamma lo lasciava stirare i fazzoletti … a parte che ora è solo lui ad usarli, visto che tutti gli altri utilizzano i kleenex, ma mi chiedo perché mia suocera non abbia insistito facendogli, magari, stirare anche le camicie e le lenzuola.
Gli uomini non sanno stirare ma pare abbiano anche una scarsa capacità di distinguere gli indumenti stirati da quelli che non lo sono. Oppure, pretendono che la donna-stiratrice sia alquanto sollecita nello stirare tutti gli indumenti di cui abbisognano, nonostante possiedano un numero indefinito di “doppioni”. Prendiamo, ad esempio, le camicie: perché mai, dico io, se nell’armadio trovano ben stipate diciannove camicie, vogliono assolutamente indossare, proprio quel giorno, la ventesima che è ancora da stirare?
Però ci sono donne particolarmente esigenti che istruiscono i loro uomini, grandi e piccini, ad armeggiare con il ferro a vapore. Ricordo che una mia cugina, avendo quattro uomini in casa, tra marito e figli, esigeva che ciascuno si stirasse le proprie cose. Che carattere! Ho sempre pensato che fosse un buon esempio per me e, invece, i miei tre uomini con il ferro da stiro non se la cavano proprio per niente. A parte mio figlio piccolo che ogni tanto si stira le sue cose. L’altro giorno l’ho visto armeggiare sull’asse ma ho notato che il ferro era staccato. “Che fai con il ferro spento?”, gli ho chiesto esterrefatta, anche perché lui è uno che si arrangia (sa pure cucire!!!). “Il ferro è pesante, stira anche spento”, ha risposto. Non so perché ma ho pensato di averlo sopravvalutato: lo credevo più intelligente.

L’UOMO IN CASA: LE PULIZIE

lavori domestici Mi ero ripromessa, ai primi di giugno, di ripubblicare a puntate un post che era piaciuto molto e che aveva come argomento “gli uomini in casa”. Naturalmente me ne sono dimenticata, almeno fino ad oggi. Perché? Perché oggi ho iniziato a pulire la casa alle 7 e ho terminato alle 14, essendomi messa in testa di lavare le tende della camera da letto. Il problema non è lavare le tende. Mio marito, contrariato per aver dovuto preparare il pranzo e mettersi a tavola senza di me, come tutti gli uomini crede che lavare le tende significhi: tirarle giù, metterle in lavatrice e rimetterle su. Il procedimento in effetti è corretto. Le tende a pacchetto hanno il vantaggio di non dover essere stirate perché, se messe su bagnate, con il peso metallico alla base si stirano da sole. Le donne, però, sanno bene che non si lavano le tende senza pulire gli infissi (non solo i vetri!). Dato che tirandole giù si alza un bel polverone (almeno qui di polvere ce n’è a chili, pare impossibile ma appena finito di spolverare, è già di nuovo depositata sui mobili), si deve spolverare tutto e visto che ci siamo, spostiamo comò e comodini, diamo una bella pulita dietro … e come si fa a passare uno straccio e basta? Almeno una volta all’anno (le tende le lavo solo a fine estate, tranne le tendine dei bagni e della cucina che lavo ogni sei mesi) si dovrà pure lavare con acqua e detergente. E il lampadario? Visto che ci siamo e abbiamo la scala bell’e pronta, puliamo pure quello. E la porta? Massì, l’acqua (al terzo cambio!) è ancora pulita, laviamo per bene anche la porta. Insomma, quando mio marito è rientrato e mi ha trovata ancora in alto mare (più che altro in alto … sulla scala), mi ha guardata con l’aria di chi si sta chiedendo come mai per lavare le tende (che poi è la lavatrice a farlo!) si deve impiegare così tanto tempo. Che volete che vi dica? Uomini. Buona lettura! L’uomo e le pulizie.

Diciamolo subito: per l’uomo la casa è sempre pulita. La polvere non la vede o, se la vede, è convinto che, come per il fornello che non necessita di pulizia dato che si deve cucinare ogni giorno e lo si sporca di nuovo 😦 , anche togliendola si depositerà subito quindi è inutile spolverare. Il pavimento è sempre pulito anche se in controluce si vede benissimo che c’è un dito di polvere, specie sotto il tavolo del soggiorno dove non si passa mai, e i “gatti” si rincorrono allegramente per tutta la casa, in particolar modo d’inverno quando si usano piumini e coperte. Se sfortunatamente i pavimenti sono coperti da tappeti, non solo l’uomo non nota i pelucchi che si sono formati sul tessuto, come fosse una specie di autoproduzione, tipo le foglie che crescono dalle piante, ma ritiene che sotto il tappeto non ci sia proprio nulla da pulire perché è il tappeto stesso che protegge il pavimento dal sozzume prodotto in superficie. Un luogo in cui nessun uomo entra per pulire, nemmeno mio padre che pure è diligente e segue le istruzioni di mia mamma, è il bagno. Avete presente quella vecchia pubblicità della colf che arriva in casa dei nuovi datori di lavoro armata di tavoletta profumata per il water dicendo: “Io arrivo presto, vado via presto e il water non lo lavo mai?”. Ecco: gli uomini devono aver ispirato gli autori di quello spot. E che dire del lavandino? Specie quando qualcuno sbadato preme malamente il tubetto del dentifricio, che va dappertutto meno che sullo spazzolino, o quando qualcuno si fa la barba e pulisce la testina del rasoio elettrico sbattocchiandola sul bordo o, cosa ancor peggiore, usa il rasoio tradizionale e sbattocchia il pennello con il sapone, sempre sul bordo, per eliminare quello in eccesso? Il lavandino tristemente deturpato da avanzi di ogni genere non necessita di essere lavato. Il discorso è sempre quello del fornello, purtroppo. E il pavimento del bagno? Chissà perché quando è un uomo a lavarsi le mani, lo si capisce subito dalla scia di gocce che lascia nel breve, brevissimo spazio che intercorre tra il lavandino e l’asciugamano. Non parliamo poi del bidet … E quando un uomo fa pipì, non ho mai capito il motivo per cui debba appoggiare una mano sulle piastrelle di fronte a lui, lasciando le impronte che solo noi donne vediamo. Ciò vale pure per le manate che lasciano sui vetri delle porte e delle finestre, essendo agli uomini sconosciuto l’uso delle maniglie. Insomma, tutto quello che un uomo sporca secondo lui non è necessario pulire. Quando un uomo vede una donna con lo straccio in mano, non sa dir altro che: “Ma sei proprio maniaca!”. Certo, se loro non sporcassero, noi non saremmo così maniache.