![enea didone connubio](https://marisamoles.wordpress.com/wp-content/uploads/2011/02/enea-didone-connubio1.jpg?w=760)
Che non sia la sposa predestinata di Enea, Didone evidentemente non lo sa. Ma ormai la passione non le dà tregua:
Intanto la regina,
già da tempo piagata
da profonda passione, nutre nelle sue vene
la ferita e si strugge di una fiamma segreta. (l.IV, vv.1-4)
Didone, dunque, non è felice, è piagata da profonda passione, soffre per quella malattia che si chiama amore. Già Aristotele aveva classificato l’amore nell’ambito delle malattie, anzi lo considerava un male gravissimo perché porta alla pazzia. Non si dice ancora oggi “è pazzo d’amore” o “è innamorato pazzo”? Perché mai, dunque, sin dai tempi antichi amore e pazzia formano un binomio indissolubile? Perché nell’antichità la sede delle facoltà mentali non era considerata il cervello (ricordate che gli antichi egizi, mentre procedevano all’imbalsamazione, estraevano la massa cerebrale del defunto e la buttavano nella spazzatura?), bensì il cuore. L’amore colpisce al cuore e, diciamo noi, offusca la mente, quindi è inevitabile che prima o poi la passione porti alla pazzia. Sta a noi, alla nostra razionalità, stabilire qual è il limite e non oltrepassarlo. Ma chi è, come Didone, perdutamente innamorato, non ha la possibilità di ragionare.
La regina, tuttavia, possiede ancora un barlume di ragione anche se le serve per lasciarsi logorare da un dubbio:
Se non avessi deciso irrevocabilmente
di non voler mai più sposarmi con nessuno
dopo che il primo amore se l’è preso la morte […]
avrei forse potuto cedere a quest’unica colpa. (l.IV, vv.21-23 e 25)
La promessa fatta sulle ceneri di Sicheo la tormenta e di questi dubbi rende partecipe la sorella Anna, personaggio marginale all’interno del poema, ma che qui riveste un ruolo determinante. Ella, infatti, molto meno passionale e molto più pratica, senza mezzi termini le fa capire che la promessa di fedeltà al defunto è alquanto ridicola:
Credi che questo importi alla cenere e all’Ombra
di chi è morto e sepolto? (l.IV, vv.44-45)
Il concetto, che Foscolo riprenderà con successo nei Sepolcri, è più che mai condivisibile. Certo, a chi è morto non importa nulla di ciò che succede sulla terra, ma nell’antichità questa convinzione non era molto diffusa perché con il modo dell’Oltretomba i vivi avevano un rapporto molto stretto: come minimo i fantasmi apparivano attraverso sogni e visioni per tormentare chi morto non era. Didone, forse, teme ciò, si preoccupa per il fatto che il rischio di un’intromissione da parte del marito defunto sia reale. Immaginatevi quale figuraccia avrebbe fatto nei confronti di Sicheo!
C’è da aggiungere che, per la stessa nobile causa, aveva già respinto Iarba e il matrimonio con lo straniero potrebbe avere anche delle ripercussioni nei rapporti di buon vicinato. Anna, però, non sembra preoccupata, anzi sostiene che, a maggior ragione, alla sorella convenga unirsi ai Troiani, formare con loro un solo popolo. Per di più dall’unione potrebbe nascere anche una gloria futura degli stessi Punici:
Che gran città vedrai sorgere, o sorella, che regni
da un tale matrimonio! Con le armi dei Teucri
a fianco, in quante imprese si leverà la gloria
dei Punici! (l.IV, vv.61-64)
Insomma, Anna è davvero convincente. È una donna forte, un po’ calcolatrice, se vogliamo, ma quanto a carattere, non è da meno a molti eroi che, sotto la corazza, nascondono un animo debole. La logica del suo discorso convince anche Didone, ma l’aver allontanato per il momento il dubbio tormentoso della mancata fede alla parola data, non la rasserena più di tanto. Per descrivere il suo stato d’animo, Virgilio ricorre ad una similitudine molto efficace:
La fiamma le divora le tenere midolla
e sotto il petto vive una muta ferita.
L’infelice Didone arde ed erra furiosa
per tutta la città, come una cerva incauta
che –dopo averla inseguita con le frecce- un cacciatore
tra le selve di Creta di lontano ha ferito
con un’acuta saetta, lasciando senza saperlo
confitto nel suo fianco il ferro alato. Lei
corre in fuga, affannata, per le foreste e le balze
dittèe, recando infitta nel fianco la canna mortale. (l.IV, vv.85-94)
La similitudine, però, non è originale: già Apollonio Rodio, nelle Argonautiche, paragona Medea, innamorata di Giasone e timorosa della punizione paterna per aver aiutato il “nemico”, ad una cerbiatta atterrita dall’abbaiare dei cani. Certo, in Virgilio, il motivo è quello della ferita d’amore: non è forse vero che il simbolo della passione amorosa è il cuore trafitto da una freccia? Resta il fatto che lo strale in questione è quello di Cupido e dovrebbe essere indolore. Ma chi può negare che la freccia porti, talvolta, delle conseguenze inattese? Ritorna, quindi, il motivo del “mal d’amore”. La passione è qui identificata con la fiamma che divora le tenere midolla e sotto il petto, guarda un po’, vive una muta ferita. Anche il motivo della fiamma non è originale. Saffo, poetessa greca dalle dichiarate tendenze omosessuali, recitava: Serpe la fiamma entro il mio sangue ed ardo. (Ode Saffica Quei parmi in cielo fra gli dei …, traduzione di Ugo Foscolo, v.9). Ma come se ciò non bastasse, l’innamoramento annulla ogni facoltà, ogni sensazione:
More la voce, mentre ch’io ti miro,
sulla mia lingua […]
un indistinto tintinnio m’ingombra
gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo
torbida l’ombra, […]
e smorta in viso come erba che langue,
tremo e fremo di brividi …( ibidem, vv. 6-10)
Insomma, chi è innamorato non ha più voce per parlare, non sente altro che un tintinnio nelle orecchie, ha la vista annebbiata, è pallido come un cadavere e trema. Beh, non c’è da stupirsi che Aristotele identificasse nell’amore una malattia. Del resto, alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non ha provato tali sensazioni! La nostra Didone non è da meno:
Ora conduce Enea con sé per le vie, […]
Vuol parlargli e la voce a mezzo s’arresta:
ora, al cader del giorno, desidera uguale il convito
e chiede, insana, di udire ancora i travagli di Troia
e, mentre egli narra, ancora ella pende dalle sue labbra. (l.IV, vv.74 e 76-79)
Come si fa a vivere così? Pensate quale idea si faccia Enea della regina, come minimo si chiede se ha qualche problema di arteriosclerosi! Lui non è ancora pervaso dalla fiamma d’amore, anzi per la verità non lo sarà mai, anche se non disdegna la convivenza more uxorio.
La cosa più grave è che, a causa di questa insana passione, Didone trascura i suoi doveri di regina e pare che, senza la sua guida, il popolo cartaginese non sappia fare un granché:
Cominciate,
non crescono le torri, la gioventù non si esercita
nelle armi né i porti allestisce o bastioni sicuri
in caso di guerra: restano le opere a mezzo interrotte. (l.IV, vv.85-88)
È chiaro, anche a Giunone, che così non si può andare avanti. La dea, fieramente ostile ad Enea ma cosciente di trarne un vantaggio, propone a Venere un business: favorendo il matrimonio tra i due, Enea se ne starebbe lontano dagli italici lidi dove né Giunone né Venere vogliono che arrivi. Detto, fatto: si decide che il connubio avvenga il giorno seguente.
![enea e didone grotta argentieri](https://marisamoles.wordpress.com/wp-content/uploads/2011/02/enea-e-didone-grotta-argentieri.jpg?w=300&h=191)
Durante una battuta di caccia, complice un temporale, i due si ritrovano insieme in una caverna che, guarda caso, funge da rifugio ad entrambi. Di fronte all’esaudirsi dei suoi desideri, noi potremmo pensare che la regina sia al settimo cielo; invece, fin dall’inizio, il coronamento del sogno viene descritto come una colpa. In realtà è Virgilio, narratore onnisciente, che, sapendo come la vicenda si evolverà, descrive così il connubio:
Fu quello il primo giorno di morte e l’origine prima
d’ogni sventura; non bada al suo decoro Didone,
né alla sua fama e non più vagheggia un amore furtivo;
lo chiama connubio, vela con questo nome la colpa. (l.IV, vv.169-172)
Perché il fatto assume una connotazione tanto negativa? Perché si sa che l’unione con Enea non è destinata ad avere un futuro, si sa che Didone morirà suicida. L’unica a non saperlo è proprio la regina né ha piena coscienza di aver appena preso una decisione a scapito del suo buon nome. Però, dico io, se è vittima di una congiura divina tramata alle sue spalle, cosa può fare? La mente offuscata dall’amore non le permette nemmeno di immaginare i risvolti del suo gesto: infatti, la Fama si affretta a diffondere la notizia, distorcendone i contorni. Naturalmente le chiacchiere giungono alle orecchie dello sposo respinto, Iarba, che va su tutte le furie. D’altronde, come possiamo dargli torto? La sua proposta di matrimonio era stata rifiutata, anche se a buon diritto visto il comportamento burlone, e poi Didone si unisce al primo che capita, senza nemmeno conoscerlo!
La vita matrimoniale dei due è riassunta dall’autore in pochi versi, in riferimento alle voci che si erano diffuse per tutta la Libia:
[la Fama] narrava:
ch’era lì giunto Enea, di sangue troiano, che a lui
come a sposo or si degna d’unirsi la bella Didone;
or tutto l’inverno si godono in mutui piaceri,
obliosi del regno e presi dal turpe diletto. (l.IV, vv.190-194)
Non dobbiamo stupirci che il moralista Virgilio si esprima con tali termini. Sarà forse l’uso di queste tinte forti ad aver influenzato Dante nella stesura del V canto dell’Inferno? Infatti, giunto nel secondo cerchio, quello dei lussuriosi, chi vi trova? Colei che s’ancide amorosa, / e ruppe fede al cener di Sicheo (Inferno, V, vv.61-62). Naturalmente si tratta di Didone che dal poeta fiorentino viene collocata proprio qui; visto che anche il suicidio è un peccato grave (i suicidi sono relegati nel secondo girone del settimo cerchio), perché non far precipitare la regina fin laggiù? Perché, evidentemente, la sua colpa più grave è quella di essersi abbandonata a cieca passione. Ella si trova in buona compagnia: fra i lussuriosi troviamo anche Cleopatra, Elena e Paride, che certamente non potevano mancare, persino Achille, accusato di essersi lasciato vincere dall’amore per Polissena, e, naturalmente, Paolo e Francesca che incarnano il prototipo stesso della lussuria. Ma Enea dov’è? Non qui perché, pur non avendo fatto nulla per ostacolare il connubio e pur avendo trascorso l’inverno abbandonato ai mutui piaceri, non è lussurioso. Non condivide, quindi, questa colpa con Didone; sembra che Dante lo voglia discolpare perché vittima delle circostanze (come se Didone non lo fosse!). Per il sommo poeta Enea non ha colpe, tranne quella, inconsapevole, di essere pagano: lo colloca, infatti, nel Limbo, abitatore del nobile castello, coinquilino di molti altri eroi, poeti e filosofi. L’elenco è lungo: tra gli altri troviamo delle vecchie conoscenze, come Omero ed Ettore. D’altra parte, se consideriamo che Virgilio funge da guida nel regno dei peccatori, se non altro in suo ossequio era doveroso che Dante collocasse tra i grandi pagani il protagonista dell’Eneide. Inoltre, il vate doveva aver compreso che il poeta latino non nutriva una gran simpatia per Didone giacché non viene per nulla riscattata dalle sue colpe, nemmeno quando non dipendono dalla sua volontà.
Il destino dell’infelice regina è ormai segnato: l’invidioso Iarba, infatti, non perde tempo e si rivolge a Giove che, guarda caso, è suo padre (non si può nemmeno immaginare la quantità di figli che l’Olimpio aveva sparsi in giro per il mondo!) e chiede vendetta per l’oltraggio subito. A nulla è valso il tentativo del duo Venere-Giunone: infatti, il padre (dell’una) e marito (dell’altra) si affretta ad inviare il messaggero degli dei, Mercurio, da Enea, per ricordargli la missione che il Fato gli aveva affidato: deve partire, l’Italia lo aspetta.
[immagine sotto il titolo: Enea e Didone, dipinto nell’ex Palazzo vecchio Majorana di Scordia, da questo sito; Didone mostra Cartagine ad Enea, Claude Gallée detto il Lorrenese (1600-1682). Olio su tela, 1676. Amburgo, Kunsthalle, da questo sito; immagine: Enea e Didone nella grotta, olio su tela di Francesco Paolo Argentieri, tratta da questo sito]