NUOVI NATI A PADOVA: SUL BRACCIALETTO AL SECONDO GENITORE LA SCRITTA “PARTNER” AL POSTO DI PAPA’

cullaDa anni nella clinica ostetrica dell’ospedale di Padova viene assegnato un braccialetto identificativo a mammma e neonato. E fin qui nulla di strano. La cosa bizzarra è che, su richiesta, la clinica fornisce anche un braccialetto per il papà.

Due mesi fa, di fronte ad una coppia omosessuale, la compagna della puerpera, che come “padre” ha indicato nome e cognome dell’amica, ha rifiutato il braccialetto con la scritta “papà”. La direzione dell’ospedale, allora, ha pensato ad una soluzione che, in teoria, non dovrebbe scontentare nessuno: la scritta “papà” sul braccialetto è stata sostituita con quella di “partner”.

«Ormai non si può più ragionare in modo tradizionale – ha spiegato il primario Giovanni Battista Nardelli -, abbiamo preso questa decisione per non offendere la sensibilità di nessuno».

Ma io chiedo: vi pare che con tutti i problemi che ci sono, uno (anzi, una) si impunti per la scritta su un braccialetto?
Oltre tutto, visto che l’assegnazione al “papà” non è obbligatoria e non ha nemmeno senso (in fondo il braccialetto viene assegnato alla puerpera per evitare “scambi” di neonati in culla), non mi pare proprio il caso che i veri papà si trovino sul braccialetto la scritta neutra e per di più straniera (anche se comunemente utilizzata al posto di “compagno/a”) di “partner”. Mi pare, inoltre, incoerente con l’obiettivo prefissato di non offendere la sensibilità di nessuno. E quella dei padri veri? Mi sembra non sia tenuta in grande considerazione.

[fonte: Corrieredelveneto]

ROMENO NECESSITA DI UN TRAPIANTO DI CUORE: PADOVA LO RESPINGE, UDINE LO SALVA

Faccio una premessa: ho letto la notizia su Il Corriere e, spinta dall’incredulità, ho consultato altre fonti tra cui Il Messaggero Veneto, Il Gazzettino e net1news. Siccome do per scontato che le notizie che i quotidiani, o altri mezzi di informazione, diffondono siano vere, nonostante abbia riscontrato alcune difformità, la mia riflessione si basa su ciò che ho letto considerandolo degno di fiducia.

Dunque, il fatto riguarda un trapianto di cuore. Un marinaio romeno di 53 anni, che lavora per un armatore italiano, ha avuto un infarto, definito “devastante” dai bollettini medici. Si rende, quindi, necessario un trapianto. L’uomo è degente all’ospedale di Mestre e deve essere trasferito al centro trapianti di Padova, dove, però, l’intervento viene negato. Perché? Semplice: il cittadino romeno non ha diritto ad un cuore italiano, deve essere trasferito nel suo Paese d’origine e lì operato. Come dire: moglie e cuore dei paesi tuoi.

Naturalmente la questione è molto più complessa. Da Padova fanno sapere che la decisione di non intervenire è stata dettata dalla prassi che, secondo le indicazioni del “Nord Italia Transplant“, organismo nato nel 1976 che lavora in un territorio che comprende diciannove milioni di abitanti, i cuori italiani vanno ai pazienti italiani e non agli stranieri. Così viene giustificata tale “prassi”: «Data la tragica scarsità di organi, quando un ammalato, che non è nelle nostre liste d’attesa nazionali, può essere trasportato nel suo Paese di provenienza, perché anche lì esiste un centro trapianti, lo si deve fare. E in questo caso era possibile farlo». Così si esprime il direttore sanitario dell’ospedale di Padova, Giampietro Rupolo, chiarendo che la decisione è stata presa di comune accordo con la ASL di Mestre. Naturalmente da Mestre negano il fatto.

A parte il quadro clinico del paziente che appare confuso, stando alle dichiarazioni contraddittorie dei due ospedali veneti, la Prefettura di Mestre nega l’utilizzo di un aereo per il trasferimento del rumeno in Romania dal momento che era possibile operarlo in Italia . Allora è lecito chiedersi: ma il paziente poteva essere trasferito o no? Se i bollettini parlano di un “quadro devastante” pare di no. Nel frattempo il romeno rimane in balia dei medici che si rimpallano le responsabilità e la corretta interpretazione della “prassi” sottoscritta da “Nord Italia Transplant”.

In breve: l’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine accoglie l’Sos dell’ospedale dell’Angelo di Mestre dove l’uomo è ricoverato dall’8 agosto, dichiarandosi disponibile a operare. E così martedì l’equipe di Cardiochirurgia diretta dal professor Ugolino Livi, effettua, con successo, l’intervento. Spiega il primario di cardiochirurgia di Udine: «A parte la polemica con Padova devo dire invece che a Mestre il caso è stato ottimamente gestito, nella fase di emergenza, e affrontato poi nella maniera giusta. Noi abbiamo operato al meglio grazie all’assistenza che l’uomo ha ricevuto proprio all’ospedale dell’Angelo.»

Insomma un elogio allo stesso ospedale che, però, aveva rifiutato il trapianto di un cuore italiano ad un romeno. Ma c’è un altro punto su cui rimango perplessa: stando alle parole di Livi, l’uomo si trovava in una situazione di emergenza tale da dover essere operato nel più breve tempo possibile in Italia perché non era trasportabile nel suo Paese. Allora per quale motivo Padova si è rifiutata di operare? Neppure il Santo ha potuto fare un miracolo e infondere un po’ di saggezza nei medici dell’Angelo. Come dire: non c’è né Dio né Santi che tengano.

Ovviamente della vicenda si stanno occupando non solo i media, nazionali e locali, ma anche i politici. L’accusa più gettonata è quella di “razzismo sanitario“. La direzione sanitaria dell’ospedale di Udine commenta il fatto con parole appropriate: «la “Nord Italia Transplant” ha come priorità la salute delle persone, non la loro provenienza e la loro cultura.»

L’ho scritto proprio recentemente in un altro post: i friulani hanno un cuore grande così. Anche quando c’è la necessità di trapiantarne uno.

[foto ANSA]

PADOVA: NETTURBINI TROPPO SOLERTI RIMUOVONO OPERA D’ARTE

Le immagini di una Napoli semicoperta dall’immondizia sono, purtroppo, cosa nota. C’è da chiedersi come mai nelle nostre città le aziende municipali o private non lasciano i rifiuti sulle strade e diligentemente svuotano i cassonetti, mentre a Napoli no.

Certo che a Padova i netturbini sono anche troppo solerti: loro la spazzatura non la lasciano per strada o sui marciapiedi, svuotano i cassonetti e si prodigano per far sì che l’immondizia e i rifiuti, specie se particolarmente voluminosi, non rimangano ben in vista, a deturpare il paesaggio e ad ostacolare il transito dei cittadini. Non si lamentano nemmeno, evidentemente, se qualche incivile abbandona sul pubblico suolo rifiuti ingombranti, quelli che in teoria sarebbero da portare nelle piazzole ecologiche, sempre a voler essere civili.

I netturbini di Padova sono dei gran lavoratori ma non sono, tuttavia, particolarmente sensibili nei confronti delle opere d’arte. Anche se siamo d’accordo sul fatto che c’è arte e arte, e che qualche opera artistica pare proprio robaccia, degna dell’inceneritore. E così, ignorando che in questi giorni in città, in occasione della rassegna «Artisti al Muro», erano state installate opere d’arte a cielo aperto, gli incauti operatori hanno caricato sul camion e mandato all’inceneritore un’opera dell’artista Isabella Facco, Legg-io.

Al danno, però, è stato posto rimedio: una copia di Legg-io è stata subito riportata in via Zabarella, da dove era stata rimossa. Onde evitare altre rimozioni, l’opera è stata posizionata ad alcuni centimetri di altezza da terra e, accanto ad essa, è stata anche installata una targhetta (più visibile della prima) che «certifica» che si tratta di un’opera d’arte.

Ah, questi artisti incompresi! Meno male che non era un esemplare unico. 🙂

[notizia e foto da Il Corriere]

IL NATALE DEGLI ALTRI: GLI ARMENI


Ho avuto modo di approfondire le mie conoscenze sulla storia degli Armeni grazie alla lettura di un libro bellissimo e allo stesso tempo molto toccante per la crudezza del racconto: La masseria delle allodole di Antonia Arslan. Nel romanzo la scrittrice, di origine armena ma nata in Italia, ha ripercorso la storia della sua famiglia, ricostruendola attraverso i racconti che l’unico sopravvissuto, il nonno Yerwant, le ha lasciato in eredità. Una storia di sofferenza e persecuzione, una storia che porterà alla decimazione di un intero popolo costretto alla diaspora.

Quella degli Armeni è solo una delle tante diaspore che caratterizza la storia dell’uomo, di quella cosiddetta civiltà che ha ben poco di civile, essendo spesso contraddistinta dall’odio nei confronti del prossimo. La popolazione armena, a partire dal 1914, subì dapprima la deportazione e poi il genocidio: da 1.000.000 a 1.500.000 di Armeni vennero eliminati nelle manieri più atroci. In pratica i due terzi della popolazione armena residente nell’Impero Ottomano fu soppressa e regioni, per millenni abitate da armeni, non ospiteranno più, in futuro, nemmeno uno di essi. Circa 100.000 bambini vengono prelevati da famiglie turche o curde e da esse allevati smarrendo così la propria fede e la propria lingua.
Considerando tutti gli Armeni scampati al massacro il loro numero non supera le 600.000 unità.

armeni in italia

In Italia la principale comunità armena, nata dalla diaspora, è quella residente a Milano, composta da un migliaio di elementi. La comunità, pur essendo perfettamente integrata nella società che l’ha accolta, costituisce una realtà molto coesa nella quale vengono mantenute vivissime le tradizioni della lingua d’origine, la religione storica e la lingua madre parlata anche dalle generazioni più giovani. La comunità cui appartiene, invece, la scrittrice Arslan (il cui cognome originale era Arslanian) è quella di Padova. Nella città di Sant’Antonio, la professoressa Arslan ha insegnato Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea, pubblicando anche numerosi saggi sulla narrativa popolare e d’appendice. (per altre informazioni sulla storia degli Armeni vedere a questo LINK)

Venendo al festeggiamento del Natale, per gli Armeni la data da ricordare è quella del 6 gennaio, in concomitanza con la tradizionale festa dell’Epifania. C’è da dire che quella convenzionalmente attribuita dalla Chiesa cattolica alla commemorazione della nascita di Gesù, il 25 dicembre, è abbastanza “recente”. Essa fu, infatti, scelta successivamente al III secolo, con la volontà di sovrapporre la festività cristiana alle celebrazioni per il solstizio d’inverno (tipiche del nord Europa) e alle feste dei Saturnali romani che si svolgevano dal 17 al 23 dicembre.

Le altre comunità cristiane che si sono scisse dalla Chiesa Cattolica generalmente hanno scelto date diverse (6 o 7 gennaio), anche se poi si sono adattate a celebrare la Natività del Signore il 25 dicembre. La chiesa armena di Gerusalemme, però, utilizza il calendario giuliano e la festività cade il 19 gennaio.

Dopo che il Cristianesimo divenne religione di Stato (con l’editto di Tessalonica del 380, promulgato dall’imperatore Teodosio), iniziano a verificarsi i vari scismi orientali. Nel 551, in disaccordo con alcuni dogmi, dopo il Concilio di Dwin, la Chiesa Armena si separa dalla Chiesa di Roma. Nasce, dunque, la Chiesa Apostolica Armena.

Grazie anche all’integrazione raggiunta da queste piccole comunità di Armeni in occidente, le tradizioni natalizie assomigliano alle nostre. Ad esempio, quella del pranzo di Natale e dello scambio dei doni. Garante Baba è il Babbo Natale armeno che porta i regali ai bimbi, alla vigilia, mentre il giorno di Natale, ovvero il 6 gennaio, s’imbandiscono le tavole per ospitare, come nelle migliori tradizioni, amici e parenti.

Il pasto comincia con dei mézés, che corrispondono all’aperitivo.
Poi la tavola si riempie dei più svariati piatti: soudjour (salsicce speziate)), pasterma (fette di carne molto fini rivestite di pasta speziata), dolma (foglie di vite al riso), tourchi (verdure all’aceto), beurég (calzone al formaggio), uova sode, sardine all’olio, insalata di fagioli bianchi, formaggio bianco (féta).
Il piatto forte può essere composto da keuftés (polpettine di carne fritte) accompagnate da verdure (bamia) e da boulghour (cereale antichissimo originario della Turchia, si può consumare come il couscous) e ornate con capelli d’angelo. Sulla tavola si può trovare anche una faraona o un tacchino al posto dei keuftés, (il costume locale lo esige).

doolce armenoAlla fine del pasto vengono serviti i dolci: il più tipico è il gatnabour, specie di riso al latte cosparso di cannella, poi c’è il pakhlava (sfoglia di noci e mandorle, tagliata preferibilmente a rombi, preparata con la pasta fillo, nota anche in Grecia con il nome di baklava) che costituisce il grande classico riservato ai giorni di festa, dato che la sua preparazione è molto lunga. Insieme ai dolci, si serve anche il caffè e sulla tavola si lascia della frutta secca e fresca, come arance e mandarini, che rimangono a disposizione fino alla fine della festa.

Non mi resta che augurare a tutti gli Armeni: SHENORAAVOR NOR DARI YEV PARI GAGHAND!

[LINK della fonte; l’immagine – Madonna armena – è tratta da questo sito]

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[POST AGGIORNATO IN DATA 4 GENNAIO 2013. Immagine Armeni da questo sito; immagine dolce armeno da questo sito]

PADOVA: DOCENTE ESASPERATO DÀ UN MORSO SUL COLLO ALL’ALLIEVO DISUBBIDIENTE. DENUNCIATO DAI GENITORI

A leggere la notizia c’è da non crederci: uno studente dell’Istituto tecnico Cardano di Piove di Sacco (Padova), di fronte all’invito del prof a togliersi le cuffie dell’IPod, sarebbe rimasto indifferente, tanto da scatenare l’ira dell’insegnante. Quest’ultimo, evidentemente esasperato, avrebbe prima schiaffeggiato e poi morso sul collo l’allievo indisciplinato che sarebbe ricorso alle cure dei sanitari: venti giorni di prognosi e una bella denuncia per il docente che avrebbe abusato dei mezzi di correzione e causato lesioni al ragazzo, al culmine di una furibonda lite. Pare siano addirittura volate sedie e banchi.

Fin qui la notizia. Ora, però, vorrei riflettere sull’episodio e dimostrare che nessuno, in questa penosa vicenda, ha completamente torto e nessuno ha completamente ragione.

Iniziamo dall’allievo: se ascoltava la musica con le cuffie durante la lezione, è evidente che qualcuno glielo lascia fare. Non so che materia insegni il prof denunciato, tuttavia so che qualche collega, specie quelli che insegnano delle discipline che implicano un lavoro manuale (disegno, plastica ecc) permettono l’ascolto della musica che, in alcuni casi, favorirebbe anche la creatività.
È evidente che il ragazzo ha sbagliato, anche se, ripeto, forse qualche insegnante glielo permette altrimenti non capisco l’iniziativa e non credo sia isolata. Ha sbagliato soprattutto a non ubbidire; per prima cosa le regole si rispettano, anche quelle dettate dal singolo insegnante che deve dire ai ragazzi quello che devono e non devono fare, quello che possono fare e quello che è assolutamente vietato. Deve, inoltre, essere chiaro sulle eventuali punizioni, in modo che ogni studente sappia esattamente a cosa va incontro nel momento in cui trasgredisce. In parole povere, si chiama “patto formativo“.

Analizziamo ora l’atteggiamento dell’insegnante. Ha fatto bene a chiedere allo studente di togliersi le cuffie e a pretendere che ubbidisca immediatamente. Il mancato rispetto da parte del ragazzo nei confronti del docente porta quest’ultimo a perdere credibilità se non pretende che le regole vengano osservate. Di fronte al rifiuto dell’allievo, presumibilmente, ha perso la pazienza. Se si è arrivati ad una lite, con conseguenze simili a quelle di un alterco scoppiato in qualche saloon del far west, è evidente che ha agito d’impulso, esasperato dall’atteggiamento del ragazzo che forse non era nuovo a questo tipo di insubordinazione. Altrimenti non mi spiego come si possa arrivare a quel punto. Tuttavia, un docente è prima di tutto un esempio da seguire: cosa ha trasmesso alla sua classe, schiaffeggiando e mordendo sul collo l’allievo? Un atteggiamento lesivo, a livello fisico e psicologico, che assomiglia più ad una reazione istintiva animalesca piuttosto che umana.
Cosa avrebbe dovuto fare, quindi, il professore? Al rifiuto, sollecitare il ragazzo ad eseguire l’ordine. Poi, di fronte all’impassibilità dello studente, mettere una nota sul registro, affidare la classe alla sorveglianza del personale ausiliario e portare il reo dal Dirigente Scolastico. Quest’ultimo avrebbe redarguito il ragazzo, avvertito la famiglia e, probabilmente, riunito il Consiglio di Classe per eventuali provvedimenti disciplinari.

Veniamo ora alla reazione dei genitori. Indubbiamente hanno un figlio maleducato e ne devono essere coscienti. Chi si comporta così con degli adulti che esercitano una legittima autorità, normalmente fa di peggio entro le mura domestiche. Diciamo che la gioventù d’oggi è restia a rispettare le regole e in famiglia l’educazione è assai difficile da impartire. Tuttavia, di fronte all’episodio descritto, avrebbero dovuto prima pretendere un chiarimento e poi punire il figlio (forse l’hanno fatto, non è dato saperlo).
Da genitore, avrei accettato uno schiaffo ma il morso non l’avrei tollerato. Credo, quindi, che la denuncia l’avrei fatta, senza colpevolizzare il solo insegnante, però.

In sintesi, secondo il mio parere gli unici che hanno agito in modo legittimo sono i genitori. Per quanto possano essere indulgenti nei confronti del figlio e forse un po’ carenti dal punto di vista educativo, non hanno sbagliato ad agire per vie legali.

Infine, un docente può ben arrivare all’esasperazione, ma deve, in quanto essere razionale, agire trattenendo gli istinti.
Leggendo i commenti sul Gazzettino (il quotidiano che riporta la notizia) ho potuto constatare che la maggior parte si dimostra solidale con il docente e condanna, senza nemmeno conoscerli, i genitori definendoli incapaci di educare il figlio. C’è pure qualcuno che difende il prof adducendo come motivo di tale esasperazione la riforma Gelmini. È vero, a scuola quest’anno il clima non è dei migliori e si percepisce molto malumore. Tuttavia, considerare il ministro Mariastella Gelmini corresponsabile di quanto è accaduto nell’istituto di Piove di Sacco mi sembra quantomeno azzardato.

[l’immagine è tratta da questo sito]

ERRARE HUMANUM EST … ANCHE SUGLI STEMMI DEI VIGILI DEL FUOCO

Quando si dice “deformazione professionale”: un docente di Latino e Greco al liceo classico “Tito Livio” di Padova ha trovato un errore nel motto, fresco di conio, inciso sullo stemma del Corpo Nazionale dei Vigili del fuoco.
Potrebbe sembrare che noi docenti cerchiamo apposta gli errori, sempre intenti a sgamare gli ignoranti. Tuttavia, questa volta si tratta di un errore madornale per chi conosce la lingua latina nelle sue regole essenziali, un errore che anche uno studentello avrebbe potuto facilmente notare. Il motto, in cui è pure evidente una figura retorica, il chiasmo, che ricondurrebbe ad una certa cura prestata da parte dell’ideatore, recita: “Flammas domamus, donamus cordem” che, anche nella traduzione “Domiamo le fiamme, doniamo il cuore”, si basa sull’assonanza dei due verbi.

Ma l’errore dov’è? Ahi ahi ahi, sta proprio in quel cordem che in latino proprio non esiste. Il sostantivo cor, cordis, infatti, è neutro, quindi l’accusativo singolare, come del resto il plurale, è identico alla forma del nominativo. Va da sé che la forma corretta è cor, non cordem.

Il professor Giuliano Pisani, accortosi dell’errore, l’ha segnalato ma non tanto per puntare il dito sull’ignoranza dell’artefice del motto, quanto per intervenire prima che si facciano i gonfaloni e quanto altro.

Mi sembra il caso di dire: sursum corda! che non significa “un sorso di corda”, naturalmente. Giusto per sdrammatizzare, il detto latino, che deriva dalla liturgia cristiana, vuol essere un incoraggiamento per chi dovrà rifare gli stemmi e “quanto altro”! Preghiamo, è il caso di dirlo, che non commettano altri errori.

[fonte: Il Gazzettino]