Me lo devo sorbire questo show da 250mila euro. Non mi piacerà, già lo so. Lui non mi piace mai. Ma lo guarderò e poi commenterò.
Eccomi qua. Devo dire che pensavo peggio. Forse ero un po’ prevenuta, conoscendo il soggetto. E invece Benigni si è attenuto, senza molte divagazioni dal sapore politico e antigovernativo, al compito che gli è stato affidato per questa serata del Festival di Sanremo 2011 dedicata all’unificazione dell’Italia: l’esegesi dell’inno di Mameli. Non che abbia detto cose sconosciute; ci sono molti testi reperibili facilmente su Internet, che spiegano e commentano il nostro inno nazionale. Diciamo che lui ci ha messo l’interpretazione che, come sempre, è molto molto originale. Ma tant’è … Benigni è sempre Benigni!
Entra a cavallo, un bianco cavallo molto garibaldino, sbandierando il tricolore. Viva l’Italia. Sicuramente un debutto originale e in tema per questo Festival di cui sembra essere diventato ospite fisso. D’altronde, l’audience in calo rispetto alla prima serata (dai 12 milioni ai 10 scarsi) impone un intervento come il suo, in terza serata, per risollevare le sorti dello share. Il risultato? Quindici milioni di Italiani incollati al video durante i cinquanta minuti del suo intervento. Be’, niente male.
Prima battuta: dov’è la vittoria? Sembra scritto per il Pd. Poi, però si ricompone e prosegue serio.
Mameli, dice, era minorenne quando ha scritto il testo dell’inno nazionale. Aveva solo vent’anni e ai suoi tempi la maggiore età si raggiungeva a ventun’anni. Il povero Goffredo, però, nemmeno li ha raggiunti: è morto sei mesi dopo la stesura dell’inno, combattendo per la sua Italia, per quella vittoria.
Segue – c’era da aspettarselo – la divagazione sulle minorenni, ma si limita a citare, dal palco dell’Ariston, com’è giusto, la Cinquetti che cantava, proprio a Sanremo, “Non ho l’età” … salvo poi aggiungere che si era spacciata per la nipote di Claudio Villa. Fragorosa risata del pubblico. Sorrido anch’io.
Poi – difficile resistere alle tentazioni – parla di Ruby e dice che per scoprire se fosse o non fosse la nipote di Mubarak bastava andare all’anagrafe e vedere se Mubarak di cognome fa Rubacuori.
A questo punto teme che arrivino delle telefonate in diretta, come succede spesso di questi tempi nelle trasmissioni televisive, da parte di due persone. Poi si consola vedendone almeno una in platea …
Ed ecco che affronta il discorso dell’unità dicendo che è sacra, fatta da persone straordinarie: prima di Mazzini e Garibaldi, c’erano i Carbonari, Silvio Pellico che ha scritto Le mie prigioni … altra risata del pubblico. E poi c’era la casa reale dei Savoia, Vittorio Emanuele II che a Teano s’incontrò con Garibaldi e hanno vinto. Emanuele Filiberto, invece, s’incontrò con Pupo a sanremo e hanno vinto pure loro … quasi.
Arriva il momento di Cavour, il secondo grande statista dell’Italia; alla fine della carriera lo beccarono con la nipote di Metternich. Eh, sì, la tentazione della battuta è forte.
I giovani del Risorgimento hanno dato la vita per noi, dice Benigni. Garibaldi era un mito, come Che Guevara, era detto il diablo, bello, ardimentoso, l’eroe dei due mondi … “non sto parlando di Marchionne”, aggiunge, ammiccando sottovoce.
La cultura italiana, sostiene, è nata prima della nazione stessa, unico caso al mondo. E questo è decisamente vero.
Il vero patriota non ritiene mai il suo Paese il migliore ma l’allegria di vivere in un Paese che piace è sano patriottismo. Amarlo troppo è sbagliato. Non esiste il troppo amore, si ama e basta. Uno è morto, non è troppo morto. Amore e morte sono uguali. Quando si “sente” la bandiera, si vive un attimo eterno.
Cavour, Mazzini e Garibaldi sono entrati in politica e ne sono usciti più poveri. Una cosa memorabile. Sorriso ironico.
A questo punto Benigni spiega che la parola Risorgimento è stata usata per la prima volta dall’Alfieri, è una parola mistica, è una resurrezione. L’Italia era un corpo saccheggiato, il più bello del mondo. Ed è vero: basta andare un po’ in giro per i musei del mondo per rendersene conto.
Ed ora arriviamo, finalmente, all’inno. Il comico toscano spiega che Mameli, l’autore del testo, e Novaro, autore della musica, erano a Genova e lì hanno composto la marcetta che è perfetta per un inno, ed è anche commovente. Novaro lesse il testo e si commosse, si buttò sul pianoforte, bruciò tutto con la candela ma si ricordò benissimo il testo, lo sapeva già a memoria. Poi, dice, caso strano che si ricordi l’inno di Mameli, che ha scritto il testo, e non di Novaro, il musicista. Come dire “la Traviata di Piave”, che è il librettista.
Fratelli d’Italia,
l’Italia s’è desta;
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Inizia – era ora – l’esegesi, partendo dai primi versi. L’Italia sé desta, ovvero svegliamoci per realizzare i sogni. L’elmo di Scipio è quello di Scipione l’Africano che nel 202 a Zama sconfisse Annibale, è il più grande generale di tutti i tempi perché con quella battaglia vinta ha dato agli Italiani, e non solo, la cultura, altrimenti saremmo diventati tutti Fenici. Per trovare dei generali così dobbiamo arrivare a Waterloo, a Napoleone e Wellington. Poi agginge che ogni impero che c’è nel mondo è una pallida versione di quello romano.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma;
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Qui, dice Benigni, qualcuno sbaglia credendo che il soggetto sia l’Italia schiava di Roma (vero Umberto?) e invece è la vittoria che si inchina di fronte all’Italia.
Stringiamci a coorte!
La coorte è la decima parte della legione romana. Il motto dei Romani era divide et impera, quindi restando uniti, stretti alla coorte, si vince.
Noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.
A questo punto il comico parla della bandiera e dice che c’era già prima dell’unificazione dell’Italia. L’aveva inventata Mazzini, il fondatore della Giovane Italia. La bandiera unisce così come la lingua che è la nostra identità più profonda. I poeti, osserva Benigni, ci hanno dato la lingua ma anche la bandiera, con i suoi colori, è stata ispirata dalla poesia. Dante, nel XXX canto del Purgatorio introduce Beatrice, su un carro e circondata dai fiori, sopra un candido velo cinta d’olivo, con indosso un verde manto e vestita di rosso vivo. Mazzini, quindi, si è ispirato per la bandiera a questi colori: bianco, rosso e verde.
Uniamoci, amiamoci;
l’unione e l’amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?
Qui fa una divagazione sulle donne del Risorgimento, eroine che, come Anita Garibaldi morta incinta, hanno dato la vita per l’Italia. Le altre, purtroppo, me le sono perse. Diciamo che stavo iniziando ad annoiarmi.
Dall’Alpe a Sicilia,
dovunque è Legnano;
ogn’uom di Ferruccio
ha il core e la mano;
i bimbi d’Italia
si chiaman Balilla;
il suon d’ogni squilla
i Vespri suonò.
In pochi versi sono racchiusi i diversi luoghi della penisola oppressi dallo straniero, da nord a sud. Legnano è una città simbolo della riscossa dei comuni settentrionali, unitisi nella Lega Lombarda, contro il Barbarossa. La vittoria contro l’imperatore fa sì che Legnano sia dentro l’inno di Mameli. Segue una divagazione sulla scuola e sulla necessità di far vivere agli studenti questa festa (implicita polemica nei confronti della Gelmini che vorrebbe le scuole aperte il 17 marzo prossimo).
Segue il riferimento a Francesco Ferrucci e all’assedio di Firenze (2 agosto 1530) con cui l’imperatore voleva abbattere la repubblica. Narra quindi l’episodio di Ferrucci che, morente, venne vigliaccamente finito con una pugnalata da Fabrizio Maramaldo, un capitano di ventura al servizio di Carlo V. «Vile, tu uccidi un uomo morto», furono le celebri parole d’infamia che l’eroe rivolse al suo assassino.
Poi il riferimento a Balilla, un quattordicenne protagonista di un atto eroico a Genova, dominata dagli asburgici. Il giovane lanciò la prima pietra contro i nemici e il popolo li spappolò. Poi nel ventennio gli misero la camicia nera …
A Palermo i francesi, gli Angioini, avevano determinato la reazione dei cittadini ai Vespri, detti poi siciliani. L’insurrezione del Lunedì di Pasqua del 1282 contro i francesi si estese poi a tutta la Sicilia, scatenata dal suono di tutte le campane della città. Ne parla anche Dante nell’VIII canto del Paradiso:
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”. (vv. 73-75)
Son giunchi che piegano
le spade vendute;
già l’aquila d’Austria
le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia
e il sangue Polacco
bevé col Cosacco, ma il cor le bruciò.
Continua il commento dell’inno. Qui si fa riferimento ai mercenari austriaci che hanno venduto l’aquila (simbolo dell’impero) e all’Austria che con l’aiuto della Russia aveva smembrato la Polonia.
L’ultima parte dell’esegesi è apparsa alquanto affrettata, anche perché deve aver occupato più tempo del dovuto, quindi ringrazia e augura a tutti di essere felici, ricordando che la felicità è fatta di semplici cose, non care.
L’intervento di Benigni si conclude con una toccante interpretazione dell’inno, immaginando di essere un soldato che riflette tra sé e sé sul significato del testo.
Lo ammetto: ha commosso anche me. Una delle rare vote in cui riesco a seguire un intero intervento di Benigni … non solo perché avevo promesso di commentarlo. Chi ha letto la prima stesura del post, avrà notato che ho cambiato anche il titolo. Per una volta, forse l’ultima per me, mi sento di esclamare: viva Benigni!
[POST AGGIORNATO IL 18 FEBBRAIO 2011. Foto tvblog]
AGGIORNAMENTO DEL POST, 21 FEBBRAIO 2011
Anche se in ritardo, segnalo questo bell’articolo di Gian Antonio Stella su Il Corriere: Sotto l’elmo di Benigni