LA GIUSTIZIA DEFICIENTE by MASSIMO GRAMELLINI

Sul quotidiano La Stampa, all’interno della rubrica Buongiorno, Massimo Gramellini commenta così la sentenza del Tribunale di Palermo che ha condannato ad un anno di carcere Giuseppa Valido, 59 anni, insegnante ormai in pensione:

Nella primavera del 2007, a Palermo, un alunno di scuola media aveva canzonato un compagno, dandogli simpaticamente del finocchio e facendolo simpaticamente piangere davanti a tutta la classe. La vecchia professoressa di lettere si era accanita contro il mattacchione e, anziché spedirlo ai provini di «Amici», lo aveva messo dietro il banco a scrivere cento volte sul quaderno «io sono un deficiente». Lui aveva scritto cento volte «deficente» senza la i, dimostrando così di avere le carte in regola per sfondare non solo in tv ma anche in Parlamento. Poi era corso a lamentarsi da papà, che di fronte all’affronto intollerabile inferto al ramo intellettuale della famiglia aveva denunciato la prof ai carabinieri, non prima di averle urlato in faccia: «Mio figlio sarà un deficiente, ma lei è una gran c…».

C’è voluto del tempo per ottenere giustizia, però ieri alla fine l’aguzzina è stata condannata: un anno di carcere con la condizionale per abuso di mezzi di disciplina, nonostante l’accusa avesse chiesto solo 14 giorni. Che vi serva da lezione, cari insegnanti. La prossima volta che un alunno umilierà un compagno di fronte a tutti, aggiungete al coro il vostro sghignazzo e non avrete nulla da temere. A patto che l’umiliato non si impicchi in bagno, come altre volte è accaduto, perché allora vi accuseranno di non aver saputo prevenire la tragedia. E il simpatico umorista di Palermo finalmente vendicato? Lo immaginiamo ormai cresciuto, tutto suo padre, intento a scrivere cento volte sul quaderno «io sono intelligiente» e stavolta senza dimenticare la i.

Per il legale dell’insegnante, Sergio Visconti, «non è stata fatta giustizia. La mia cliente è profondamente offesa ed amareggiata. Si sente tradita dalle istituzioni». Di parere contrario il padre dell’alunno: «Ha avuto quello che si meritava. Doveva pagare il conto. Dopo quella punizione sono stato costretto a portare mio figlio dalla psicologo». (da Il Messaggero)

Io mi permetto solo un commento: il bambino andava punito, è vero. Non a quel modo, però. Una pubblica umiliazione se non è proprio abuso dei mezzi di correzione, va sempre evitata. Nel caso specifico, inoltre, la professoressa ha, come si suol dire, reso pan per focaccia. Il bullo ha umiliato il compagno, lei ha umiliato il bullo. Occhio per occhio dente per dente, insomma. Tutt’altro che educativo.

Insomma, una punizione esemplare, come l’utilizzo del bullo in alcuni servizi utili alla comunità, anche per far sentire l’alunno parte della comunità stessa, in cui vige la regola del rispetto reciproco. E poi il dialogo, unico strumento utile per ottenere qualcosa. E dallo psicologo avrebbero dovuto mandarlo comunque, non certo per aver subito l’umiliazione di scrivere cento volte “io sono un deficiente”.

I genitori? Be’, con un figlio così … hanno bisogno soprattutto loro di un sostegno psicologico.

ENEA E DIDONE: IL CONNUBIO


Che non sia la sposa predestinata di Enea, Didone evidentemente non lo sa. Ma ormai la passione non le dà tregua:
Intanto la regina,
già da tempo piagata
da profonda passione, nutre nelle sue vene
la ferita e si strugge di una fiamma segreta
. (l.IV, vv.1-4)
Didone, dunque, non è felice, è piagata da profonda passione, soffre per quella malattia che si chiama amore. Già Aristotele aveva classificato l’amore nell’ambito delle malattie, anzi lo considerava un male gravissimo perché porta alla pazzia. Non si dice ancora oggi “è pazzo d’amore” o “è innamorato pazzo”? Perché mai, dunque, sin dai tempi antichi amore e pazzia formano un binomio indissolubile? Perché nell’antichità la sede delle facoltà mentali non era considerata il cervello (ricordate che gli antichi egizi, mentre procedevano all’imbalsamazione, estraevano la massa cerebrale del defunto e la buttavano nella spazzatura?), bensì il cuore. L’amore colpisce al cuore e, diciamo noi, offusca la mente, quindi è inevitabile che prima o poi la passione porti alla pazzia. Sta a noi, alla nostra razionalità, stabilire qual è il limite e non oltrepassarlo. Ma chi è, come Didone, perdutamente innamorato, non ha la possibilità di ragionare.

La regina, tuttavia, possiede ancora un barlume di ragione anche se le serve per lasciarsi logorare da un dubbio:
Se non avessi deciso irrevocabilmente
di non voler mai più sposarmi con nessuno
dopo che il primo amore se l’è preso la morte
[…]
avrei forse potuto cedere a quest’unica colpa. (l.IV, vv.21-23 e 25)
La promessa fatta sulle ceneri di Sicheo la tormenta e di questi dubbi rende partecipe la sorella Anna, personaggio marginale all’interno del poema, ma che qui riveste un ruolo determinante. Ella, infatti, molto meno passionale e molto più pratica, senza mezzi termini le fa capire che la promessa di fedeltà al defunto è alquanto ridicola:
Credi che questo importi alla cenere e all’Ombra
di chi è morto e sepolto
? (l.IV, vv.44-45)
Il concetto, che Foscolo riprenderà con successo nei Sepolcri, è più che mai condivisibile. Certo, a chi è morto non importa nulla di ciò che succede sulla terra, ma nell’antichità questa convinzione non era molto diffusa perché con il modo dell’Oltretomba i vivi avevano un rapporto molto stretto: come minimo i fantasmi apparivano attraverso sogni e visioni per tormentare chi morto non era. Didone, forse, teme ciò, si preoccupa per il fatto che il rischio di un’intromissione da parte del marito defunto sia reale. Immaginatevi quale figuraccia avrebbe fatto nei confronti di Sicheo!
C’è da aggiungere che, per la stessa nobile causa, aveva già respinto Iarba e il matrimonio con lo straniero potrebbe avere anche delle ripercussioni nei rapporti di buon vicinato. Anna, però, non sembra preoccupata, anzi sostiene che, a maggior ragione, alla sorella convenga unirsi ai Troiani, formare con loro un solo popolo. Per di più dall’unione potrebbe nascere anche una gloria futura degli stessi Punici:
Che gran città vedrai sorgere, o sorella, che regni
da un tale matrimonio! Con le armi dei Teucri
a fianco, in quante imprese si leverà la gloria
dei Punici
! (l.IV, vv.61-64)

Insomma, Anna è davvero convincente. È una donna forte, un po’ calcolatrice, se vogliamo, ma quanto a carattere, non è da meno a molti eroi che, sotto la corazza, nascondono un animo debole. La logica del suo discorso convince anche Didone, ma l’aver allontanato per il momento il dubbio tormentoso della mancata fede alla parola data, non la rasserena più di tanto. Per descrivere il suo stato d’animo, Virgilio ricorre ad una similitudine molto efficace:
La fiamma le divora le tenere midolla
e sotto il petto vive una muta ferita.
L’infelice Didone arde ed erra furiosa
per tutta la città, come una cerva incauta
che –dopo averla inseguita con le frecce- un cacciatore
tra le selve di Creta di lontano ha ferito
con un’acuta saetta, lasciando senza saperlo
confitto nel suo fianco il ferro alato. Lei
corre in fuga, affannata, per le foreste e le balze
dittèe, recando infitta nel fianco la canna mortale
. (l.IV, vv.85-94)
La similitudine, però, non è originale: già Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, paragona Medea, innamorata di Giasone e timorosa della punizione paterna per aver aiutato il “nemico”, ad una cerbiatta atterrita dall’abbaiare dei cani. Certo, in Virgilio, il motivo è quello della ferita d’amore: non è forse vero che il simbolo della passione amorosa è il cuore trafitto da una freccia? Resta il fatto che lo strale in questione è quello di Cupido e dovrebbe essere indolore. Ma chi può negare che la freccia porti, talvolta, delle conseguenze inattese? Ritorna, quindi, il motivo del “mal d’amore”. La passione è qui identificata con la fiamma che divora le tenere midolla e sotto il petto, guarda un po’, vive una muta ferita. Anche il motivo della fiamma non è originale. Saffo, poetessa greca dalle dichiarate tendenze omosessuali, recitava: Serpe la fiamma entro il mio sangue ed ardo. (Ode Saffica Quei parmi in cielo fra gli dei …, traduzione di Ugo Foscolo, v.9). Ma come se ciò non bastasse, l’innamoramento annulla ogni facoltà, ogni sensazione:
More la voce, mentre ch’io ti miro,
sulla mia lingua
[…]
un indistinto tintinnio m’ingombra
gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo
torbida l’ombra
, […]
e smorta in viso come erba che langue,
tremo e fremo di brividi
…( ibidem, vv. 6-10)
Insomma, chi è innamorato non ha più voce per parlare, non sente altro che un tintinnio nelle orecchie, ha la vista annebbiata, è pallido come un cadavere e trema. Beh, non c’è da stupirsi che Aristotele identificasse nell’amore una malattia. Del resto, alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non ha provato tali sensazioni! La nostra Didone non è da meno:
Ora conduce Enea con sé per le vie, […]
Vuol parlargli e la voce a mezzo s’arresta:
ora, al cader del giorno, desidera uguale il convito
e chiede, insana, di udire ancora i travagli di Troia
e, mentre egli narra, ancora ella pende dalle sue labbra
. (l.IV, vv.74 e 76-79)

Come si fa a vivere così? Pensate quale idea si faccia Enea della regina, come minimo si chiede se ha qualche problema di arteriosclerosi! Lui non è ancora pervaso dalla fiamma d’amore, anzi per la verità non lo sarà mai, anche se non disdegna la convivenza more uxorio.
La cosa più grave è che, a causa di questa insana passione, Didone trascura i suoi doveri di regina e pare che, senza la sua guida, il popolo cartaginese non sappia fare un granché:
Cominciate,
non crescono le torri, la gioventù non si esercita
nelle armi né i porti allestisce o bastioni sicuri
in caso di guerra: restano le opere a mezzo interrotte
. (l.IV, vv.85-88)
È chiaro, anche a Giunone, che così non si può andare avanti. La dea, fieramente ostile ad Enea ma cosciente di trarne un vantaggio, propone a Venere un business: favorendo il matrimonio tra i due, Enea se ne starebbe lontano dagli italici lidi dove né Giunone né Venere vogliono che arrivi. Detto, fatto: si decide che il connubio avvenga il giorno seguente.


Durante una battuta di caccia, complice un temporale, i due si ritrovano insieme in una caverna che, guarda caso, funge da rifugio ad entrambi. Di fronte all’esaudirsi dei suoi desideri, noi potremmo pensare che la regina sia al settimo cielo; invece, fin dall’inizio, il coronamento del sogno viene descritto come una colpa. In realtà è Virgilio, narratore onnisciente, che, sapendo come la vicenda si evolverà, descrive così il connubio:
Fu quello il primo giorno di morte e l’origine prima
d’ogni sventura; non bada al suo decoro Didone,
né alla sua fama e non più vagheggia un amore furtivo;
lo chiama connubio, vela con questo nome la colpa
. (l.IV, vv.169-172)
Perché il fatto assume una connotazione tanto negativa? Perché si sa che l’unione con Enea non è destinata ad avere un futuro, si sa che Didone morirà suicida. L’unica a non saperlo è proprio la regina né ha piena coscienza di aver appena preso una decisione a scapito del suo buon nome. Però, dico io, se è vittima di una congiura divina tramata alle sue spalle, cosa può fare? La mente offuscata dall’amore non le permette nemmeno di immaginare i risvolti del suo gesto: infatti, la Fama si affretta a diffondere la notizia, distorcendone i contorni. Naturalmente le chiacchiere giungono alle orecchie dello sposo respinto, Iarba, che va su tutte le furie. D’altronde, come possiamo dargli torto? La sua proposta di matrimonio era stata rifiutata, anche se a buon diritto visto il comportamento burlone, e poi Didone si unisce al primo che capita, senza nemmeno conoscerlo!

La vita matrimoniale dei due è riassunta dall’autore in pochi versi, in riferimento alle voci che si erano diffuse per tutta la Libia:
[la Fama] narrava:
ch’era lì giunto Enea, di sangue troiano, che a lui
come a sposo or si degna d’unirsi la bella Didone;
or tutto l’inverno si godono in mutui piaceri,
obliosi del regno e presi dal turpe diletto
. (l.IV, vv.190-194)
Non dobbiamo stupirci che il moralista Virgilio si esprima con tali termini. Sarà forse l’uso di queste tinte forti ad aver influenzato Dante nella stesura del V canto dell’Inferno? Infatti, giunto nel secondo cerchio, quello dei lussuriosi, chi vi trova? Colei che s’ancide amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo (Inferno, V, vv.61-62). Naturalmente si tratta di Didone che dal poeta fiorentino viene collocata proprio qui; visto che anche il suicidio è un peccato grave (i suicidi sono relegati nel secondo girone del settimo cerchio), perché non far precipitare la regina fin laggiù? Perché, evidentemente, la sua colpa più grave è quella di essersi abbandonata a cieca passione. Ella si trova in buona compagnia: fra i lussuriosi troviamo anche Cleopatra, Elena e Paride, che certamente non potevano mancare, persino Achille, accusato di essersi lasciato vincere dall’amore per Polissena, e, naturalmente, Paolo e Francesca che incarnano il prototipo stesso della lussuria. Ma Enea dov’è? Non qui perché, pur non avendo fatto nulla per ostacolare il connubio e pur avendo trascorso l’inverno abbandonato ai mutui piaceri, non è lussurioso. Non condivide, quindi, questa colpa con Didone; sembra che Dante lo voglia discolpare perché vittima delle circostanze (come se Didone non lo fosse!). Per il sommo poeta Enea non ha colpe, tranne quella, inconsapevole, di essere pagano: lo colloca, infatti, nel Limbo, abitatore del nobile castello, coinquilino di molti altri eroi, poeti e filosofi. L’elenco è lungo: tra gli altri troviamo delle vecchie conoscenze, come Omero ed Ettore. D’altra parte, se consideriamo che Virgilio funge da guida nel regno dei peccatori, se non altro in suo ossequio era doveroso che Dante collocasse tra i grandi pagani il protagonista dell’Eneide. Inoltre, il vate doveva aver compreso che il poeta latino non nutriva una gran simpatia per Didone giacché non viene per nulla riscattata dalle sue colpe, nemmeno quando non dipendono dalla sua volontà.

Il destino dell’infelice regina è ormai segnato: l’invidioso Iarba, infatti, non perde tempo e si rivolge a Giove che, guarda caso, è suo padre (non si può nemmeno immaginare la quantità di figli che l’Olimpio aveva sparsi in giro per il mondo!) e chiede vendetta per l’oltraggio subito. A nulla è valso il tentativo del duo Venere-Giunone: infatti, il padre (dell’una) e marito (dell’altra) si affretta ad inviare il messaggero degli dei, Mercurio, da Enea, per ricordargli la missione che il Fato gli aveva affidato: deve partire, l’Italia lo aspetta.

[immagine sotto il titolo: Enea e Didone, dipinto nell’ex Palazzo vecchio Majorana di Scordia, da questo sito; Didone mostra Cartagine ad Enea, Claude Gallée detto il Lorrenese (1600-1682). Olio su tela, 1676. Amburgo, Kunsthalle, da questo sito; immagine: Enea e Didone nella grotta, olio su tela di Francesco Paolo Argentieri, tratta da questo sito]

UNA POESIA PER SAN VALENTINO

RACCOGLIMI

Vieni
inseguimi tra i cunicoli della mia mente
tastando al buio gli spigoli acuti delle mie paure.
Trovami nell’angolo più nero
Osservami.
Raccoglimi dolcemente scrollando la polvere dai miei vestiti.
Io ti seguirò.
Ovunque.

(SAFFO)

BUON SAN VALENTINO A TUTTI

[immagine da questo sito]

ARTICOLO CORRELATO: Le origini della festa di San Valentino

F-150: L’UNITÀ D’ITALIA DÀ ORIGINE AD UNA DIATRIBA TRA LA FERRARI E LA FORD


La notizia mi era sfuggita, lo ammetto. Me ne ha parlato oggi a pranzo mio figlio maggiore, appassionato di motori, Formula 1 e Rally, nonché lui stesso pilota e navigatore nelle gare di rally.

In breve: la Ferrari, mitica casa automobilistica di Maranello, ha pensato di fare un omaggio all’Italia Unita, di cui il 17 marzo prossimo ricorre il 150esimo anniversario, come ben sappiamo, battezzando F-150 la sua ultima creatura, da lanciare nella prossima stagione di F1. Fino a qui nulla da dire, almeno da parte degli ammiratori – e non – della F1 che tifano Ferrari. Ma così non è per un’altra casa automobilistica: la Ford.

Leggo solo ora la notizia pubblicata sul sito di Tgcom il 10 febbraio scorso: «Secondo la Ford (che è diretto concorrente di Chrysler, marchio che fa parte del gruppo Fiat come la rossa di Maranello), la Ferrari “ha usurpato il celebre marchio depositato F-150 annunciando una vettura da corsa di formula 1 denominata F150 e ha cominciato a fare la promozione”. La casa automobilistica americana spiega in una nota che “F-150 è un marchio stabile e importante per Ford, essendo il nome del suo modello di pick up più venduto nella serie di pick up serie F”. Questo marchio, “duramente conquistato”, è invece ora “seriamente minacciato dall’adozione del nome F150”, continua la Ford..»

Naturalmente da Maranello è giunta sollecita la replica tramite una nota che recita così: «La sigla F150 (utilizzato come abbreviativo della denominazione completa Ferrari F150th Italia) non è, né mai sarà, il nome di un prodotto commerciale, non ci sarà certo una produzione di serie della monoposto, ma, come sempre nella storia della Scuderia, rappresenta la nomenclatura di un progetto di una vettura da competizione».

Pensate sia finita così? No, perché l’ “incidente diplomatico” avrebbe rischiato di incrinare i rapporti tra Italia e Stati Uniti, di conseguenza la casa della Rossa ha fatto un passo indietro: la prossima monoposto porterà intera la denominazione e si chiamerà F150th Italia. Una sigla orribile, per giunta.

I rapporti con l’America sono salvi, ma mi chiedo: la Ferrari non poteva risparmiarsi tutto questo patriottismo che, sinceramente, pare fuori luogo? In fondo è la Rossa per antonomasia, per il tricolore mancano il verde e il bianco.

[immagine tratta da questo sito]

SARA TOMMASI, UN PRODOTTO DA VENDERE


Malvolentieri parlo di una starlette televisiva (?) che sta riempiendo le cronache dei giornali con le sue dichiarazioni in merito al caso Ruby e alle feste in quel di Arcore. Ma oggi, dopo avere letto la sua storia, non riesco a tacere, soprattutto perché mi sta a cuore il destino delle giovani ragazze, donne del domani.

Leggo su Il Corriere: Cento centesimi alla maturità scientifica, 105 in Economia delle istituzioni e dei mercati finanziari con il professor Maurizio Dallocchio alla Bocconi di Milano, nel libro “Ma le donne no” di Caterina Soffici (Feltrinelli) aveva ammesso: «Dopo quattro anni di studi, ho imparato a fare la manager di una grande azienda. In questo caso il prodotto sono io, un prodotto da vendere nel mercato dello show business». In classe non passava inosservata ai giovani assistenti, che più del suo ritardo cronico notavano l’abbigliamento, sempre elegante. Determinata, si era subito posta il problema se investire di più nel mondo dello spettacolo o in quello della finanza, e aveva scelto il campo nel quale pensava di avere qualche carta in più. Cresciuta com’era a far biscotti con nonno Emilio, nella pasticceria di famiglia, si sentiva parte di quelle «tante ragazze che non vogliono avere una vita normale».

Questa è Sara Tommasi, la stessa che all’Isola dei famosi, nel 2006, si vantava di essere una bocconiana. Una Laurea in Economia che, evidentemente, non ha saputo spendere. O forse le è convenuto rimanere nel mondo dello spettacolo in cui aveva iniziato a muovere i primi passi nel 2001. Allora mi chiedo a cosa mai le sia servita la laurea, a parte l’acquisizione di determinate competenze per vendere, al miglior offerente, se stessa. Ma, onestamente, credo che per fare ciò non serva affatto frequentare la Bocconi. Non credo che le “belle di notte” abbiano alle spalle tanto studio e cosa fanno se non vendere sé stesse?

Dopo l’Isola dei Famosi, arriva il calendario di Max, quello da appendere nelle officine meccaniche o nell’abitacolo dei camion. Sua madre, di fronte a tanto spettacolo, aveva osservato: «A me sembra che ti sei fatta togliere le mutande da tutta Italia e basta». «No, è arte», la replica.

Ora mi chiedo cosa mai possa aver pensato la povera madre di Sara Tommasi, dopoché la figlia l’altro ieri alla trasmissione radio Un giorno da pecora, ha ammesso: «Io in realtà sono troppo buona, troppo gentile, e anche per gentilezza allargo le gambe come niente, basta che uno mi è simpatico». Ma non è tutto: la povera ragazza è convinta che sfiorandola gli uomini la droghino: «Ho saputo che esistono droghe che si assumono con il contatto della pelle. Quando vengo toccata da qualcuno ho la sensazione che questa sostanza mi entri in circolo. Sento un forte formicolio e mi sento disinibita: farei sesso con il primo che mi capita».
Sarà, ma a me sembra che detti uomini non abbiano bisogno di ricorrere a certi trucchi per ottenere ciò che anche da savia offirebbe lo stesso, visto che solo ieri ha dichiarato di essere malata di sesso, precisando di non essere una escort. A me pare un po’ confusa, la povera Sara. Forse non le è chiaro il fatto che se una si definisce manager di se stessa e un prodotto da vendere nel mercato dello show business altro non è.

A questo punto faccio un appello a tutte le ragazze che mi seguono, a quelle che capitano qui per caso, alle mie allieve di oggi e a quelle di ieri: studiate, laureatevi e fate vedere quanto valete nell’unico modo in cui potete sperare di mettervi in competizione con il sesso maschile, ovvero dimostrando di essere capaci e intelligenti quanto gli uomini.
Studiare per vendere sé stesse non fa che confermare la presunzione che certi maschi hanno di potervi dominare e di considerarvi degli esseri inferiori. Non permettete che questo accada. E lo dico senza offesa per la signorina Tommasi: lei ha fatto una scelta che per me è sbagliata, ma se a lei sta bene, non sarò certo io a farle cambiare idea. Per questo non la giudico, ma mi sento in obbligo di spiegare perché un certo modello è sbagliato, visto che oggigiorno si attribuisce più importanza a ciò che si vede attraverso uno schermo televisivo piuttosto che a tutti quei modelli positivi di donne che con lo studio e la perseveranza hanno dimostrato, e continuano a dimostrare, di essere delle grandi donne in ogni ambito professionale. La foto qui sopra parla da sola.

[link immagini 1, 2 e 3]

150 DELL’ITALIA: FESTA SÌ, FESTA NO

“Italia sì, Italia no …” cantava Elio con le sue Storie Tese. Oggi, mentre si discute sulla festa nazionale che pareva già indetta per il 17 marzo, in ricordo dell’unificazione dell’Italia, la questione è un’altra: festa sì? festa no? Per il momento non è chiaro se sarà festa oppure no.

Il 20 gennaio scorso pareva che il Consiglio dei Ministri avesse deliberato per la proclamazione della festa nazionale, una tantum. In occasione del 150esimo anniversario e poi per altri cinquant’anni ci si può tranquillamente dimenticare di quest’evento. Mi chiedo, quindi, come mai altre feste civili continuino ad essere celebrate: il 25 aprile, per esempio, o il 2 giugno.

La proposta ha subito suscitato delle polemiche: la prima ad espirmere la propria contrarietà fu Emma Marcegaglia. Il Paese è in crisi, non è proprio il caso di far festa con il rischio, poi, che si faccia anche il ponte, considerato che il 17 marzo cade di giovedì. In Italia, si sa, i ponti si fanno con facilità, eccetto quello sullo Stretto di Messina di cui si parla da decenni.

A ruota segue la disapprovazione della Lega: Calderoli, infatti, sostiene che in un periodo di crisi come quello attuale appare paradossale caricarsi dei costi di una giornata festiva, un evento significativo quale il 150esimo dell’Unità d’Italia può essere celebrato degnamente lavorando e non restando a casa. Ma che tale obiezione provenga proprio dalla Lega non stupisce nessuno: come ben dice il mio amico frz40 in un commento ad un suo post, se si trattasse dell’anniversario dell’indipendenza della Padania, una settimana di festa, per Calderoli, sarebbe andata benissimo.

Ora ci si mette anche il ministro del MIUR Mariastella Gelmini, contraria alla chiusura delle scuole: «Il miglior modo di celebrare il 17 marzo e’ quello di dedicare questa giornata alla riflessione sui valori dell’Unita’ d’Italia. Io credo che, nella scuola, questo obiettivo non si raggiunga stando a casa. Non si deve equiparare l’anniversario a una qualsiasi giornata di vacanza. E’ giusto invece dedicare le ore di lezione all’approfondimento e alla conoscenza della nostra storia unitaria. In questo modo la scuola potra’ svolgere un ruolo da protagonista nelle celebrazioni».

Mi chiedo, quindi, come mai si rifletta così bene stando a casa sul significato della Liberazione, del giorno dedicato ai lavoratori o quello in cui si ricorda la nascita della Repubblica Italiana. E si riflette standosene tra le quattro mura domestiche – sempre che non lo si faccia durante un’allegra scampagnata fra amici, cosa ben più probabile – tutti gli anni, badate bene. Il 17 marzo, invece, si festeggerebbe solo quest’anno.

Lo stesso tipo di riflessione l’ha fatta anche Giorgio Rembado, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, secondo il quale «non si possono fare guerre di principio su una celebrazione così importante» e aggiunge: «poiché la ricorrenza si può celebrare solo in quell’occasione, se ne dovrà sicuramente parlare in classe, ma non è detto che si debba fare necessariamente il 17 marzo: si può anche creare un dibattito e un confronto sull’Unità d’Italia il giorno prima o il giorno dopo». E se qualcuno ha qualcosa da obiettare sul mancato rispetto dei 200 giorni di lezione, «le scuole potranno rimanere chiuse, per poi recuperare le lezioni non svolte quel giorno attraverso l’eliminazione di una delle vacanze meno rilevanti». Poiché il 25 aprile quest’anno coincide con il Lunedì dell’Angelo e il Primo Maggio cade di domenica, si potrebbe eliminare proprio quel 2 giugno che, a pochi giorni dalla fine delle lezioni, appare pure un po’ scomodo, proprio quando si devono concludere i programmi e terminare le verifiche per la salvezza dei soliti ritardatari.

Senza contare il caos che, proprio nelle scuole, si è venuto a creare. Dopo che a palazzo Chigi il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, solo pochi giorni fa, ha annunciato la festa nazionale per il 17 marzo, in molti istituti è già stato deliberato il giorno di vacanza e in alcuni casi, su richiesta dei genitori, è stato già concordato il fatidico ponte.
Ora i presidi chiedono chiarimenti e lamentano che questo clima polemico abbia contribuito a rovinare la festa.

Insomma, che si faccia o meno festa a scuola, poco importa, sinceramente. Ma è una questione di principio: la Gelmini ha, infatti, caldamente incoraggiato le attività rivolte all’educazione dei fanciulli, delle scuole di ogni ordine e grado, nell’ambito della Cittadinanza e Costituzione. Va da sé che fare un giorno di vacanza in questa occasione per gli studenti rimane sempre un’opportunità in più per dormire fino a tardi ed evitare compiti in classe ed interrogazioni. Ma quel che conta è il messaggio che si lancia: una “festa” è sentita come “vacanza” (a chi mai salterebbe in mente di andare a scuola il giorno di Natale o a Capodanno?); recarsi al lavoro o andare a scuola significherebbe non attribuire ad una “festa” il significato che le è dovuto.

La questione, secondo me, è un’altra ed è politica. Già la Lega ha mostrato la sua contrarietà, dimostrando come questa unità l’Italia ce l’abbia solo sulla carta. Poi ci sono anche le rimostranze che provengono da regioni, diciamo così, separatiste: «Non mi sembra il caso di festeggiare e posso dire che non è una questione etnica e non vogliamo offendere nessuno. I 150 anni per noi non rappresentano soltanto Garibaldi e i moti di fine Ottocento ma ci ricordano la separazione dalla nostra madrepatria austriaca. Noi non abbiamo fatto iniziative per favorire l’Unità d’Italia come altre regioni. Non volevamo nel 1919 e non volevamo nel 1945. Successivamente abbiamo accettato il compromesso dell’autonomia amministrativa. Se gli italiani vorranno parteciparvi lo possono fare, certamente noi non ci opporremo», così si esprime il presidente della giunta provinciale altoatesina, Luis Durnwalder. E noi Italiani lo ringraziamo, naturalmente.

C’è qualcos’altro da aggiungere?

Io una cosa l’avrei: VIVA L’ITALIA!

[Fonti: LINK 1, LINK 2, LINK 3 e LINK 4]

ARTICOLO CORRELATO: Friuli – Venezia Giulia: per celebrare l’unità d’Italia la bandiera asburgica al posto del tricolore?

DIANA DEL BUFALO PRONTA AL DEBUTTO CON I NUOVI AMICI DELLA GIALAPPA’S


Questo pomeriggio, durante la trasmissione del sabato di “Amici” di Maria De Filippi, abbiamo assistito ad un gustoso anticipo del prossimo appuntamento dell’ormai ex concorrente Diana Del Bufalo con i nuovi amici della Gialappa’s. (CLICCA QUI per guardare il VIDEO)

In attesa del debutto di mercoledì 9 febbraio (in seconda serata, alle ore 23 circa, su Canale 5) di Mai dire Amici, abbiamo visto una Diana strepitosa e del tutto naturale, nel senso che ormai è del tutto assodato che lei ci è, non ci fa. Riposta nell’armadio la tuta blu, Diana si è presentata nel suo old style, con gonnellona a fiori, una mise che aveva già sfoggiato nella puntata di “Amici” in cui da aspirante conquistò la maglia da titolare per il canto.

Lo scambio di battute fra Diana e i suoi nuovi “amici” ha intrattenuto il pubblico per una decina di minuti. Un ritorno in grande stile, dopo l’eliminazione, forse ingiusta, avvenuta due settimane fa, per una concorrente che, qualora non dovesse sfondare come cantante, ha già aperte davanti a sé, anzi spalancate le porte del mondo dello spettacolo.

In bocca al lupo, Diana. Nella storia decennale di “Amici” hai già lasciato un segno indelebile.

[foto tratta da questo sito]

AGGIORNAMENTO DEL POST, 10 FEBBRAIO 2011

Il debutto di Diana e i suoi amici della Gialappa’s non è andato poi così male, essendo un programma trasmesso in seconda serata: 2.529 telespettatori per il 14,03% di share.
Va un po’ meglio per Matrix, trasmesso di seguito su Canale5 (1.118 15,21%), ma la wowissima Diana riesce a battere Parla con me, trasmesso su Rai3 (1.734 12,85%).
Secondo qualcuno, di quelli della Gialappa’s si sarebbe potuto benissimo fare a meno, ma di Diana assolutamente no. E intanto si ricomincia a parlare di ripescaggio

AUTOSTRADE E VELOCITÀ: IL TUTOR IN SEI ORE MIETE 486 “VITTIME”

Una buona notizia: sulle autostrade del Friuli-Venezia Giulia e in parte del Veneto, A4 e A 23, è stato attivato il sistema di rilevazione della velocità chiamato tutor. In sole sei ore sono stati pizzicati 486 automobilisti in eccesso di velocità. Il sistema tutor ha praticamente stangato un conducente ogni minuto e mezzo, o poco più, in sei ore di attività. Il sistema andrà man mano a regime e la polizia stradale ha già avvisato che nei prossimi giorni le ore di attivazione sono destinate ad aumentare. A rischiare sono tutti gli automobilisti che corrono a una media superiore a 137 chilometri orari.

Fin qui, come ho detto, una buona notizia. Perché, percorrendo spesso un tratto della A23 e uno della A4 per andare a Trieste, mi sono resa conto che la gente corre da pazzi, sta perennemente sulla corsia di sorpasso (questi tratti ne hanno, purtoppo, solo due) e se stai sorpassando ad una velocità regolare di 120-130 km/h, ti spara gli abbaglianti costringendoti a rientri talvolta precipitosi e rischiosi.
Era ora, dico io, che facessero qualcosa per dissuadere gli automobilisti a correre a 150 km/h, se non di più. E in effetti questo è lo scopo del tutor, come precisa la Polstrada: «Il nostro obiettivo è quello di arrivare a zero fotografie scattate dal tutor, perché ciò significherebbe che abbiamo centrato l’obiettivo di aumentare la sicurezza sulle strade. Non vogliamo certo tartassare gli automobilisti, ma far capire che un limite di velocità esiste e che va rispettato».

Peccato, però, che poi indichino esattamente la dislocazione dei rilevatori automatici.

[fonte: Messaggero Veneto]

LEZIONI DI FRIULANO A SCUOLA AL COSTO DI DUE MILIONI E 650MILA EURO

Nelle scuole primarie e secondarie di I grado del Friuli-Venezia Giulia verrà impartito l’insegnamento del friulano alla modica cifra di due milioni 650 mila euro. I corsi saranno rivolti a oltre 68 mila studenti ai quali si aggiungono altri 9 mila delle scuole paritarie. L’assessore all’istruzione, Roberto Molinaro, ha comunicato ieri alla giunta i contenuti della bozza del regolamento della legge regionale (la 29 del 18 dicembre 2007) su tutela, valorizzazione e promozione del friulano.

Così, dopo il finanziamento di 35 mila euro, ottenuto nel 2009 grazie ai fondi della legge 482/99, al fine di elaborare il software per la scrittura intuitiva dei messaggini da inviare con il cellulare, scaricabile dal sito della Provincia, (QUI la notizia), un’altra iniziativa per diffondere la marilenghe fa discutere. Senza contare che il calcolo della spesa viene fatto considerando 30 ore di lezione (meno di un’ora a settimana) da impartire ad ogni allievo da parte di insegnanti che saranno impegnati oltre l’orario di servizio.

L’assessore Roberto Molinaro rende noto, tuttavia, che a tale spesa, visto il sistema di norme statali in vigore (e cioè la legge 482 del dicembre 1999, e il regolamento di attuazione del maggio 2001) deve concorrere anche il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca con il quale devono essere intraprese le necessarie intese. E qui mi permetto di sorridere.

Con tutto il rispetto per il friulano, lingua o dialetto che sia, mi domando, in primo luogo, se ci saranno docenti in grado di insegnarlo. Perché è evidente che non basta conoscerlo e usarlo tutti i giorni come lingua viva; che lo si faccia al bar giocando a briscola oppure in sala insegnanti discutendo sull’orario, fa lo stesso. E poi mi chiedo cosa penseranno di questo bizzarro insegnamento linguistico i giovani extracomunitari, quelli che magari non sanno nemmeno parlare bene l’italiano, figuriamoci scriverlo o conoscerne le regole grammaticali.

A questo proposito, mi chiedo se non sia più utile stanziare dei fondi per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri (attualmente devono accontentarsi di una ventina di ore, un numero esiguo, evidentemente, per chi ha poca dimestichezza con la lingua) o per portare sostegno ai diversamente abili, visto che il ministero non sembra preoccuparsene molto. Ah, già, dimenticavo che secondo il presidente della Provincia di Udine, Pietro Fontanini, per i disabili sarebbe meglio creare delle classi separate

E che dire dei lavori urgenti di cui necessitano molte scuole della regione? Non parlo di ristrutturazione, mi riferisco a quella ordinaria manutenzione, tipo mettere a norma i vetri delle finestre che nelle sedi più vecchie cadono al primo soffio di vento o mettere in sicurezza i controsoffitti, onde evitare tragedie come quelle verificatesi altrove, che viene trascurata per mancanza di fondi.

Insomma, il friulano, seppur meritevole di tutela in quanto lingua minoritaria, secondo me potrebbe anche aspettare. Forse sarebbe il caso di dirottare l’attenzione verso i bisogni immediati degli studenti del Friuli-Venezia Giulia, considerando che non tutti sono friulani e forse non così interessati ad impararlo in modo tra l’altro molto approssimativo.

[Fonte: Il Messaggero Veneto]

LA SCOMPARSA DI DANIELE FORMICA


Se n’è andato a soli sessant’anni per un cancro al pancreas. Daniele Formica, attore prevalentemente di teatro e doppiatore, ha partecipato a numerosi programmi televisivi Rai degli anni Settanta e Ottanta.
L’ultima volta che l’ho visto in tv, vestiva i panni di uno stravagante cameriere nella fiction “Amiche mie”. (foto sopra)

Ci ha fatto ridere, come pochi comici d’oggi sanno fare, senza volgarità.
Io lo ricordo così, nella scenetta della Telescinesi e del casco di banane.

GRAZIE DANIELE.

[foto tratta da questo sito]