LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: ECCO IL DOGGYBAR PER GLI AMICI CANI


Si tratta di un brevetto targato Friuli. Il Doggybar è stato, infatti, inventato da un da un cormonese, Marco Mersecchi, assieme al team con cui collabora nella sua azienda di design.

Il nuovo dispositivo, che potrebbe essere visibile a breve all’esterno di molti locali non solo nella città di Cormons (Gorizia), è costituito da una ciotola che nella forma ricorda proprio gli amici cani. Il Doggymar è dotato di un piccolo contenitore in cui si può posizionare dell’acqua o delle crocchette per far felici i miglior amici dell’uomo e anche i padroni.

«È un’idea che mi è venuta prima di addormentarmi – racconta Mersecchi – Il giorno dopo ne ho parlato con i miei collaboratori e ci siamo messi subito all’opera, brevettando il piccolo manufatto in pochissimo tempo. È un servizio pet-friendly in più».

Questa invenzione è giustificata soprattutto dall’incremento notevole dei cani e gatti, ma più in generale degli animali da compagnia, osservato negli ultimi anni nel nostro Paese. Secondo i dati recenti, in Italia 60 milioni di animali abitano nelle nostre case. Oltre ai cani e ai gatti, gli animali da compagnia per eccellenza, si contano i pesci, i più diffusi per numero, ma anche altre specie come furetti e rettili.

All’inizio del 2015 i cani registrati, tramite tatuaggio o microchip, erano poco più di 6 milioni; in tre anni sono diventati 10 milioni, con un incremento del 40%.

A Cormons l’amore verso gli animali è diffuso. I dati ufficiali disponibili (relativi alla fine del 2015) parlano infatti di oltre 1200 cani censiti nelle varie famiglie: su un totale di circa 7500 abitanti, ne deriva che c’è un cagnolino più o meno ogni sei cormonesi, praticamente uno ogni due famiglie. Non stupisce, dunque, che Marco Mersecchi abbia pensato a brevettare il Doggybar, con la speranza che il suo dispositivo possa presto diffondersi anche al di fuori della regione Friuli – Venezia Giulia.

Allora grazie Marco, per aver pensato ai migliori amici dell’uomo.

[Fonte: Il Piccolo anche per l’immagine: altra fonte: zampefelici.it]

10 FEBBRAIO 2015: IL GIORNO DEL RICORDO ATTRAVERSO LE PAROLE DI MARISA MADIERI

Marisa_MadieriMarisa Madieri (Fiume 1938 – Trieste 1996), insegnante e scrittrice, moglie del germanista triestino Claudio Magris, raccolse nel suo libro Verde acqua, alcune toccanti pagine di diario – che riguardano gli anni tra 1981 e 1984 – in cui, ormai donna adulta, madre e moglie, rievoca la sua infanzia e adolescenza, segnata dall’esperienza dell’esodo da Fiume, città dov’era nata e in cui aveva vissuto fino a undici anni.

Così descrive il periodo in cui il destino degli Italiani dell’Istria fu segnato dall’esperienza amara dell’esodo:

Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu richiesta l’opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optò per l’Italia e conobbe un anno di emarginazione e persecuzioni. Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsione dell’esodo. Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per aver nascosto due valigie di un perseguitato politico che aveva tentato di espatriare clandestinamente e, catturato, aveva fatto il suo nome. Con la sua consueta ingenuità, il papà si fece cogliere con le mani nel sacco.
Quei mesi di vita sospesa, non più casa e non ancora del tutto altrove, furono da me vissuti con un profondo senso di irrealtà, non con particolare sofferenza. […] E’ così che ricordo la mia Fiume – le sue rive ampie, il santuario di Tersatto in collina, il teatro Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida – una città di familiarità e distacco. Tuttavia quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lontananza, hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici. Per molti anni dopo l’esodo non ho più rivisto la mia città e l’ho quasi dimenticata, ma quando ho avuto l’occasione di passare per Fiume […] ho provato la chiara sensazione di ritornare nella mia verità. […]
Nell’estate del 1949, ottenuto il visto per l’espatrio e dopo una breve visita a papà in carcere, partimmo da Fiume – mia madre, mia sorella, io e la nonna Madieri, già molto anziana e malata di cancro.

silos trieste

Arrivate a Trieste, le donne trovarono rifugio, assieme a molte altre famiglie di profughi, nel Silos (oggi trasformato in un parcheggio), un enorme edificio a tre piani, costruito durante l’impero asburgico come deposito di granaglie. Lo spazio era suddiviso in tanti box in cui venivano ospitati i nuclei familiari. “Entrare nel Silos era come entrare in un paesaggio vagamente dantesco, in un notturno e fumoso purgatorio”, scrive Madieri.

Il pianterreno, il primo e il secondo piano erano quasi completamente immersi nel buio. Il terzo era invece rischiarato da grandi lucernai posti sul tetto, che però non potevano essere aperti. […] Dai box si levavano vapori di cottura e odori disparati, che si univano a formarne uno intenso, tipico, indescrivibile, un misto dolciastro e stantio di minestre, di cavolo, di fritto, di sudore e di ospedale. […] Anche i rumori erano molteplici e formavano un brusio uniforme dal quale si levavano ogni tanto le note acute di qualche radio, una voce irata, colpi di tosse o il pianto di un bambino. […] Era orribile spogliarsi la sera e coricarsi tra le lenzuola che sembravano di marmo e ancor più uscire al mattino dal tepore del letto per affrontare l’aria intorno, subito ostile, e l’acqua gelida dei lavandini. Soffrivo di raffreddori e geloni. Quando studiavo e dovevo restare a lungo ferma sui libri, la mamma mi riscaldava dell’acqua, riempiva un catino e lo poneva sotto il tavolo in modo ch’io potessi immergervi i piedi doloranti. […] Imparai ben presto ad estraniarmi completamente da tutto ciò che mi succedeva intorno e a pensare solo ai miei libri.
(M. Madieri, Verde acqua, Einaudi, 1987, passim)

La Madieri riuscì, nonostante tutto, a frequentare il liceo classico Dante Alighieri di Trieste e a laurearsi in Lingue e letterature straniere a Firenze, dove conobbe lo scrittore Claudio Magris, che sposò e da cui ebbe due figli, Francesco e Paolo. Morì a soli 58 anni nel 1996.

Nelle pagine conclusive di Verde acqua, scrive:

Fuori, la notte chiara, frusciante di stelle, custodisce volti e parole che non saprò mai dire. Molta parte della mia storia affonda in questa dolce oscurità, simile forse a quella, grande e buona, che mi accoglierà un giorno nella pace in cui già dimorano mio padre e mia madre.
Ma non provo tristezza, solo gratitudine. Se sono ritornata ad Itaca, se nei lunghi silenzi della mia vita hanno echeggiato per qualche istante le note di un valzer che i pianeti e le stelle, così lucenti stasera, danzano nell’odissea degli spazi, sento di dover ringraziare una folla di persone, anche dimenticate, che, amandomi, o semplicemente standomi accanto con la loro fraterna presenza, non solo mi hanno aiutato a vivere ma, forse, sono la mia vita stessa. (M. Maideri, Verde acqua, 27 novembre 1984)

La storia di Marisa Madieri è solo una delle tante che raccontano l’esodo dei giuliano dalmati.
Ma nel Giorno del Ricordo non possiamo dimenticare l’eccidio che si compì nelle foibe.

PAPA FRANCESCO A REDIPUGLIA, NEL FRIULI TERRA DI SACRARI

papa francesco redipuglia
Molto commovente la cerimonia in ricordo dei caduti della I Guerra Mondiale che si è tenuta sabato mattina a Redipuglia (Gorizia), presieduta da Papa Bergoglio. Nel centenario del primo conflitto mondiale il Santo Padre ha voluto non soltanto ricordare le vittime, il sangue versato per amore della Patria, ma anche lanciare un monito affinché si ponga fine a quella follia chiamata guerra.

State attenti, dice Bergoglio, perché il terzo conflitto mondiale è già tra noi.

«Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni…».

Ora come allora, ancora vittime. E come si fa a non pensare a chi ha perso la vita per difendere la propria terra? Non si può non farlo, trovandosi in un luogo sacro come Redipuglia. Il Sacrario più grande d’Europa, dove riposano più di 100mila caduti, molti dei quali senza nome.

redipuglia

La costruzione del monumento simbolo dei caduti italiani della Grande Guerra ebbe inizio nel 1936 e fu inaugurato da Benito Mussolini il 18 settembre 1938. Una maestosa scala in marmo bianco, proveniente dalla vicina cava di Aurisina, si erge sul monte Sei Busi. Per realizzare il monumento fu necessario scavare la collina con delle cariche di dinamite.
Nei 22 gradoni (alti 2,5 metri e larghi 12) furono traslati i resti di 39.857 caduti identificati; sopra le lastre con nome, cognome e grado militare troneggia la scritta “Presente”. In alto, ai due lati della cappella votiva, ci sono le salme di 60.330 caduti ignoti. In basso, la tomba di Emanuele Filiberto di Savoia – Aosta, comandante della Terza Armata, e le cinque urne dei suoi generali caduti durante i combattimenti.

Con alle spalle il maestoso monumento, che ai tempi della mia infanzia rimaneva acceso durante tutta la notte provocando stupore soprattutto in chi percorreva l’autostrada in direzione di Venezia, Papa Francesco ha celebrato la Messa, alla presenza di molte autorità civili e militari, regionali e nazionali.

Non a caso, tra le letture, è stato scelto il passo della Genesi che parla di Caino e Abele. Non solo il fratricidio. Soprattutto quella frase: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. Parole che esprimono l’indifferenza, lontane da quella caritas, l’amore che nulla chiede in cambio, al centro della lettura dal Vangelo Secondo Matteo:

“Lui è nel più piccolo dei fratelli: Lui, il Re, il Giudice del mondo, è l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ammalato, il carcerato… Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: “A me che importa?”, rimane fuori”.

Caino è ancora tra noi e continua ad uccidere. Come scrisse il poeta Quasimodo, all’indomani del secondo conflitto mondiale, nella poesia Uomo del mio tempo:

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo
. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
– t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
– Andiamo ai campi
. – E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere
,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore
.

Il Carso è stato teatro della Grande Guerra. Redipuglia è certamente il monumento più importante, il più maestoso. Ma non è l’unico in questa terra che è stata bagnata dal sangue di migliaia di soldati e civili.

monte san michele

A pochi chilometri da Redipuglia, sul Monte San Michele, c’è un museo all’aperto dove al posto delle opere d’arte si possono “ammirare” le trincee in cui si combatté per difendere la Patria.
Questi luoghi sono stati designati “monumento nazionale” e sulla sommità del monte si trova un belvedere da cui si gode di un ampio panorama, che ricorda la guerra e i suoi caduti, e un piccolo museo.

Poco lontano, sul medesimo fronte, a San Martino del Carso, ha combattuto anche il poeta Ungaretti che affidò ai suoi versi il compito di descrivere lo strazio del suo cuore:

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro.
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto.
Ma nel cuore
nessuna croce manca.
E’ il mio cuore
il paese più straziato
.

sacrario_militare_oslaviaSulle colline sopra Gorizia si trova l’Ossario di Oslavia, costruito nel 1938 sul monte Calvario. Ospita i resti di 57.741 caduti italiani nelle battaglie di Gorizia e Tolmino (ora in Slovenia).
L’Ossario copre un’area triangolare ed è formato da quattro torri, una per ogni vertice della figura, più una centrale. Ognuna di queste custodisce al suo interno i loculi dei caduti identificati, disposti lungo le pareti, per un totale di circa 20 mila nomi, tra cui 138 austro-ungarici. Gli altri 37 mila corpi senza nome (539 di nazionalità non italiana) sono invece tumulati in tre grandi ossari posti al centro delle tre torri laterali.
Tutte le torri inoltre sono collegate tra loro tramite dei tunnel sotterranei e possiedono delle cripte.

tempio ossario udineI caduti della Prima Guerra Mondiale sono ricordati anche a Udine. Poco lontano dal centro cittadino si erge il Tempio Ossario ai Caduti d’Italia, costruito nel 1931 su progetto degli architetti Alessandro Limongelli e Provino Valle.
Sulla facciata si possono ammirare quattro imponenti statue che raffigurano un fante, un aviatore, un alpino ed un soldato della marina. All’interno, il tempio ha tre navate divise da pilastri in granito rosso. Sulle pareti della cripta sono incisi i nomi dei 25.000 militari italiani sepolti all’interno delle pareti stesse, esumati dai cimiteri di guerra del Friuli.

Tempio_di_Cargnacco
Infine, non si possono dimenticare le vittime della Seconda Guerra Mondiale. Alla periferia di Udine, a Cargnacco, si erge il Tempio Nazionale “Madonna del Conforto” la cui costruzione fu voluta da don Carlo Caneva, già cappellano militare e reduce di Russia e dal Senatore Amor Tartufoli, per ricordare i caduti e i dispersi di quella tragica campagna.
Nella cripta del Tempio di Cargnacco sono collocati, su leggii metallici, i 24 volumi che contengono, in ordine alfabetico, i 100.000 nomi di coloro che, per obbedire alle leggi della Patria, dalla Russia non sono più tornati. Sullo sfondo una scritta luminosa, color sangue, ricorda “Ci resta il nome”.
Negli anni Novanta è stata costruita un’altra cripta, collegata alla preesistente da una galleria, in cui sono stati traslati altri resti di dispersi in Russia. Dal 1991 sono state riportate in patria 11.601 salme. Quelle identificate erano 2.244 e di queste 1.960 sono state consegnate ai parenti. In Ucraina sono stati recuperati e identificati i resti di 1244 soldati, per la maggior parte restituiti ai parenti. A Cargnacco sono state riportate 8.518 salme di cui 7.405 non identificate.

Sulla sommità del Tempio troneggia, a caratteri cubitali, la scritta
P A C E, il bene più grande che l’U O M O deve perseguire se non vuole rimanere quello della pietra e della fionda.

[fonte (per il viaggio di Papa Francesco a Redipuglia) Il Corriere; varie notizie sui sacrari del Friuli sono state tratte da un reportage del Corriere.it; i link presenti nel post sono fonte di altre notizie e, per la maggior parte, rimandano ai siti da cui sono state tratte le immagini]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: UN VITALIZIO PER IL POETA PIERLUIGI CAPPELLO

pierluigicappello
Anche questa settimana rimango nella mia zona. Voglio raccontare una storia, sconosciuta ai più. Una storia che ha come protagonista il poeta friulano Pierluigi Cappello, uno dei più importanti poeti contemporanei che, però, da anni vive ai limiti dell’indigenza.

La vita di Pierluigi Cappello è costellata da successi letterari (non solo raccolte poetiche ma anche romanzi), premi, laurea honoris causa conferitagli dall’Università di Udine, cittadinanze onorarie. Non solo gioie, anche dolori: 31 anni fa, quand’era solo sedicenne, un brutto incidente lo costrinse sulla sedia a rotelle.

La sua casa, un prefabbricato che risale agli anni del terremoto (quello del 1976 che ha semidistrutto il Friuli), è tutt’altro che confortevole e si sa quanto la gente friulana sia attaccata alla casa, la costruisce mattone dopo mattone con il sudore della fronte. Ma Pierluigi questo non lo può fare e a nulla serve la mobilitazione di tanta gente di buona volontà per fargli avere una casa decente.

Così il giornalista Paolo Medeossi la descrive in un articolo pubblicato sul Messaggero Veneto del 28 settembre 2013:

Le case dei poeti (quelli veri) sono luoghi misteriosi e irraggiungibili se si guarda alle cose con gli occhi consueti e incapaci di un sobbalzo, di un sussulto. Non ci si arriva nemmeno con il tomtom più efficace. Eppure la casa di Pierluigi Cappello, in via San Francesco a Tricesimo, a poche centinaia di metri dal Boschetti [uno dei più rinomati ristoranti friulani, NdA], è un luogo celebre, non solo in Friuli, una meta per tantissimi.

Ci sono spiriti inquieti che partono da lontano, da tutta Italia e anche dall’estero, e arrivano qui bussando timidamente alla porta che scricchiola sempre un po’. Una porta davanti alla quale vige la più assoluta democrazia perché non contano posizione economica, titoli accademici, consenso sociale o che altro, insomma una di quelle banalità che valgono in tempi distratti, fatui e incorporei.

Qui, mentre si bussa e il poeta dice “avanti”, non servono paraventi o cortine fumogene. La poesia (quella vera) ha questo potere: sembra fatta di niente, un intreccio di parole e metrica, eppure è molto concreta nell’indurre, chi vuole, a fare i conti con ciò che si è o si è convinti di essere. E chi trucca le carte è subito smascherato.

Proprio in quel prefabbricato di via San Francesco a Tricesimo una buona notizia ha raggiunto oggi il poeta: il governo Renzi gli ha concesso il vitalizio della legge Bacchelli, “in considerazione dei meriti conseguiti nella carriera artistica”.

Così commenta lo scrittore Tullio Avoledo: «Un anno di Bacchelli a Cappello costa meno di tre mesi di stipendio del portaborse di un parlamentare. Ma nessun portaborse scriverà poesie come quelle di Pierluigi. Che invece ce la fa benissimo a portare una borsa». Nonostante la carrozzina, aggiungo io.

In un periodo in cui solo a sentir parlare di vitalizi arricciamo il naso o spalanchiamo gli occhi per lo stupore davanti a cifre assurde di cui beneficiano ex politici senza troppi meriti, di fronte a questa notizia mi sembra possibile fare solo una cosa: sorridere.

Per chi non conosce questo poeta, riporto una poesia che a me personalmente piace molto:

finestra
Da lontano
Qualche volta, piano piano, quando la notte
si raccoglie sulle nostre fronti e si riempie di silenzio,
e non c’è più posto per le parole
e a poco a poco si raddensa una dolcezza intorno
come una perla intorno al singolo grano di sabbia,
una lettera alla volta pronunciamo un nome amato
per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo
nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato
.

[immagine di Cappello da questo sito; immagine finestra da questo sito]

ALTRE BUONE NOTIZIE

Pepe Mujica accoglierà 100 bimbi orfani siriani a casa sua di laurin42

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: ECCO LE “SNAIT BAG”, BORSE ECOLOGICHE MADE IN FRIULI

snait bag
Delle borse ecologiche che nascondono qualcosa di più del semplice riciclo dei materiali. Si tratta di un progetto dell’università di Udine, in collaborazione con la provincia: realizzare delle borse ecologiche riutilizzando gli striscioni pubblicitari.
L’idea imprenditoriale è nata da Giulia Montecchio, studentessa di Scienze dei servizi giuridici pubblici e privati.

Ecco le ‘snait bag’, le borse riciclate made in Udine, il cui nome si può definire anglofriulano: “bag” dall’inglese e ‘snait’ che in friulano traduce l’inglese ‘smart’, dall’impatto dinamico e veloce.

L’Assessorato alle Politiche sociali, che fa capo all’assessore Elisa Battaglia, ha deciso di donare all’Università tre striscioni in pvc, non più utilizzabili come mezzi promozionali e che sarebbero stati destinati alla discarica. Ecco che il progetto dell’ateneo udinese “salva” questo materiale e lo trasforma nelle borse che vanno ad arricchire il merchandising dell’università.

Come spiega Elisa Battaglia, in questo modo forniamo una seconda possibilità a materiali che altrimenti avrebbero avuto come meta la discarica, inoltre contribuiamo ad offrire un’opportunità di lavoro a chi si trova in difficoltà nella vita. Il progetto, infatti, si avvale della collaborazione della cooperativa sociale “Rio Terà dei pensieri” di Venezia che si occupa dell’inserimento nel mondo del lavoro di persone che devono scontare una condanna penale.

Le “Snait Bag” sono disponibili in quattro tipologie: tre borse e un porta-iPad. Non soltanto inaugureranno la nuova linea di prodotti ma daranno anche il nome al negozio di merchandising dell’ateneo: “Snait Shop”.
Veloce ma soprattutto ecologico e solidale.

[LINK della fonte da cui è tratta anche l’immagine]

ALTRE BUONE NOTIZIE

Le buone notizie di Margherita: AMBIENTE: CONFERMATA LA CRESCITA DELLE FORESTE ITALIANE e “GREEN CITIES”, PER MIGLIORARE LA QUALITA’ DELLA VITA di unpodichimica

Se ami la tua città colorala di laurin42

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: ARRIVA IL “BIGLIETTO SOSPESO” PER IL MUSEO

Tempietto_di_cividale_del_friuli
Quella del “caffè sospeso” è un’antica usanza napoletana. Da qualche tempo ha preso piede il “libro sospeso”, in molte librerie italiane (QUI si parla di una libreria della mia città). Un’iniziativa che si prefigge di invogliare alla lettura chi ancora pensa che i soldi spesi per un libro non siano spesi bene.

Ora a Cividale del Friuli è nato il “biglietto sospeso” per entrare gratis in alcuni musei. Il Museo cristiano e del tesoro del duomo della cittadina che mantiene ancora intatti numerosi reperti longobardi, ha lanciato una formula che coinvolge gli altri due poli culturali locali, il Museo archeologico nazionale e il monastero di Santa Maria in Valle.

L’iniziativa per il momento è riservata ai giovani fino ai 25 anni d’età, ma in un secondo momento, se il disegno produrrà i frutti sperati, il “raggio” si allargherà.

«La fascia – motivano i promotori del progetto – con meno risorse economiche: è giusto, anzi doveroso, stimolarla e rispettarla in qualità di… “futuro prossimo” della nostra società. Si vuole dare, in questo modo, il segnale, forte, di una città pronta a proporre alle nuove generazioni una cultura a costo zero».

Insomma, quella dei “sospesi” è una bella tradizione destinata forse ad allagarsi in futuro ad altri settori. Perché forse della tazzulella e’ cafè si può fare a meno ma della lettura, dell’arte e della cultura in generale assolutamente no. Se poi è gratis, ancora meglio e non è detto che chi ha usufruito gratuitamente di un “sospeso” non restituisca, sempre in relazione alle proprie possibilità, il favore.

(notizia dal Messaggero Veneto; nell’immagine: tempietto longobardo di Santa Maria in Valle di Cividale del Friuli]

ALTRE BUONE NOTIZIE

Flipback, un’alternativa agli ebook? di laurin42

Il fotovoltaico sull’ambulanza. Energia pulita per il soccorso di Gianluca Testa per il Corriere.it

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

Diario di viaggio: Treviso, Verona, Trieste

Il bello del web è che, quando hai la fortuna di incontrare di persona un’amica di blog, scopri che è esattamente come te l’aspettavi, come se la conoscessi da sempre. A me è successo con Veronica – Scrutatrice, ragazza dolce e simpatica, oltreché bellissima.
Non perdetevi la cronaca di viaggio … l’ultima tappa è stata la mia città natale, Trieste, dove ho avuto il piacere di farle da Cicerone. Quello che lei non ha detto, lo dico io: è stato un tour piacevole ma molto faticoso. La mia città è tutta un sali-scendi e finché si scende, tutto bene, ma quando si sale … son dolori! Ne sanno qualcosa i miei polpacci e i miei glutei. Unica nota positiva di cotanta fatica: ho smaltito uno dei due chili messi su a Pasqua. C’è qualcuno che vuole farsi un giro dalle mie parti nelle prossime settimane? Devo smaltire il chilo che è rimasto. 🙂
Buona lettura!

Into The Wild

Primo giorno, domenica.

Dopo la tradizionale colazione di Pasqua (nel senso che è tradizione farla, non che la mia colazione sia stata la tradizionale colazione salata), montiamo in macchina con destinazione Veneto. Il viaggio di andata è quello che ogni automobilista desidererebbe: strade ampie, corsie vuote, niente camion e persino le stazioni di sosta deserte (ci credo, tutti “zampe sotto il tavolo” la domenica di Pasqua…)! Ci viene in mente il verso di una famosa canzone: “autostrade deserte, ai confini del mare…” Ma non ci stiamo dirigendo verso il mare, anzi. La nostra base durante questi quattro giorni sarà Preganziol, una piccola frazione di Treviso, cittadina che scopriremo essere davvero deliziosa. Arrivati a destinazione, DSC_2sistemiamo le valigie, facciamo un giro di ricognizione nell’appartamento (accompagnato dalle rituali foto ricordo della sistemazione!) ed usciamo per visitare il centro di Treviso.
La provincia veneta ha la particolarità di essere…

View original post 1.997 altre parole

GIORNO DEL RICORDO: “MAGAZZINO 18” DI SIMONE CRISTICCHI STASERA SU RAI 1

Cristicchi magazzino 18

Al Porto Vecchio di Trieste c’è un “luogo della memoria” particolarmente toccante. Racconta di una pagina dolorosissima della storia d’Italia, di una vicenda complessa e mai abbastanza conosciuta del nostro Novecento. Ed è ancor più straziante perché affida questa “memoria” non a un imponente monumento o a una documentazione impressionante, ma a tante piccole, umili testimonianze che appartengono alla quotidianità.
Una sedia, accatastata assieme a molte altre, porta un nome, una sigla, un numero e la scritta “Servizio Esodo”. Simile la catalogazione per un armadio, e poi materassi, letti, stoviglie, fotografie, poveri giocattoli, altri oggetti, altri numeri, altri nomi… Oggetti comuni che accompagnano lo scorrere di tante vite: uno scorrere improvvisamente interrotto dalla Storia, dall’esodo.
Con il trattato di pace del 1947 l’Italia perdette vasti territori dell’Istria e della fascia costiera, e quasi 350 mila persone scelsero – davanti a una situazione intricata e irta di lacerazioni – di lasciare le loro terre natali destinate ad essere jugoslave e proseguire la loro esistenza in Italia. Non è facile riuscire davvero a immaginare quale fosse il loro stato d’animo, con quale sofferenza intere famiglie impacchettarono tutte le loro poche cose e si lasciarono alle spalle le loro città, le case, le radici. Davanti a loro difficoltà, povertà, insicurezza, e spesso sospetto.

Simone Cristicchi è rimasto colpito da questa scarsamente frequentata pagina della nostra storia ed ha deciso di ripercorrerla in un testo che prende il titolo proprio da quel luogo nel Porto Vecchio di Trieste, dove gli esuli – senza casa e spesso prossimi ad affrontare lunghi periodi in campo profughi o estenuanti viaggi verso lontane mete nel mondo – lasciavano le loro proprietà, in attesa di poterne in futuro rientrare in possesso: il Magazzino 18. CONTINUA A LEGGERE >>>

Memoria e ricordo sono sinonimi? In parte sì ma hanno due giornate distinte dedicate. Forse “ricordo” ha un’importanza minore di “memoria”? No perché la nostra storia non ha un lato A e uno B come i vecchi 45 giri, specie se si tratta di pagine che hanno come protagonisti la sofferenza, le privazioni, il distacco, la violenza e la morte.

Il 10 febbraio è stata istituito, con la legge 30 marzo 2004 n. 92, il Giorno del Ricordo, per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Una pagina di storia per troppo ignorata, negata, coperta sotto il velo dell’omertà. Nessuno sapeva, nessuno voleva sapere. Ma le vittime ci sono state e sono molte.
Il numero dei corpi gettati nelle foibe non è stato mai individuato con precisione: c’è chi parla di 5000-10000, altri ne ipotizzano 150000 altri ancora 30000. Ma non sono i numeri a rendere meno dolorosa una tragedia né a sminuire un fatto di tale gravità.
E poi c’è l’esodo giuliano istriano e dalmata, su cui si sofferma nel suo spettacolo Simone Cristicchi. Recentemente in Toscana è stato fischiato perché c’è ancora chi non crede, c’è ancora chi sminuisce i fatti, come se ci fossero morti di serie A e quelli di serie B.
Secondo il Ministero degli Esteri le persone costrette a lasciare la propria terra e tutto le loro proprietà sono state fra i 250.000 circa (secondo i dati di una commissione presieduta da Amedeo Colella e pubblicati nel 1958) e i 270.000 stimati al termine dell’esodo.

Questa sera Rai 1 propone lo spettacolo di Cristicchi, che attualmente è in tournée, alle 23 e 50. Un orario che fa pensare a quanto poco sentito sia ancora un evento del genere. Ci sono fatti da prima serata e fatti che meritano la terza, dopo Bruno Vespa.

[immagine da questo sito]

VENT’ANNI FA A MOSTAR: UN RICORDO DI MARCO LUCHETTA, ALESSANDRO OTA E DARIO D’ANGELO

PREMESSA.
Avrei dovuto pubblicare questo articolo il 28 gennaio, purtroppo però non ho fatto in tempo. Vent’anni fa a Mostar infuriava la guerra dei Balcani, scoppiata all’indomani della dissoluzione dell’ex Jugoslavia e che vedeva contrapposte due nazioni, la Bosnia e l’Erzegovina, e tre gruppi etnici: serbi, croati e musulmani. Una guerra dimenticata, forse, ma che ha causato circa 80mila vittime, tra soldati e civili. Tra queste, anche un giornalista della Rai, Marco Luchetta, l’operatore Alessandro “Saša” Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo.
Non ho fatto in tempo a pubblicare questo post per l’anniversario, dicevo, perché non volevo fare un articolo di cronaca, non sono una giornalista. Volevo metterci il cuore, anche se ne è uscito un pezzo perlopiù informativo. Mi scuso in anticipo, specie con chi dovesse leggere questa pagina e ne sa più di me, per le inesattezze o per eventuali superficialità. Non potevo dilungarmi oltre, è evidente.
Questo mio post vuole ricordare quel tragico evento ma in particolare, senza nulla togliere alle altre vittime, la figura di Marco Luchetta che ho avuto il privilegio di conoscere. Una persona speciale che dedicava la sua vita all’adorata famiglia – la moglie Daniela, detta Dea, e i due figli Carolina e Andrea – e alla professione che aveva scelto, onorandola con l’impegno e lo spirito di sacrificio che lo distingueva.
Ricordo ancora Marco al mare, quando, libero dagli impegni professionali, non mancava mai di raggiungere i suoi cari, dedicandosi al gioco con i bambini, occasione che gli permetteva di far emergere quello spirito “fanciullino” che bene si coniugava con l’aspetto di eterno ragazzo, grazie anche alla frangia ribelle che amava portare sugli occhi.
Marco aveva 41 anni quando, quel 28 gennaio 1994, una granata pose termine alla sua breve vita, assieme ai suoi compagni di lavoro con cui condivideva un unico scopo: testimoniare gli orrori di una guerra di cui troppi, ora come allora, ignorano l’esistenza.

luchetta ota d'angelo

QUEL TRAGICO VENERDÌ
Marco, Saša e Dario, tutti dipendenti della sede Rai di Trieste, erano partiti dal capoluogo giuliano qualche giorno prima per recarsi a Mostar, città dell’Erzegovina che aveva dichiarato la propria indipendenza, in seguito allo scoppio della guerra.
Nel 1993, i croati bosniaci e i bosniaci musulmani cominciarono una lunga lotta per il controllo di Mostar. I croati lanciarono un’offensiva il 9 maggio durante la quale bombardarono senza tregua il quartiere musulmano, riducendolo in gran parte in rovina, comprese numerose moschee e case del periodo ottomano. Durante la guerra i croati crearono dei campi di concentramento per i musulmani e lo stesso fecero i musulmani per i croati.
Il conflitto nei Balcani aveva visto fin da subito Marco Luchetta come inviato Rai. La decisione di recarsi nella parte più calda della guerra, la città di Mostar appunto, fu presa per il desiderio di testimoniare le atrocità subite dalla popolazione, specialmente le donne, vittime di stupri, e i bambini. Non doveva essere un servizio come un altro, ma un vero e proprio reportage per il tg1 sui “bambini senza nome”, nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi.
Quel tragico venerdì 28 gennaio 1994 la troupe si trova in una situazione di emergenza e, raggiunta la parte est della città, in un quartiere musulmano assediato dai bombardamenti, il giornalista e i due operatori si fermano nei pressi di una cantina che funge da rifugio per decine di persone tra cui molti bambini. Proprio per salvare una di queste piccole vittime della guerra, vengono sorpresi dallo scoppio di una granata. I tre fanno scudo con il proprio corpo al piccolo Zlatko che li aveva seguiti all’esterno del rifugio. Dovevano prendere le attrezzature per le riprese e Marco stava per riaccompagnare all’interno il bambino quando la “palla di fuoco” – come dirà Zlatko – li ha centrati uccidendoli sul colpo.

luchetta figli
NON SONO MORTI INVANO
La scomparsa di Marco e dei due colleghi getta nella disperazione tre famiglie e tutti coloro che ne avevano apprezzate le doti professionali e umane.
Luchetta lasciò due figli ancora piccoli: Carolina aveva dieci anni e Andrea nove. Non so se questi piccoli orfani abbiano mai pensato quanto fosse ingiusto l’aver perso il papà a causa di un bambino sconosciuto che il genitore aveva voluto salvare. Non so nemmeno se abbiano mai considerato il loro papà un eroe. So per certo che Marco non avrebbe mai voluto essere considerato tale.
Perché la terribile perdita non sia avvenuta invano, la moglie di Marco, Daniela Schifani-Corfini, decide di far nascere una fondazione che renda indelebile il ricordo del marito e dei colleghi e possa aiutare i bambini vittime delle guerre. In breve tempo dopo la tragedia nasce la Fondazione Luchetta Ota D’Angelo, cui si aggiunge il nome di Miran Hrovatin, l’operatore giuliano morto pochi mesi dopo assieme alla giornalista Ilaria Alpi, in un agguato a Mogadiscio.
Come si legge sul sito della Fondazione, la finalità è quella di supportare famiglie d’altri Paesi che, oltre al disagio di vivere o di aver vissuto recentemente guerra e/o guerriglia, hanno l’ulteriore sfortuna di avere un figlio affetto da gravi forme tumorali o che necessiti d’intervento chirurgico non fattibile in patria.
Il primo ad essere assistito dalla ONLUS appena nata fu proprio Zlatko, che allora aveva solo cinque anni. Quella maledetta granata gli aveva procurato, oltreché un comprensibile choc che gli impediva di dormire la notte senza avere incubi, un problema di udito. Dapprima fu ospitato a Trieste, assieme alla mamma ventiquattrenne, per essere curato presso l’ospedale infantile Burlo Garofalo, istituto di eccellenza non solo in regione ma a livello nazionale, e poi aiutato a raggiungere la Svezia, dove la sua famiglia poté ricongiungersi al padre che, in fuga, aveva raggiunto il Paese scandinavo.

logo fondazione luchetta

LA FONDAZIONE LUCHETTA OTA D’ANGELO E HROVATIN
In questi vent’anni la Fondazione è cresciuta molto grazie alla generosità dei cittadini e di vari enti pubblici e privati. Quotidianamente dei volontari provvedono al trasporto dei piccoli ospiti presso gli ospedali competenti per le cure necessarie, aiutando le loro famiglie nell’espletamento delle pratiche mediche, burocratiche e provvedendo a tutte le altre necessità.
All’inizio, e fino al 1998, la Fondazione è stata operativa nel ristretto spazio offerto dal primo appartamento di via Fabio Severo. Poi è nata la casa di prima accoglienza situata in via Valussi a Trieste; qui trovano posto negli anni decine di ospiti che trascorrono con i loro familiari periodi più o meno lunghi di degenza durante le cure nel vicino ospedale pediatrico.
Nel 2005 è stato possibile acquistare, da parte della Fondazione, un altro immobile, uno spazioso appartamento ubicato in via Rossetti. Pochi giorni fa, in occasione del ventesimo anniversario della morte di Marco, Saša e Dario, la Fondazione ha inaugurato a Trieste il suo terzo luogo di accoglienza: il nuovo centro di via Chiadino 7. Come rivela Daniela Luchetta, lo spazio è stato offerto gratuitamente da una famiglia che preferisce restare nell’anonimato. La struttura permetterà di ospitare una decina di persone in più.
daniela luchettaAttualmente la Fondazione, presieduta da Daniela Luchetta, ha una sede amministrativa, due case di accoglienza nel capoluogo giuliano, dieci appartamenti per nuclei familiari i cui bambini hanno bisogno di cure più protratte nel tempo, quattro autovetture per le quotidiane attività logistiche di supporto alle famiglie e ai pazienti.
Può inoltre contare sulla collaborazione di circa sessanta volontari che dedicano tempo e forze a questa piccola-grande comunità, dove convivono persone di etnia diversa, talvolta anche nemiche nel Paese da cui provengono, ma unite dalle stesse necessità e grate in ugual modo per tutto il sostegno e le amorevoli cure che ricevono. La fatica dei tanti volontari ha ottenuto, nel 2009, un riconoscimento: l’assegnazione del “Premio Barcola 2009” che il Presidente del Premio, dott. Alberto Cattaruzza, ha commentato con le seguenti motivazioni:

Sono quindi particolarmente onorato di annunciare il conferimento del Premio Barcola 16a edizione ai Volontari della Fondazione Luchetta Ota D’Angelo Hrovatin per la loro opera inesausta a favore dei bimbi bisognosi di cure mediche e di supporto alle loro famiglie, opera che può costituire eccezionale vanto per la città di Trieste tutta.

ospiti fondazione luchetta
BAMBINI DA TUTTO IL MONDO
In due decenni la Fondazione ha ospitato centinaia di bambini e familiari da Africa, Asia, Sud America, Europa orientale e penisola balcanica. Paesi in cui era impossibile garantire cure adeguate per quei bimbi che a Trieste hanno ritrovato la speranza di superare la malattia. La percentuale di guarigione dei piccoli ospiti è molto alta ed è stimata intorno al 94%. «Oggi la Fondazione opera su due fronti – spiega la presidente Daniela Luchetta -: quello dei bambini che necessitano di cure, ospiti dei centri di via Valussi e via Rossetti, e quello dell’aiuto a famiglie in difficoltà, che si è aperto attraverso la convenzione stipulata col Comune e permette a oggi di ospitare sei nuclei familiari con bambini. Ma supportiamo anche famiglie che vivono altrove, e sono in difficoltà economica. Anche il Centro raccolta di via Valdirivo 21 (vi confluiscono vestiario e altri generi di aiuti), gestito esclusivamente da volontari, è diventato un riferimento prezioso».
Nel tempo la Fondazione ha moltiplicato il fronte dei suoi interventi cercando anche di sostenere ospedali pediatrici e orfanotrofi nelle aree del mondo che continuano a fare i conti con miseria e guerra.

UN PREMIO PER RICORDARE MARCO E I COLLEGHI
A dieci anni da quel triste 28 gennaio, nasce nel 2004 il Premio Giornalistico Internazionale “Marco Luchetta”, a ricordo dell’impegno dei quattro operatori dell’informazione, morti in guerra, di cui la gran pare dei connazionali ignora l’esistenza.
Proprio in memoria di tutte e quattro le vittime, il premio si articola in più sezioni: oltre a quella intitolata a Marco Luchetta riservata ai giornalisti professionisti della carta stampata e della televisione, c’è la sezione intitolata a Hrovatin per la fotografia, ad Ota per le immagini TV e a D’Angelo per la stampa estera. Vengono ogni anno attribuiti riconoscimenti ai migliori reportage televisivi e quelli riservati alla carta stampata.
Nell’anno d’inaugurazione si aggiudicò il premio principale proprio un amico-blogger, nonché giornalista della Rai, Pino Scaccia che in una corrispondenza per la rubrica Tv7 del Tg1 ha raccontato le condizioni in cui vivono, alla periferia di Nairobi, gli ultimi della terra, migliaia di ragazzi orfani vittime della fame, dell’aids e della droga, aiutati solo da alcuni missionari.
Nel 2012 viene istituito anche il Premio “Testimoni della Storia” riservato al giornalista che meglio ha saputo raccontare ed interpretare un fatto storico o di cronaca, un periodo, un personaggio o un luogo.

Premio-Luchetta

ANGELI PER SEMPRE
Ogni estate, nella grande e bellissima piazza dell’Unità d’Italia, affacciata sul mare triestino, o in alternativa nella splendida cornice del teatro lirico “G. Verdi”, la nostra “piccola Scala”, o del Politeama Rossetti, sede del Teatro Stabile del Friuli – Venezia Giulia, si tiene uno spettacolo in occasione dell’assegnazione del Premio Luchetta. “I Nostri Angeli” da dieci anni vengono ricordati con una manifestazione in cui si alternano momenti di dibattito ed intermezzi musicali di vario genere, dal pop al rock alla musica etnica, che rendono anche gioioso il ricordo di questi “custodi” che mai dobbiamo dimenticare.

[altre fonti, oltre al sito della Fondazione già linkato, da cui sono tratte anche le immagini: Il Piccolo, Wikipedia per Mostar, Marco Luchetta e Guerra in Bosnia Erzegovina; Il Corriere]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: LA CREATIVITÀ DEGLI STUDENTI AL SERVIZIO DELL’IMPRESA

sello udineQuesta settimana “gioco” doppiamente in casa: ho scelto una notizia che riguarda la scuola e allo stesso tempo la mia regione.
Alcuni studenti del liceo artistico “Sello” di Udine hanno ideato i nuovi sedili ferroviari che viaggeranno in Europa.

Da sempre si sente dire che la scuola è molto lontana dal mondo del lavoro, che gli studenti non sono pronti, una volta terminati gli studi, ad affrontare un impegno lavorativo. Troppo spesso si accusa la scuola di non saper preparare gli allievi in termini di competenze da spendere nel breve termine in ambito professionale. Non sempre è così. Se ciò può essere vero per i licei, che non preparano al mondo del lavoro ma agli studi universitari, ci sono scuole, specie istituti tecnici e professionali, che offrono una preparazione adeguata, anzi, talvolta permettono agli studenti di dimostrare delle specifiche competenze anche prima di terminare il corso di studi.

E’ il caso del liceo artistico – nato, con la riforma Gelmini, dal vecchio istituto d’arte – “G. Sello” di Udine. Gli allievi delle classi 3D, 4D, 5C del corso di Design Industriale e 4C del corso di Design della Moda hanno presentato ieri ai rappresentanti della Fisa di Osoppo, azienda leader nel campo della fabbricazione di sedili autoferroviari che in questi ultimi anni si è assicurata contratti di fornitura con le principali società ferroviarie europee, i propri progetti per la realizzazione di un innovativo sedile.

L’idea della collaborazione tra scuola e impresa è nata qualche mese fa in occasione della visita che gli studenti hanno fatto presso gli stabilimenti di Osoppo. Grazie alla loro creatività e con la guida dei docenti Tiziana Infanti, Nadia Ceccotti e Dino Del Zotto hanno elaborato dei progetti nel rispetto delle nuove tendenze di design, senza trascurare le soluzioni ergonomiche cui attualmente non si può rinunciare.

Sono nate così delle proposte accattivanti, innovative anche per quanto riguarda la scelta dei tessuti, dai colori e dalle fantasie in grado di incontrare i gusti dei viaggiatori moderni. Alcuni progetti appaiono particolarmente innovativi grazie alla tappezzeria dall’effetto praticamente tridimensionale.

Entro marzo i tecnici della Fisa sceglieranno la proposta migliore elaborata dai ragazzi, per passare alla fase di progettazione industriale e di produzione. Quindi il sedile nella sua forma finale sarà anche esposto a Innotrans, la Fiera internazionale dei Trasporti che si terrà a Berlino dal 23 al 26 settembre.

Il progetto definitivo diventerà poi realtà, fornendo l’arredo ottimale per i vagoni ferroviari di molte linee di collegamento dei principali Paesi europei.

Un in bocca al lupo, dunque, ai ragazzi che stanno vivendo un’esperienza che, comunque vada, rappresenta un buon trampolino di lancio per il futuro professionale.

[fonte: Messaggero Veneto; immagine da questo sito]

ALTRE BUONE NOTIZIE:

Le sindache di Italia di laurin42

Il Ponte fotovoltaico Black friars Bridge di chezliza

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE