LE POESIE DEL RISORGIMENTO: “SANT’AMBROGIO” DI GIUSEPPE GIUSTI

La letteratura italiana di metà Ottocento fu caratterizzata dal binomio poesia-patriottismo. Il Risorgimento dei poeti fu, infatti, legato ad una letteratura che venne definita “per il popolo”, in altre parole quella borghesia che Giovanni Berchet, nella Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, individuò come il pubblico ideale. Una poesia che aveva lo scopo di smuovere le coscienze, che tuonava contro lo “straniero”, che anelava all’indipendenza, nei cui versi il poeta intrecciava amor patrio e sentimento individuale per condividere con gli Italiani un fermento d’emozioni che aveva un denominatore comune: la voglia di essere una nazione, di vivere in uno Stato finalmente unitario.

Uno dei poeti, un tempo certamente più conosciuti dagli studenti (i suoi versi si imparavano a memoria fin dalle elementari, spesso senza capirci un’acca), è Giuseppe Giusti(1809-1850), i cui versi sono caratterizzati dall’associazione tra la satira e l’invettiva, efficacemente espressa usando, tuttavia, un linguaggio, la parlata toscana, spesso oscuro e, comunque, di non facile impatto. Eppure lui le sue poesie le chiamava “scherzi”, senza prendersi troppo sul serio. Su uno di questi “scherzi”, Sant’Ambrogio, lavorò a lungo per giungere ad una poesia dal tono narrativo, con uno stile colorito e colloquiale, fondendo l’emozione lirica con l’occasione comica. Il risultato è una lirica tradizionale nella forma ottave di endecasillabi, rimati secondo lo schema ABABABCC, quello del poema epico cavalleresco, per intenderci) ma decisamente fuori dal comune nel contenuto, specialmente laddove il poeta vuole esprimere un giudizio severo nei confronti dell’oppressore ma nello stesso tempo esterna, attraverso il registro comico, un atteggiamento pietoso e tollerante verso chi in casa altrui la fa da padrone.

La lirica prende spunto da un fatto realmente accaduto: mentre si trovava a Milano, ospite di Alessandro Manzoni, Giusti fece visita alla basilica di Sant’Ambrogio, al cui interno s’imbatté in un gruppo di soldati austriaci che a quei tempi occupavano il Lombardo-Veneto. Ad un primo sentimento di repulsione nei confronti dell’oppressore, si sostituisce una sorta di compartecipazione alla sorte di quei soldati che, lontani dalla patria, sono ridotti, forse loro malgrado, a strumento di sopraffazione. Il canto intonato da quei soldati suscita nel poeta una commozione inaspettata da cui scaturisce una riflessione profonda sulla sorte dei popoli che spesso sono soltanto delle marionette nelle mani di chi detiene il potere.

Immaginando di rivolgersi ad un alto funzionario della polizia o granducale (il poeta è pistoiese) o austriaca, Giusti inizia con questi versi:

Vostra Eccellenza, che mi sta in cagnesco
per que’ pochi scherzucci di dozzina,
e mi gabella per anti-tedesco
perché metto le birbe alla berlina,
o senta il caso avvenuto di fresco
a me che girellando una mattina
càpito in Sant’Ambrogio di Milano,
in quello vecchio, là, fuori di mano.

Fin dall’incipit si può osservare l’ironia con cui il poeta esprime la sensazione di essere guardato in cagnesco da quel funzionario che l’ha di certo etichettato come anti-tedesco perché nei suoi scherzucci si prende gioco dei birbanti (tiranni, traditori, finti liberali …). Dopo il preambolo, con quel O senta tutto toscano si appresta a raccontare al suo interlocutore ciò che gli era successo una mattina in occasione di una visita nella basilica di Sant’Ambrogio.

M’era compagno il figlio giovinetto
d’un di que’ capi un po’ pericolosi,
di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto
ove si tratta di Promossi Sposi…
Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?
Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi,
in tutt’altre faccende affaccendato,
a questa roba è morto e sotterrato.

Il poeta si trova in compagnia del giovane figlio del Manzoni (forse Filippo), qui chiamato confidenzialmente Sandro e scherzosamente definito un di que’ capi un po’ pericolosi, riferendosi, senza mezzi termini, alla palese avversione che Manzoni nutriva nei confronti degli Austriaci e definendo il capolavoro del poeta lombardo romanzetto, prendendosi gioco anche di lui. L’intento di gabbare il funzionario si fa palese in quel Che fa il nesci (più o meno lo gnorri), salvo poi giungere alla conclusione che forse quel romanzo non l’ha letto perché il suo cervello ha tante altre faccende di cui occuparsi, prima fra tutte, è sottinteso, rendere infelici i poveri “oppressi”. Ecco che, proseguendo lo scherzo, arriva la sferzata per l’ignaro interlocutore: Dio lo riposi è un augurio che solitamente viene rivolto ai morti: il cervello del tale è, dunque, morto e sotterrato, constatazione che porta ironicamente l’attenzione del lettore sull’ignoranza e la pochezza di certi ufficiali.

Entro, e ti trovo un pieno di soldati,
di que’ soldati settentrionali,
come sarebbe Boemi e Croati,
messi qui nella vigna a far da pali:
difatto se ne stavano impalati,
come sogliono in faccia a’ generali,
co’ baffi di capecchio e con que’ musi,
davanti a Dio, diritti come fusi
.

Eccoci arrivati al racconto del fatto accaduto a Giusti in quel di Sant’Ambrogio. Nella basilica il poeta trova dei soldati, forse Boemi o Croati, popolazioni che allora facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico. Erano lì, come i pali che sorreggono le vigne, a controllare l’ordine, mandati dai funzionari austriaci (le vigne); l’ironia si coglie anche qui in quell’impalati che li descrive nell’atteggiamento servile di chi è sempre pronto ad obbedire. Anche i baffi che Giusti paragona alla stoppa (capecchio), riferendosi ai caratteristici “colori” di quei popoli, perlopiù biondi, costituiscono una nota ironica che si accompagna a quel dritti come fusi davanti a Dio, come se dovessero stare sull’attenti anche davanti al Creatore.

Mi tenni indietro, ché, piovuto in mezzo
di quella maramaglia, io non lo nego
d’aver provato un senso di ribrezzo,
che lei non prova in grazia dell’impiego.
Sentiva un’afa, un alito di lezzo;
scusi, Eccellenza, mi parean di sego,
in quella bella casa del Signore,
fin le candele dell’altar maggiore.

Ecco che il ribrezzo, la repulsione prende il sopravvento: Giusti non ha voglia di mischiarsi a quella “marmaglia”, un ribrezzo che, ovviamente, il funzionario non può provare, visto che ci vive in mezzo abitualmente e che, proprio grazie a questo suo impiego che gli garantisce lo stipendio, riesce a sopportare. L’aria, poi, là dentro è decisamente viziata (e non può essere altrimenti visti gli “ospiti”), talmente pesante da far sprigionare persino dalle candele un odore non simile alla cera (che allora doveva essere di ottima qualità) quanto al sego con cui i soldati si ungevano i baffi. Insomma, sembra proprio che la sacralità del luogo risenta dell’influsso negativo di quei soldati puzzolenti.

Ma, in quella che s’appresta il sacerdote
a consacrar la mistica vivanda,
di sùbita dolcezza mi percuote
su, di verso l’altare, un suon di banda.
Dalle trombe di guerra uscian le note
come di voce che si raccomanda,
d’una gente che gema in duri stenti
e de’ perduti beni si rammenti
.

Quel Ma nell’incipit della nuova ottava riporta l’attenzione sulla sacralità del luogo e ispira nel poeta una sincera commozione religiosa. Le note di un canto (nell’ottava seguente verrà specificato che si tratta del coro dell’opera verdiana I Lombardi alla prima crociata) rende l’atmosfera soave e nel contempo drammatica: si parla di un popolo che soffre fra gli stenti ricordando tutto il bene che ha perduto. Come non leggere tra le righe la sofferenza dei Lombardi, contemporanei di Manzoni e di Giusti, sottoposti all’ingiusta tirannia austriaca?

Era un coro del Verdi; il coro a Dio
Là de’ Lombardi miseri, assetati;
quello: “O Signore, dal tetto natio”,
che tanti petti ha scossi e inebriati.
Qui cominciai a non esser più io
e come se que’ còsi doventati
fossero gente della nostra gente,
entrai nel branco involontariamente
.

Il coro porta ad una specie di trasfigurazione del poeta che si sente parte di quella gente, di quel branco che prima aveva osservato da lontano e con disprezzo, come se non fosse più lui, rapito dalla musica e dal canto che lo inebria e lo porta ad essere solidale con chi forse non soffre meno di lui.

Che vuol ella, Eccellenza, il pezzo è bello,
poi nostro, e poi suonato come va;
e coll’arte di mezzo, e col cervello
dato all’arte, l’ubbie si buttan là.
Ma, cessato che fu, dentro, bel bello,
lo ritornava a star come la sa;
quand’eccoti, per farmi un altro tiro,
da quelle bocche che parean di ghiro,

un cantico tedesco, lento lento
per l’aer sacro a Dio mosse le penne;
era preghiera, e mi parea lamento,
d’un suono grave, flebile, solenne,
tal, che sempre nell’anima lo sento:
e mi stupisco che in quelle cotenne,
in que’ fantocci esotici di legno,
potesse l’armonia fino a quel segno
.

E sì, ormai è totalmente rapito da quel pezzo nostro, perché legato al concetto di patria, perché appartiene alla nostra cultura, quella italiana, di cui nessuno straniero potrà mai privarci. Sull’onda emotiva di quella musica suonata con arte, ovvero “maestria”, passano in secondo piano anche l’ubbie, i pregiudizi. Ecco, quindi, che al cessar della musica, il poeta vorrebbe ritornare allo stato iniziale, a quella repulsione provata all’entrata in chiesa, ma involontariamente viene giocato da un nuovo tiro: dalle bocche che parean di ghiro (il riferimento ironico è ai baffi dei soldati, simili a quelli del piccolo mammifero) viene intonato un altro canto, questa volta tedesco, che s’innalza verso l’altare, una preghiera che è allo stesso tempo un lamento, un suono grave e solenne, ma contemporaneamente flebile, che gli rapisce per sempre l’anima. L’emozione è, quindi, temperata dall’ironia con cui dipinge gli austriaci: cotenne, in riferimento all’insensibilità come quella della pelle spessa dei maiali, e fantocci esotici di legno, espressione in cui l’aggettivo esotici rimanda a tutto ciò che è estraneo alla nostra cultura. L’empatia, attraverso la musica, si fa incredibilmente concreta.

Sentia, nell’inno, la dolcezza amara
de’ canti uditi da fanciullo; il core
che da voce domestica gl’impara,
ce li ripete i giorni del dolore:
un pensier mesto della madre cara,
un desiderio di pace e d’amore,
uno sgomento di lontano esilio,
che mi faceva andare in visibilio
.

Anche nel coro tedesco il poeta percepisce la rinascita di quel sentimento nostalgico di infanzia e di patria lontana. Il cuore custodisce e ripete nei momenti di dolore i canti imparati da fanciullo: gli affetti familiari, il desiderio di pace, la voglia e l’inclinazione ad amare in modo disinteressato, il dolore per la lontananza dalla patria sono sensazioni che il poeta non può fare a meno di condividere con quei soldati in un primo momento detestati. Anche il tono della poesia cambia e questa ottava costituisce l’apice del pathos.

E, quando tacque, mi lasciò pensoso
di pensieri più forti e più soavi.
Costor, – dicea tra me, – re pauroso
degi’italici moti e degli slavi,
strappa a’ lor tetti, e qua, senza riposo
schiavi li spinge, per tenerci schiavi;
gli spinge di Croazia e dli Boemme,
come mandre a svernar nelle maremme
.

Inizia qui la riflessione profonda di Giusti. A ben vedere questi soldati sono vittime anch’essi del potere: un imperatore timoroso dei moti insurrezionali, tanto in Italia quanto nei paesi slavi, strappa alle loro case (evidente qui la metonimia tetti) questi uomini che tengono schiavi noi pur essendo schiavi anch’essi. (evidente qui il chiasmo che rende ancor più drammatica la considerazione del poeta). Provengono dalla Croazia e dalla Boemia ma non sono poi molto diversi da quelle mandrie di buoi che i pastori toscani portano in Maremma a svernare.

A dura vita, a dura disciplina,
muti, derisi, solitari stanno,
strumenti ciechi d’occhiuta rapina,
che lor non tocca e che forse non sanno;
e quest’odio, che mai non avvicina
il popolo lombardo all’alemanno,
giova a chi regna dividendo, e teme
popoli avversi affratellati insieme
.

L’ottava inizia con un’enumerazione per asindeto che rende particolarmente lento il ritmo dei primi versi. È come se il poeta volesse sottolineare il senso della desolazione che caratterizza la vita dei soldati, incolpevoli strumenti della rapacità consapevole (occhiuta rapina) del sovrano, senza goderne i frutti. La rapacità, poi, riporta allo stemma austriaco, l’aquila grifagna. Essi, sottoposti ad una dura disciplina e costretti ad una condizione di vita difficile, soffrono in silenzio e solitudine, subendo la derisione di chi li odia per quel che rappresentano. È un odio che divide (efficace, qui, la litote non avvicina) i due popoli, l’italiano e il tedesco, giovando a chi regna e può confidare nell’impossibilità di una loro complicità pericolosa. È il concetto del divide et impera.

Povera gente! lontana da’ suoi;
in un paese, qui, che le vuol male,
chi sa, che in fondo all’anima po’ poi,
non mandi a quel paese il principale!
Gioco che l’hanno in tasca come noi.
Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,
colla su’ brava mazza di nocciòlo,
duro e piantato lì come un piolo
.

Nei primi versi dell’ottava finale c’è ancora spazio per la commozione del poeta: la comprensione arriva alla pietà nei confronti di questa povera gente, lontana dalla patria e costretta a subire l’atteggiamento ostile del paese che l’ospita. Ma presto la pietà sfuma in umorismo e chiude ciclicamente la lirica: l’arguzia di Giusti arriva a definire principale l’imperatore che, forse, i soldati intimamente mandano a quel paese. Magari, è pronto a scommetterlo, non lo sopportano esattamente come gli Italiani.
Ma l’immedesimazione qui si ferma: per non correre il rischio di abbracciare uno di quei soldati, l’autore, ricordandosi del suo spirito patriota, deve fuggire. Il caporale rimane lì, con il suo bastone di nocciolo (era l’insegna dei caporali austriaci), impalato esattamente come l’abbiamo trovato all’inizio della poesia, insieme ai suoi compagni di sventura.

GELMINI-BRAMBILLA: 6 EURO A TESTA AGLI STUDENTI PER LE GITE DELL’UNITÀ D’ITALIA

Come credo sia noto, quest’anno la maggior parte dei docenti delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado ha aderito ad una specie di “sciopero bianco” rinunciando ad accompagnare gli allievi nei viaggi d’istruzione (leggi “gite”). QUI ne ho spiegato le motivazioni.
Visto che tale decisione ha comportato un notevole danno alle agenzie turistiche che ogni anno incassano, proprio grazie alle “gite”, circa 650 milioni di euro, il ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini, e quello del Turismo, Michela Brambilla, hanno reso noto che, per sostenere il progetto “Dai Mille a un milione di studenti alla scoperta dell’unità d’Italia”, verranno stanziati 6 milioni di euro a favore delle scuole che vorranno visitare i luoghi storici del Risorgimento italiano.

Le proposte da parte delle scuole interessate al progetto dovranno essere presentate dall’11 marzo al 15 aprile, mentre le gite potranno essere realizzate per tutto il 2011.
Secondo il ministro Gelmini tale finanziamento consentirà di ridurre la spesa che le famiglie dovranno sostenere per i viaggi; aver recuperato questi soldi in un momento di tagli e di difficoltà economiche è un fatto estremamente positivo.

Il problema, tuttavia, pare essere sempre quello: chi accompagnerà le classi sui luoghi del Risorgimento? Il progetto Gelmini-Brambilla basterà per indurre i docenti, che hanno già manifestato l’intenzione di bloccare le gite, a fare dietro front? Io ne dubito molto, nonostante ritenga che lo sforzo dei ministri sia lodevole. Tuttavia, a conti fatti, considerando che gli studenti italiani sono circa un milione e lo stanziamento è di appena 6 milioni, posto che tutte le scuole aderiscano al progetto portando tutti gli studenti nei luoghi che hanno contrassegnato l’impegno dei nostri avi nel fare dell’Italia un Paese unito, la cifra pro capite sarebbe di appena 6 euro. Troppo poco per essere un contributo a favore delle famiglie che risparmierebbero una miseria, più o meno il costo di un pranzo al sacco.

Andare in gita, però, implica pagare i trasporti (sia il treno che il pullman hanno dei costi eccessivi), gli ingressi ai musei o alle mostre nonché le guide, visto che recentemente degli insegnanti, rei di illustrare agli allievi la storia dei posti visitati, sono stati zittiti dai custodi (LINK). Insomma, lo sforzo in apparenza appare lodevole ma, come sempre, ha tutta l’aria di essere propagandistico e per nulla conveniente a livello economico.

[fonte Tuttoscuola.com; foto Brambilla-Gelmini da Infosannio.com]

VIVA L’ITALIA, VIVA SANREMO, VIVA BENIGNI

Me lo devo sorbire questo show da 250mila euro. Non mi piacerà, già lo so. Lui non mi piace mai. Ma lo guarderò e poi commenterò.

Eccomi qua. Devo dire che pensavo peggio. Forse ero un po’ prevenuta, conoscendo il soggetto. E invece Benigni si è attenuto, senza molte divagazioni dal sapore politico e antigovernativo, al compito che gli è stato affidato per questa serata del Festival di Sanremo 2011 dedicata all’unificazione dell’Italia: l’esegesi dell’inno di Mameli. Non che abbia detto cose sconosciute; ci sono molti testi reperibili facilmente su Internet, che spiegano e commentano il nostro inno nazionale. Diciamo che lui ci ha messo l’interpretazione che, come sempre, è molto molto originale. Ma tant’è … Benigni è sempre Benigni!

Entra a cavallo, un bianco cavallo molto garibaldino, sbandierando il tricolore. Viva l’Italia. Sicuramente un debutto originale e in tema per questo Festival di cui sembra essere diventato ospite fisso. D’altronde, l’audience in calo rispetto alla prima serata (dai 12 milioni ai 10 scarsi) impone un intervento come il suo, in terza serata, per risollevare le sorti dello share. Il risultato? Quindici milioni di Italiani incollati al video durante i cinquanta minuti del suo intervento. Be’, niente male.

Prima battuta: dov’è la vittoria? Sembra scritto per il Pd. Poi, però si ricompone e prosegue serio.

Mameli, dice, era minorenne quando ha scritto il testo dell’inno nazionale. Aveva solo vent’anni e ai suoi tempi la maggiore età si raggiungeva a ventun’anni. Il povero Goffredo, però, nemmeno li ha raggiunti: è morto sei mesi dopo la stesura dell’inno, combattendo per la sua Italia, per quella vittoria.
Segue – c’era da aspettarselo – la divagazione sulle minorenni, ma si limita a citare, dal palco dell’Ariston, com’è giusto, la Cinquetti che cantava, proprio a Sanremo, “Non ho l’età” … salvo poi aggiungere che si era spacciata per la nipote di Claudio Villa. Fragorosa risata del pubblico. Sorrido anch’io.
Poi – difficile resistere alle tentazioni – parla di Ruby e dice che per scoprire se fosse o non fosse la nipote di Mubarak bastava andare all’anagrafe e vedere se Mubarak di cognome fa Rubacuori.
A questo punto teme che arrivino delle telefonate in diretta, come succede spesso di questi tempi nelle trasmissioni televisive, da parte di due persone. Poi si consola vedendone almeno una in platea

Ed ecco che affronta il discorso dell’unità dicendo che è sacra, fatta da persone straordinarie: prima di Mazzini e Garibaldi, c’erano i Carbonari, Silvio Pellico che ha scritto Le mie prigioni … altra risata del pubblico. E poi c’era la casa reale dei Savoia, Vittorio Emanuele II che a Teano s’incontrò con Garibaldi e hanno vinto. Emanuele Filiberto, invece, s’incontrò con Pupo a sanremo e hanno vinto pure loro … quasi.

Arriva il momento di Cavour, il secondo grande statista dell’Italia; alla fine della carriera lo beccarono con la nipote di Metternich. Eh, sì, la tentazione della battuta è forte.
I giovani del Risorgimento hanno dato la vita per noi, dice Benigni. Garibaldi era un mito, come Che Guevara, era detto il diablo, bello, ardimentoso, l’eroe dei due mondi … “non sto parlando di Marchionne”, aggiunge, ammiccando sottovoce.

La cultura italiana, sostiene, è nata prima della nazione stessa, unico caso al mondo. E questo è decisamente vero.
Il vero patriota non ritiene mai il suo Paese il migliore ma l’allegria di vivere in un Paese che piace è sano patriottismo. Amarlo troppo è sbagliato. Non esiste il troppo amore, si ama e basta. Uno è morto, non è troppo morto. Amore e morte sono uguali. Quando si “sente” la bandiera, si vive un attimo eterno.

Cavour, Mazzini e Garibaldi sono entrati in politica e ne sono usciti più poveri. Una cosa memorabile. Sorriso ironico.

A questo punto Benigni spiega che la parola Risorgimento è stata usata per la prima volta dall’Alfieri, è una parola mistica, è una resurrezione. L’Italia era un corpo saccheggiato, il più bello del mondo. Ed è vero: basta andare un po’ in giro per i musei del mondo per rendersene conto.

Ed ora arriviamo, finalmente, all’inno. Il comico toscano spiega che Mameli, l’autore del testo, e Novaro, autore della musica, erano a Genova e lì hanno composto la marcetta che è perfetta per un inno, ed è anche commovente. Novaro lesse il testo e si commosse, si buttò sul pianoforte, bruciò tutto con la candela ma si ricordò benissimo il testo, lo sapeva già a memoria. Poi, dice, caso strano che si ricordi l’inno di Mameli, che ha scritto il testo, e non di Novaro, il musicista. Come dire “la Traviata di Piave”, che è il librettista.

Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta;
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa
.

Inizia – era ora – l’esegesi, partendo dai primi versi. L’Italia sé desta, ovvero svegliamoci per realizzare i sogni. L’elmo di Scipio è quello di Scipione l’Africano che nel 202 a Zama sconfisse Annibale, è il più grande generale di tutti i tempi perché con quella battaglia vinta ha dato agli Italiani, e non solo, la cultura, altrimenti saremmo diventati tutti Fenici. Per trovare dei generali così dobbiamo arrivare a Waterloo, a Napoleone e Wellington. Poi agginge che ogni impero che c’è nel mondo è una pallida versione di quello romano.

Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma;
ché schiava di Roma
Iddio la creò
.

Qui, dice Benigni, qualcuno sbaglia credendo che il soggetto sia l’Italia schiava di Roma (vero Umberto?) e invece è la vittoria che si inchina di fronte all’Italia.

Stringiamci a coorte!
La coorte è la decima parte della legione romana. Il motto dei Romani era divide et impera, quindi restando uniti, stretti alla coorte, si vince.

Noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò
.

A questo punto il comico parla della bandiera e dice che c’era già prima dell’unificazione dell’Italia. L’aveva inventata Mazzini, il fondatore della Giovane Italia. La bandiera unisce così come la lingua che è la nostra identità più profonda. I poeti, osserva Benigni, ci hanno dato la lingua ma anche la bandiera, con i suoi colori, è stata ispirata dalla poesia. Dante, nel XXX canto del Purgatorio introduce Beatrice, su un carro e circondata dai fiori, sopra un candido velo cinta d’olivo, con indosso un verde manto e vestita di rosso vivo. Mazzini, quindi, si è ispirato per la bandiera a questi colori: bianco, rosso e verde.

Uniamoci, amiamoci;
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?

Qui fa una divagazione sulle donne del Risorgimento, eroine che, come Anita Garibaldi morta incinta, hanno dato la vita per l’Italia. Le altre, purtroppo, me le sono perse. Diciamo che stavo iniziando ad annoiarmi.

Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core e la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò
.

In pochi versi sono racchiusi i diversi luoghi della penisola oppressi dallo straniero, da nord a sud. Legnano è una città simbolo della riscossa dei comuni settentrionali, unitisi nella Lega Lombarda, contro il Barbarossa. La vittoria contro l’imperatore fa sì che Legnano sia dentro l’inno di Mameli. Segue una divagazione sulla scuola e sulla necessità di far vivere agli studenti questa festa (implicita polemica nei confronti della Gelmini che vorrebbe le scuole aperte il 17 marzo prossimo).

Segue il riferimento a Francesco Ferrucci e all’assedio di Firenze (2 agosto 1530) con cui l’imperatore voleva abbattere la repubblica. Narra quindi l’episodio di Ferrucci che, morente, venne vigliaccamente finito con una pugnalata da Fabrizio Maramaldo, un capitano di ventura al servizio di Carlo V. «Vile, tu uccidi un uomo morto», furono le celebri parole d’infamia che l’eroe rivolse al suo assassino.
Poi il riferimento a Balilla, un quattordicenne protagonista di un atto eroico a Genova, dominata dagli asburgici. Il giovane lanciò la prima pietra contro i nemici e il popolo li spappolò. Poi nel ventennio gli misero la camicia nera
A Palermo i francesi, gli Angioini, avevano determinato la reazione dei cittadini ai Vespri, detti poi siciliani. L’insurrezione del Lunedì di Pasqua del 1282 contro i francesi si estese poi a tutta la Sicilia, scatenata dal suono di tutte le campane della città. Ne parla anche Dante nell’VIII canto del Paradiso:
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”
. (vv. 73-75)

Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
e il sangue Polacco
bevé col Cosacco, ma il cor le bruciò
.

Continua il commento dell’inno. Qui si fa riferimento ai mercenari austriaci che hanno venduto l’aquila (simbolo dell’impero) e all’Austria che con l’aiuto della Russia aveva smembrato la Polonia.

L’ultima parte dell’esegesi è apparsa alquanto affrettata, anche perché deve aver occupato più tempo del dovuto, quindi ringrazia e augura a tutti di essere felici, ricordando che la felicità è fatta di semplici cose, non care.


L’intervento di Benigni si conclude con una toccante interpretazione dell’inno, immaginando di essere un soldato che riflette tra sé e sé sul significato del testo.
Lo ammetto: ha commosso anche me. Una delle rare vote in cui riesco a seguire un intero intervento di Benigni … non solo perché avevo promesso di commentarlo. Chi ha letto la prima stesura del post, avrà notato che ho cambiato anche il titolo. Per una volta, forse l’ultima per me, mi sento di esclamare: viva Benigni!

[POST AGGIORNATO IL 18 FEBBRAIO 2011. Foto tvblog]

AGGIORNAMENTO DEL POST, 21 FEBBRAIO 2011

Anche se in ritardo, segnalo questo bell’articolo di Gian Antonio Stella su Il Corriere: Sotto l’elmo di Benigni

F-150: L’UNITÀ D’ITALIA DÀ ORIGINE AD UNA DIATRIBA TRA LA FERRARI E LA FORD


La notizia mi era sfuggita, lo ammetto. Me ne ha parlato oggi a pranzo mio figlio maggiore, appassionato di motori, Formula 1 e Rally, nonché lui stesso pilota e navigatore nelle gare di rally.

In breve: la Ferrari, mitica casa automobilistica di Maranello, ha pensato di fare un omaggio all’Italia Unita, di cui il 17 marzo prossimo ricorre il 150esimo anniversario, come ben sappiamo, battezzando F-150 la sua ultima creatura, da lanciare nella prossima stagione di F1. Fino a qui nulla da dire, almeno da parte degli ammiratori – e non – della F1 che tifano Ferrari. Ma così non è per un’altra casa automobilistica: la Ford.

Leggo solo ora la notizia pubblicata sul sito di Tgcom il 10 febbraio scorso: «Secondo la Ford (che è diretto concorrente di Chrysler, marchio che fa parte del gruppo Fiat come la rossa di Maranello), la Ferrari “ha usurpato il celebre marchio depositato F-150 annunciando una vettura da corsa di formula 1 denominata F150 e ha cominciato a fare la promozione”. La casa automobilistica americana spiega in una nota che “F-150 è un marchio stabile e importante per Ford, essendo il nome del suo modello di pick up più venduto nella serie di pick up serie F”. Questo marchio, “duramente conquistato”, è invece ora “seriamente minacciato dall’adozione del nome F150”, continua la Ford..»

Naturalmente da Maranello è giunta sollecita la replica tramite una nota che recita così: «La sigla F150 (utilizzato come abbreviativo della denominazione completa Ferrari F150th Italia) non è, né mai sarà, il nome di un prodotto commerciale, non ci sarà certo una produzione di serie della monoposto, ma, come sempre nella storia della Scuderia, rappresenta la nomenclatura di un progetto di una vettura da competizione».

Pensate sia finita così? No, perché l’ “incidente diplomatico” avrebbe rischiato di incrinare i rapporti tra Italia e Stati Uniti, di conseguenza la casa della Rossa ha fatto un passo indietro: la prossima monoposto porterà intera la denominazione e si chiamerà F150th Italia. Una sigla orribile, per giunta.

I rapporti con l’America sono salvi, ma mi chiedo: la Ferrari non poteva risparmiarsi tutto questo patriottismo che, sinceramente, pare fuori luogo? In fondo è la Rossa per antonomasia, per il tricolore mancano il verde e il bianco.

[immagine tratta da questo sito]

FRIULI VENEZIA-GIULIA: PER CELEBRARE L’UNITÀ D’ITALIA LA BANDIERA ASBURGICA AL POSTO DEL TRICOLORE?


Il Friuli Venezia-Giulia è sempre stata una regione speciale … anche per quanto riguarda lo Statuto. È, infatti, una delle regioni “autonome” che in Italia sono cinque in tutto: oltre a quella citata, le due isole maggiori della Sardegna e della Sicilia, la Valle d’Aosta, il Trentino -Alto Adige.

Sui festeggiamenti in corso per celebrare i 150 anni dall’Unità d’Italia, il presidente della Giunta Regionale, il leghista Edouard Ballaman, si è pronunciato in questo modo: «Se dovessimo celebrare in Friuli Venezia Giulia i 150 anni dovremmo issare sul pennone la bandiera austro-ungarica. Siamo in un’altra realtà». E già, come potremmo dimenticare la lunga e per certi versi felice dominazione austriaca? Mentre in altre regioni, come la Lombardia e il Veneto (Venezia, soprattutto), lo straniero non era così felicemente sopportato, qui si va ancora in giro a dire, con una vena di nostalgia, che “l’Austria era un paese ordinato” (che è anche il titolo di una commedia scritta nel 1969 dal duo satirico Lino Carpinteri e Mariano Faraguna). Poi, non si perde occasione di ricordare quanto Trieste, capoluogo regionale, sia stata fortunata ad essere retta, dall’inizio del secondo dopoguerra al 1954, dal cosiddetto Governo Militare Alleato, cioè dagli angloamericani: qui, a quei tempi, si stava decisamente meglio che nel resto d’Italia.

Quando centocinquant’anni fa Garibaldi, con i suoi Mille, occupava il sud dell’Italia e poneva le basi per la definitiva unificazione della penisola, a Trieste che succedeva? Noi si stava sotto l’Austria. Quando poi, durante la III guerra d’Indipendenza, nel 1866 l’Italia si alleò con la Prussia proprio per annettere le Venezie, il tentativo fu fallimentare e il Friuli Venezia-Giulia rimase fermamente ancorato all’impero asburgico.
L’unificazione dell’Italia si completa, quindi, solo al termine della I guerra mondiale. Ma il destino della nostra regione è ancora contrassegnato dalla presenza dello “straniero”. Alla fine del secondo conflitto mondiale, come già detto, in seguito alla firma del Trattato di Pace di Parigi la regione perde gran parte della Venezia Giulia. L’istituzione del TLT (Territorio Libero di Trieste) prevede la divisione in due zone: la Zona A che comprendeva Trieste e le zone limitrofe, e la Zona B che includeva parte dell’Istria nord-occidentale.
Il 26 ottobre 1954 la zona A del TLT ritornò all’Italia; la zona B restò invece alla Jugoslavia. Lo Stato italiano decise, nel 1963, di unire la parte del Territorio Libero di Trieste, assegnato all’Italia, al Friuli, formato all’epoca dalle sole province di Udine e Gorizia (la Provincia di Pordenone sarà istituita solo nel 1968 per distacco dalla Provincia di Udine), fornendo anche una certa autonomia alla nuova regione, che, oltretutto, era situata in prossimità della Cortina di ferro. (LINK)

Qui, come tutte le terre di confine, siamo multietnici d’avanguardia. Qui si parlano diverse lingue: quelle nazionali come ovviamente l’italiano, accanto allo sloveno e al tedesco; quelle regionali come il friulano (nelle sue infinite varietà), il carnico, il triestino, il “bisiacco” … Qui siamo da sempre nella mitteleuropa, prima ancora che si coniasse questo termine e gli altri Italiani ne comprendessero il significato . Una città cosmopolita, Trieste. Un crogiuolo di etnie che si sono arricchite con l’arrivo di altri popoli, altre culture, altre lingue e religioni. Nel capoluogo giuliano, ad esempio, da sempre esistono chiese di molti culti: la Chiesa di rito serbo – ortodosso di San Spiridione, quella di rito greco-ortodosso consacrata a San Nicola e la sinagoga. Ma ci sono anche molti altri luoghi di culto delle diverse Chiese evangeliche tra cui si annoverano quella Evangelico- luterana, la Chiesa Cristiana Evangelica, quella Evangelica Metodista e la Riformata Elvetica e Valdese. Esistono pure la Chiesa Cristiana Avventista, la Chiesa di Cristo, la Chiesa di Gesù Cristo dei S.V.G. e la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova.

Cosa significa, dunque, essere italiani a Trieste? Forse essere cittadini del mondo con in tasca una carta d’identità che in fondo un po’ mente. Significa essersi abituati da sempre a rispettare anche l’alterità, senza rinunciare alla nostra identità arricchita, però, dall’esperienza quotidiana di cittadini mitteleuropei.
Tuttavia, senza dimenticarsi di essere Italiani, senza dimenticarsi dei nostri avi che hanno combattuto e sono morti per difendere la nostra italianità. Siamo Italiani come tutti quelli che cantano l’inno di Mameli guardando e tifando per la nazionale di calcio. Orgogliosi del nostro tricolore prima ancora che della nostra alabarda o dell’aquila friulana.

Garibaldi, è vero, ha fatto l’Italia ma non il Friuli Venezia-Giulia. Ma l’Austria, caro presidente Ballaman, è un ricordo lontano, seppur testimoniato ai nostri occhi dai monumenti di Sissi e di Massimiliano d’Asburgo, o dal castello di Miramare che guarda la distesa blu dell’Adriatico che non ha confini. Ci ricordiamo, forse, di essere anche un po’ asburgici quando mangiamo lo strudel o la torta Sacher seduti al Caffè Viennese.
Ma non ci dimentichiamo di essere Italiani.

[fonte della notizia Il Messaggero Veneto]