IO NON ADOTTO “PETALOSO” MA ADOTTEREI IL BAMBINO

petaloso
Si chiama Matteo, come il mio primogenito. Ha otto anni ed è balzato, suo malgrado, agli onori della cronaca grazie alla sua maestra Margherita Aurora.

La storia la sapete. Non la ripeterò. Ma due parole su questo bambino e soprattutto sulla maestra le voglio spendere.

Margherita Aurora, 43 anni, insegna in provincia di Ferrara. E’ un’insegnante originale, a partire dai capelli viola. Già da aprile scorso si era distinta per aver assegnato ai bambini della scuola elementare di Copparo dei compiti per le vacanze di Pasqua piuttosto particolari: “Fai delle belle dormite riposanti, pisolini compresi”, “Se il tempo è bello, non stare chiuso in casa: esci e gioca all’aperto”. “Passa tutto il tempo con i tuoi genitori”. “Se hai dei nonni, fatti raccontare le storie di quando erano piccoli: sono divertenti e loro saranno felici di parlartene”, “Se fai un piccolo viaggio non giocare tutto il tempo ai videogames: guarda il paesaggio, leggi i cartelli lungo la strada e segna sul quaderno di italiano o su un taccuino i luoghi che visiti”.

Naturalmente anche allora, della maestra si è parlato a lungo. Ora, però, non si parla solo dei suoi compiti, si parla anche e soprattutto di Matteo, il bimbo che ha inventato un nuovo “aggettivo”. Un errore bello, l’ha definito Margherita Aurora, pur avendolo sottolineato in rosso sul compito dello scolaro. Tuttavia, invece di limitarsi a spiegare al bimbo che l’aggettivo “petaloso” non esiste, non si trova sui dizionari, ma che comunque lui sarebbe stato libero di usarlo perché molto bello, la maestra che fa? Scrive all’Accademia della Crusca, LEI, e segnala il neologismo inventato da Matteo.

Il seguito lo conoscete.
La scuola elementare di Copparo, la maestra, il piccolo Matteo, i suoi genitori, i suoi compagni… tutti famosi per quei 15 minuti profetizzati da Andy Warhol nel 1968. In realtà la notizia non è caduta nel dimenticatoio così presto e chissà per quanto ancora si parlerà della genesi di “petaloso” che, non faccio fatica a immaginarlo, presto sarà adottato dagli accademici della Crusca perché in fondo quel bambino se lo merita.

Qui una cosa è chiarissima: il bambino è solo vittima della sete di successo della sua maestra. Si era già data da fare con i “compiti” ma almeno poteva lasciar stare il piccolo Matteo.

Guardate QUI, se non l’avete visto, il video del servizio che il tg1 ha dedicato all’inventore di “petaloso”. Alla fine dell’intervista Matteo, con il pianto trattenuto in gola e gli occhi lucidi, non esita a dimostrare il suo disappunto nel vedersi attorniato da sconosciuti perché gli mettono ansia.

Ma lasciate stare quel povero piccolo! L’aggettivo che ha inventato non mi fa impazzire, non lo adotterei nella comunicazione quotidiana. Ma lui sì che lo adotterei, anche subito. E’ tenerissimo e innocente, come dev’essere ogni bambino della sua età.

Insomma, alla maestra dai capelli viola preferisco quella dalla penna rossa del libro Cuore. Di lei scrisse De Amicis:

«Sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per imporre silenzio; poi quando escono, corre come una bimba dietro all’uno e all’altro per rimetterli in fila; e a questo tira su il bavero, a quell’altro abbottona il cappotto perché non infreddino; li segue fin sulla strada perché non s’accapiglino, supplica i parenti che non li castighino a casa e porta delle pastiglie a quei che han la tosse».

Soprattutto non usava Facebook per far conoscere al mondo – almeno quello social – le prodezze dei suoi allievi.

[immagine da questo sito]

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“LA BUSTINA DI MINERVA” di UMBERTO ECO: “E QUANT’ALTRO”

lettereE quant’altro: un’espressione che detesto. Mi fa venire l’orticaria quasi come “assolutamente sì”. Hai voglia di spiegare a scuola, agli allievi, che “assolutamente” non ha una connotazione positiva, che è nato come avverbio negativo. Loro candidamente replicano che sul dizionario è scritto che si può dire “assolutamente sì”. Per forza, i vari Zingarelli, Sabatini-Coletti e i Devoto-Oli, cari compagni dell’età che fu, hanno deposto le armi davanti agli usi impropri del lessico italiano. Il bell’idioma è morto, facciamocene una ragione.
Personalmente nella riflessione di Umberto Eco, non trovo disdicevole quanto lui l’uso dell’abbreviazione prof. Un tempo sì, la ritenevo alquanto offensiva. Ora non più, anzi, mi sembra quasi un titolo affettuoso più che accademico, un’apostrofe che rimanda all’umanità della persona piuttosto che al suo titolo professionale. Sarà che la scuola è caduta dal suo piedistallo, sta sulla terra e non più innalzata al cielo del beati italofoni, ed è già tanto che non sprofondi nell’inferno più buio. Saremo noi prof dal titolo abbreviato a salvarla dallo sfacelo? Speriamo.

E quant’altro non avrei da dire, se non rivolgere l’invito a voi tutti a leggere questa “Bustina di Minerva” del sempreverde Eco. Mi rammarico, tuttavia, che fra le espressioni in voga nel nostro eloquio (a volte trasformato in turpiloquio) quotidiano, il buon Umberto, paladino del bel parlare, non abbia inserito anche l’insana abitudine di usare “piuttosto che” nell’accezione, tutta sbagliata ma tanto amata da molti, disgiuntiva al posto di “oppure”. Ma questo è un altro libro.

BUONA LETTURA!

umberto_ecoÈ ovvio che le persone che hanno raggiunto un’età sinodale siano infastidite dallo sviluppo della lingua, non riuscendo ad accettare i nuovi usi degli adolescenti. E la loro unica speranza è che questi usi durino lo spazio di un mattino, così come è accaduto con espressioni come “matusa” (anni Cinquanta-Sessanta, e chi la impiega ancora si rivela appunto, lui o lei, come matusa) o “bestiale” (ho udito una signora di incerta età usarlo e ho capito che era ragazza nei lontani anni Cinquanta). Però sino a che i nuovi usi circolano tra i ragazzi, direi che sono affari loro, talora molto divertenti. Diventano urtanti quando ci coinvolgono.

Non ho mai potuto sopportare, diciamo dagli Ottanta in avanti, che mi si chiamasse “prof”. Forse che un ingegnere lo si chiama “ing” e un avvocato “avv”? Al massimo si chiamava “doc” un dottore, ma era nel West, e di solito il doc stava morendo alcolizzato.

Non è che abbia mai protestato esplicitamente, anche perché l’uso rivelava una certa affettuosa confidenza, ma la cosa mi dava noia e me la dà ancora. Meglio quando nel ’68 gli studenti e i bidelli mi chiamavano Umberto e mi davano del tu. Chissà perché quando uno dice “prof” mi viene in mente uno con la faccia di Ricky Memphis.

Un’altra cosa a cui ero abituato è che le donne si dividevano in bionde e brune. A un certo punto “bruna” è diventato forse fuori moda e certo a me evoca le canzoni degli anni Quaranta e le pettinature con la frangetta. Fatto sta che a un certo punto non solo i ragazzi ma anche gli adulti hanno iniziato a parlare di una “mora” (e l’altro giorno ho letto su un giornale che un ballerino classico è un bel moro).

Orribile espressione, perché ai tempi andati “mora” veniva riservato alle odalische musulmane che danzavano sui cadaveri degli ultimi difensori di Famagosta, e oggi mi evoca il richiamo scurrile di un maschiaccio in canottiera che grida a una ragazza che passa “ehi, bella mora!”, e fatalmente si pensa alle maggiorate fisiche di Boccasile, o a giovani italiane che vincevano il concorso Cinquemila Lire Per Un Sorriso, olezzanti di profumi nazional popolari e con una foresta sotto le ascelle. Ma è così, le bionde rimangono bionde (platinate o cenere o paglierino che siano) mentre chi ha capelli scuri diventa una mora, anche se ha il viso di Audrey Hepburn. Insomma, preferisco gli inglesi che dicono “dark-haired” o “brunette”.

Detto questo, non è che sia misoneista, e via via ho assorbito nel mio lessico, se non come parlante attivo almeno come ascoltatore passivo, gasato, rugare, tavanare, sgamare, assurdo, punkabbestia, mitico, pradaiola, pacco, una cifra, lecchino, rinco, fumato, gnocca, cannare, essere fuori come un citofono, caramba, tamarro, abelinato, fighissimo, allupato, bollito, paglia e canna, fancazzista, taroccato, fuso, tirarsela. Ancora giorni fa un quattordicenne mi ha informato che a Roma, anche se si capisce ancora “marinare”, in ogni caso non si usa più “bigiare” ma si dice “pisciare la scuola”.

Comunque, a essere sincero, preferisco i neologismi giovanili al vizio adulto di dire a ogni piè sospinto “e quant’altro”: Non potete dire “e così via” o “eccetera”? Per fortuna son tramontati “attimino” ed “esatto”, per cui l’Italia era diventato il bel paese dove l’esatto suona, ma “quant’altro” rimane anche nei discorsi di persone serie ed è pareggiato in Francia solo dall’uso incontenibile di “incontournable” che serve a dire (udite, udite) che qualcosa è importante (e al massimo è imprescindibile). “Incontournable” è qualcosa che quando lo incontri non puoi giragli intorno ma devi farci i conti, e può essere una persona, un problema, la scadenza del pagamento delle tasse, l’obbligo della museruola per i cani o l’esistenza di Dio.

Pazienza, meglio i vezzi linguistici che l’uso improprio della lingua e, visto che recentemente un nostro deputato, per dire che non l’avrebbe tirata per le lunghe, ha affermato in Parlamento che sarebbe stato “circonciso”, sarebbe stato preferibile che si fosse limitato a dire soltanto “sarò breve, e quant’altro”. Però, almeno, non era antisemita. [LINK all’articolo originale]

NASCE “BEATRICE” IL SOCIAL DELLA LINGUA ITALIANA

beatrice-dante-marie-spartali-stillman-1895Finalmente un social che si occupa della lingua italiana e mette al bando abbreviazioni e altre storture linguistiche. Un vero proprio social network in cui si possono invitare gli amici per discutere, proporre idee, postare commenti, immagini e video.

“Beatrice” è nata grazie alla Società Dante Alighieri, già promotrice, qualche tempo fa, della campagna “Adotta una parola”, volta a custodire il patrimonio lessicale del nostro bell’idioma, preservando anche il lessico un po’ in disuso dalla definitiva estinzione.

Una volta iscritti al social “Beatrice”, sarà possibile organizzare la propria bacheca, mandare messaggi, gestire il proprio sito personale o quello della parola adottata, interagendo liberamente con gli altri utenti. Con il confronto e con lo scambio d’idee si potrà contribuire in modo più creativo alle varie campagne di promozione della lingua italiana, proponendo nuovi giochi e attività.

Come Beatrice è stata per Dante la guida illuminata verso la salus, la salvezza, così il nuovo social contribuirà non solo a salvare la lingua italiana ma fungerà anche da Musa ispiratrice per chiunque ami l’italico idioma. Non è necessario essere scrittori o poeti ma semplici appassionati che abbiano un po’ di tempo da spendere per custodire e arricchire la nostra lingua.

CLICCA QUI PER ACCEDERE AL SITO

[nell’immagine: “Beatrice” di Marie Spartali Stillman da questo sito]

L’AMORE NON È BELLO SE NON È … SGRAMMATICATO

Ammettiamolo: quante di noi avrebbero desiderato ardentemente una bella dichiarazione d’amore scritta sui muri? Ci siamo dovute accontentare, talvolta, di un cuore trafitto inciso sulla corteccia d’albero, con le iniziali che avrebbero potuto rimandare ai nomi di tante altre coppie. Oppure di una semplice incisione sulla panchina di un parco, con tanto di data ad imperitura memoria del nostro passaggio.

L’amore “gridato” al mondo, diciamolo, ha avuto il suo esordio grazie a Federico Moccia. Ci piaccia o no, quella scritta “Io e te tre metri sopra il cielo” è stato l’inizio. Da allora i fianchi dei ponti, i muri dei palazzi, i marciapiedi o l’asfalto delle strade hanno costituito il luogo prediletto per le dichiarazioni d’amore eclatanti, quelle che, passato l’amore, restano per sempre se non nel cuore almeno nella memoria.

Ecco che l’apostrofo, quello che, colorato di rosa, simboleggiava il bacio tra due innamorati per Cyrano, l’amante più ostinato della storia, trova il posto giusto nella parola sbagliata quando a dettare il messaggio è un cuore pulsante d’amore:

q'anto ti amo

buon s'an valentino

E che dire dell’acca? Solo un dettaglio insignificante perché quello che conta è la sincerità con cui viene fatta la dichiarazione:

acca amore

Magari la posizione dell’acca è discutibile, ma che importanza può avere quando l’amore è finito?

amore finito

Fosse solo l’acca il problema

amore sgrammaticato

L’amore non conosce regole, men che meno nell’uso del congiuntivo:

amore congiuntivo

Cuore e amore formano, come si sa, un binomio indissolubile. Ma forse qualcuno confonde la q di quadro con la c di cuore:

quore

Il guaio è quando la dichiarazione d’amore è indelebile … come nel caso di un tatuaggio:

amore qui

E poi, va bene che Moccia ha fatto scuola, ma c’è qualcuno che non sa nemmeno copiare:

amore celo

Come canta Emma, alla fine con l’amore si dimentica tutto … anche come si scrive il nome dell’amata:

amore mirela

… e non solo quello.

Infine, qual è la città dell’amore per eccellenza? Parigi, ovviamente. Ecco che una dichiarazione d’amore che si rispetti deve essere espressa nel franco idioma:

ge tem

Se volete divertirvi ancora, QUI ne trovate altre.

IN COMPENSO …

italianoCompenso deriva dal latino compensare, “pesare insieme”, che rimandava a un’idea di equilibrio: vali tanto, ti do tanto. Invece oggi che tutti guadagnano poco a prescindere da quanto valgono, chi viene pagato molto lo guardiamo con un certo sospetto. Abbiamo tutte le ragioni per farlo, ma ogni tanto sarebbe bello, invece di “quanto costa”, chiedersi “quanto vale“: con gli zero a costo zero si rischia di combinare ben poco.

(a cura di Alessandro Masi, dal supplemento Sette del Corriere della Sera).

In compenso è, invece, una locuzione molto usata che significa “in cambio”, “al posto di”. Prendiamo, ad esempio, questo enunciato: “Oggi non ho lavorato, in compenso mi sono divertita”. Non si può dire, tuttavia, che il “cambio” sia equilibrato!

Stranezze della lingua italiana.

VOCE DEL VERBO ASFALTARE. IL VOCABOLARIO RENZIANO

matteo renziCon tutta la stima che nutro per lui (sono convinta che se avesse vinto le primarie a quest’ora il Pd avrebbe la maggioranza assoluta al governo), il signor Matteo Renzi, sindaco di Firenze, dovrebbe avere la cortesia di spiegarmi l’uso del verbo asfaltare nella seguente affermazione:

«A Berlusconi conviene restare nel governo, ha paura delle elezioni perché sa che se andiamo al voto asfalteremo il Pdl». (dal Corriere)

Vuol far concorrenza al briffare della Minetti

[immagine da questo sito]

LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: SCOPERTA IN AUSTRALIA UNA NUOVA LINGUA

lajamanu
Questo venerdì mi dedico ad una notizia alquanto strana che riguarda la scoperta di una nuova lingua parlata in un piccolo villaggio dell’Australia.

Lajamanu, villaggio del Nord dell’Australia abitato da più o meno 700 anime, non è nuovo ai fatti di cronaca rimbalzati sui quotidiani di tutto il mondo. In qualche occasione è stata segnalata una strana pioggia di … pesci. Il singolare fenomeno si è verificato nel 1974, nel 2004 e nel 2010. Secondo i meteorologi, i pesci, piccoli pesci persici bianchi e a strisce, erano stati risucchiati verso l’alto nel corso di un temporale da mulinelli d’aria, per poi essere rigettati a terra più tardi.
Mark Kersemakers, dell’Agenzia australiana di Meteorologia, afferma: “(La tempesta) potrebbe aver trascinato in alto i pesci per più di 15 chilometri. Una volta in alto, si sono praticamente congelati. E dopo un po’ di tempo, sono stati rilasciati”. [LINK]

lajamanu people
Ma la pioggia di pesci non è l’unica curiosità che interessa questa località sperduta e sconosciuta ai più. Recentemente, infatti, un linguista americano, Carmelo O’Shannessy (dell’Università del Michigan), ha scoperto che gli abitanti più giovani di Lajamanu, che hanno un’età al di sotto dei 35 anni, hanno dato vita ad una nuova lingua. Si tratta di un idioma che nasce dalla contaminazione tra australiano, inglese e creolo, esattamente come la lingua locale, il Warlpiri.
Alla nuova lingua è stato dato il nome di Warlpiri rampaku (ovvero “veloce”) e secondo O’Shannessy può essere accostato a quegli idiomi usati dagli adolescenti in qualsiasi parte del mondo, perlopiù incomprensibili agli adulti. Con una differenza.

Si tratta, infatti, di un nuovo sistema linguistico, perché qui si incontrano gli elementi linguistici provenienti dalle lingue preesistenti ma in modo sistematico e molto tradizionale. Inoltre, i ragazzi crescendo non abbandonano l’utilizzo del Warlpiri rampaku, trasmettendolo alle generazioni future. Il fenomeno viene spiegato da O’Shannessy in questo modo: negli anni ’70 o ’80 i genitori hanno iniziato a parlare con i loro figli mescolando lingue e utilizzando questo standard per comunicare con loro in modo coerente. Per le persone bilingui è molto comune questo passaggio da una lingua all’altra nel mezzo di una conversazione. Ma quando i bambini cominciarono a parlare, l’hanno fatto seguendo lo stesso schema, e questo è diventato il modo di esprimersi dei più giovani.

Sebbene secondo lo studioso questo fenomeno non sia così raro (anche se non sempre si viene a conoscenza della nascita di nuove lingue), la curiosità della lingua nata a Lajamanu sta nel suo essere decisamente controcorrente. Prima dell’inizio della colonizzazione britannica dell’Australia nel 1788, vi erano nel paese circa 250 lingue aborigene parlate da quasi un milione di persone. Di queste sono sopravvissute solo poche decine.

Ma questo nuovo idioma sarà in grado di sopravvivere? Per Peter Bakker, professore associato di linguistica presso l’Università della Danimarca, specializzato nello sviluppo delle lingue, il futuro del Warlpiri veloce è più promettente di quello del tradizionale Warlpiri. “Quando una nuova lingua si sviluppa, di solito rimane molto stabile, per esempio, come accadde con i creoli di Papiamento nelle Antille,” ha spiegato.
Da parte sua Carmelo O’Shannessy è dell’avviso che solo il tempo dirà se il Warlpiri rampaku sopravviverà, in primo luogo perché i residenti di Lajamanu vengono spinti a smettere di usare entrambe le lingue, privilegiando la nuova varietà.

[fonti: Affaritaliani; bbc.co.uk e nytimes.com]

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Il parco delle meraviglie multietniche di laurin42

LE MIE ALTRE BUONE NOTIZIE

ASPETTANDO LA FUMATA BIANCA: VIVO UN PAPA SE NE FA UN ALTRO

stufa-cappella-sistinaSarà un Papa di transizione, s’era detto. E Joseph Ratzinger, ormai Papa emerito, non ha smentito la previsione: si è dimesso. Caso unico nell’età moderna. E ora come la mettiamo con il noto modo di dire: “Morto un Papa se ne fa un altro“?

Ironia a parte, molti sono i detti popolari che hanno come protagonista il Papa, volente o nolente. Certamente il più noto è quello testé citato, ma anche “ad ogni morte di Papa” è un aforisma usatissimo che d’ora in poi avrà meno valore. I due detti, infatti, puntano l’accento su un punto fermo che riguardava (ora non più) il pontificato: un papa eletto lo sarà per sempre, fino alla morte. Guarda un po’che scherzo ci ha fatto Benedetto XVI!

Ma qual è l’etimologia della parola Papa? E’ molto semplice: è associabile alla parola molto più familiare “papà“, dal latino papam a sua volta derivato dal greco papàs cioè “padre“. In fondo che cos’è il Pontefice se non il papà di tutti i cattolici?

A proposito di “Pontefice“, la parola ha origini molto lontane, addirittura precristiane. la Chiesa, infatti, con la diffusione del Cristianesimo, ha adottato delle parole latine o greche già in uso nel mondo pagano dei Romani e dei Greci per indicare precetti, persone e luoghi sacri.
La parola “fede“, ad esempio, in latino significava fedeltà e viene scelta per designare quel patto di fedeltà, appunto, che si stringeva tra i cristiani e la Chiesa. Quest’ultima parola, che indica sia il luogo sacro in cui si celebrano le funzioni sia l’istituzione ecclesiastica, deriva a sua volta dal greco ekklesìa con la quale si intendeva l’assemblea popolare. Infatti, la chiesa altro non è che un’assemblea di fedeli.
Gli antichi Romani nella basilica, parola che ha sempre origine dal greco basilikè, trattavano affari o tenevano i processi. Fu Costantino (IV secolo d.C.) a convertire gli antichi edifici in luoghi di culto religioso.

Ma pontefice che origini ha? Nell’antica Roma il pontifex era una sorta di sacerdote cui spettava organizzare i riti pubblici, stabilire il calendario delle funzioni, amministrare, insomma, le cose sacre. Data l’importanza della carica, il pontifex era detto maximus, ma l’etimologia della parola ci porta ad un’incombenza tutt’altro che religiosa: il termine, infatti, deriva dall’espressione pontem facere che significa “costruttore di ponti”, su cui aleggia il mistero. Secondo Varrone, il pontifex maximus avrebbe fatto costruire il primo ponte di Roma, il Sublicio, considerato un’opera sacra in quanto così si poteva accedere al tempio che si trovava al di là del fiume Tevere. Ma questa è solo una delle interpretazioni. Meno misteriosa è l’adozione della parola da parte della Chiesa per appellare il Santo Padre: il Pontefice, difatti, è colui che in un certo senso, nelle vesti del vescovo di Roma, fa da ponte fra il mondo dei fedeli e quello di Dio.

E dopo questa carrellata di parole ed etimologie, che non ha affatto la pretesa di essere esaustiva, passiamo ai modi di dire.

Stare come un Papa”: significa stare comodo e tranquillo, intendendo che la vita da Papa sia scevra da preoccupazioni. Pare che il detto risalga a Leone X (1513-1521), il quale appena eletto avrebbe esclamato soddisfatto: “Godiamoci il papato perché Dio ce l’ha dato”.

Dove è il Papa, lì è Roma”: è una rivisitazione campanilistica del detto latino Ubi Petrus, ibi Ecclesia, “dove c’è Pietro lì c’è la Chiesa”.

Il Papa è capo e coda”: si riferisce all’onnipotenza del Pontefice che, in un altro modo di dire, viene accostato al Padreterno: “Il Papa può al di là del diritto, sopra il diritto e contro il diritto”.

Anche il Papa ha mal di testa”: riconduce il Santo Padre ad una dimensione più umana. Anche lui, come tutti, è un essere umano, in fondo. Tant’è che esiste anche il detto “Non occupa più terra il corpo del Papa che quel del sagrestano” per ribadire il concetto.

Sa più il Papa e un contadino, che un Papa solo”: si riferisce al fatto che a volte bisogna dar retta anche all’esperienza e la saggezza dei più umili e non solo alle parole di chi è ritenuto eccelso.

Dire qualcosa papale papale“: parlare senza peli sulla lingua, dimostrando autorità come il Papa sa fare.

Tornar da Papa a Parroco”: perdere da un giorno all’altro il potere, rinunciare a una posizione di comando.

E proprio quest’ultimo detto mi pare calzante con la situazione attuale. Anzi, come ha precisato Papa Ratzinger, lui non è tornato a fare il parroco ma è un semplice pellegrino.

Ora non resta che attendere la fumata bianca. Per ora ne abbiamo vista una sola, nera.

[LINK della fonte]

POTETE TROVARE ALTRI MODI DI DIRE QUI

PAOLO VILLAGGIO OFFENDE I FRIULANI: CHIESTA L’ARCHIVIAZIONE DELLA QUERELA PRESENTATA DALLA FILOLOGICA

Non poteva che finire così: il pm Marco Gallina chiede alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento l’archiviazione della querela per diffamazione presentata dal presidente della Società Filologica Friulana, Lorenzo Pelizzo, nei confronti del popolare comico Paolo Villaggio per aver adoperato, nel proprio libro, Mi dichi, «affermazioni offensive della reputazione dei friulani, travalicando i limiti della satira e diffamatorie della cultura e della lingua friulane».

I fatti risalgono all’ottobre dello scorso anno (ne ho parlato QUI). Nonostante il libro di Villaggio fosse uscito da alcuni mesi, qualcuno in Regione si accorge che il comico ironizza sul popolo friulano usando dei termini poco carini:

[…] i friulani, che per motivi alcolici non sono mai riusciti a esprimersi in italiano, parlano ancora una lingua fossile impressionante, hanno un alito come se al mattino avessero bevuto una tazza di merda e l’abitudine di ruttare violentemente. (pagina 42)

Immediata fu allora la reazione del Presidente della regione Friuli – Venezia Giulia, Renzo Tondo, che fin da subito minacciò di querelare Villaggio per diffamazione. Poi le acque si calmarono. Chi non perdonò affatto per l’infelice uscita il popolare comico fu il presidente della Società Filologica Friulana, Lorenzo Pelizzo, che nel maggio di quest’anno ha sporto querela per diffamazione (ne ho parlato QUI).

La vicenda, che ha suscitato non poche polemiche, ha avuto dunque la conclusione che un po’ ci si aspettava. Dal Trentino ci arriva, tuttavia, una riflessione preziosa da parte del pm Gallina. Secondo costui, infatti, Villaggio si compiace di lasciarsi influenzare dal giudizio negativo sui friulani espresso, secoli fa, dall’illustre autore del De Vulgari Eloquentia: Dante Alighieri. (cosa su cui ho espresso i miei dubbi nel primo articolo linkato, in quanto Dante disprezzava pure il toscano …)
«Per il resto, con linguaggio certamente scurrile, l’autore altro non fa che riprendere stereotipi ormai consunti e come tali nemmeno più offensivi, secondo cui i friulani (in ciò di regola accomunati ai veneti e ai trentini) hanno una particolare propensione al bere, il cui abuso, notoriamente, provoca alito pesante», osserva Gallina.

Ma il magistrato non si ferma a queste osservazioni assai bonarie. Continua con una sorta di excursus sulla letteratura nostrana, mescolando arditamente, a mio parere, scrittori triestini e friulani. «Fortunatamente è di diffuso sapere – afferma Gallina – come il duro giudizio del padre della lingua italiana non abbia impedito che Trieste divenisse dapprima uno dei principali centri della cultura mitteleuropea dando i natali a scrittori quali Italo Svevo e Umberto Saba, successivamente che detta città e la poco popolosa terra friulana abbiano dato i natali a taluni tra i più importanti scrittori e poeti italiani contemporanei, fra cui Carlo Sgorlon, Fulvio Tomizza e Pierluigi Cappello». Quanto a Pasolini, egli gli attribuisce il merito di aver reso giustizia al friulano che è universalmente accettato come lingua: «Più che dialetto, una lingua straniera – per il vero di oggettiva e difficile comprensione -, utilizzata tuttavia “non come espediente letterario o formale, da sfruttare per aggiungere colore”, ma con il rispetto che si riserva a una cultura da difendere e da salvare dall’aggressione di una barbarie massificata».

Ora, non è il caso di perdersi in sottigliezze facendo notare che il triestino con il friulano ha ben poco da spartire. Riesce a passarci sopra lo stesso Pelizzo che, pur deluso dall’archiviazione del caso, apprezza il fatto che la Magistratura della Repubblica riconosca al friulano non soltanto la dignità di lingua, ma anche il rispetto che ad essa deve essere riconosciuto, cosa che considera un fatto di assoluta attualità e rilevanza.

Che dire? Forse la reazione della Filologica è stata un tantino esagerata. Forse sarebbe stato davvero il caso di soprassedere e farsi una risata, a denti stretti, senza incriminare Villaggio. Anch’io, in un primo momento, mi sono sentita offesa (pur non essendo friulana, per solidarietà, se non altro, vivendo qui da tanti anni), però effettivamente l’ironia del comico è stata di bassa lega e davvero la cosa poteva passare sotto silenzio. Se non altro avrebbe confermato che Villaggio non sa più cosa dire e farebbe meglio a tacere.

[fonte: Messaggero Veneto]