Stamattina il Presidente della Repubblica Napolitano ha ricevuto al Quirinale alcuni nuovi cittadini italiani. Stranieri non-più-stranieri, ora italiani come noi. Ma davvero si può diventare cittadini di un altro Paese perdendo la propria identità, rinunciando alla cultura, alla lingua, al modus vivendi che fin dalla nascita hanno caratterizzato un’esistenza?
Napolitano, accogliendo con garbo e gentilezza questi nuovi “italiani”, si è espresso in questi termini: “Debbono cadere antichi pregiudizi; solo così potranno avere successo le politiche sull’integrazione degli immigrati”. Nulla da eccepire, sul senso delle parole. Colgo pure le buone, anzi buonissime intenzioni del Presidente; tuttavia, mi chiedo: che cosa significa “integrazione”? Non nel senso letterale, chiaramente, ma in quello traslato. Per noi, italiani doc, accogliere “lo straniero” significa farlo sentire a casa propria, cercando di abbattere quelle che sono le diversità, perché ci sono, inutile negarlo, condividendo con lui lo spazio, perché riconosciamo nello spazio la nostra dimensione umana, costruendo con lui un percorso di “civilizzazione”, nel senso originale del termine, quello, cioè, relativo alla costituzione dell’identità di “cittadino” (civis, in latino, significa questo, appunto.
Tutto questo, senza mai chiederci “che cosa vuole lo straniero”, quali sono le sue reali aspirazioni. Può darsi che non ne abbia, può darsi che lui voglia soltanto adattarsi, cercare di convivere con persone che comunque sentirà sempre diverse, perché noi lo siamo per lui e lui lo è per noi, lavorando onestamente, anche se sa, lo straniero, che la maggior parte degli italiani si chiede cosa faccia qua, perché porti via il lavoro agli autoctoni.
Parole dure, certamente, ma vere. E non vorrei essere fraintesa perché io sono una di quelle persone che vuole l’integrazione, vuole essere accogliente, desidera convivere arricchendo il proprio patrimonio culturale attraverso lo scambio. Purtroppo, però, so che ciò non è possibile. So che l’atteggiamento diffidente, che spesso leggiamo in molti italiani nei confronti degli extracomunitari e non, è l’atteggiamento che prima di tutto dobbiamo leggere in loro. È una cruda realtà, è una pura e semplice questione di identità. Non sono io ad affermarlo; lo fanno, da tempo, molti antropologi. Partendo dall’affermazione che “integrazione” è la parola sbagliata.
Prima di tutto dobbiamo stabilire cosa significhino le parole “identità” e “alterità”.
Tre anni fa ho assistito ad una conferenza tenuta nel mio liceo dal prof. G.P. Gri, docente di Antropologia Culturale” presso l’università di Udine.
Punto di partenza, secondo Gri, è la definizione di Identità e Alterità su due livelli:
1. gli altri più lontani: noi ci sentiamo distanti da alcune culture e definiamo il senso di appartenenza alla nostra cultura sul confine che sentiamo tra noi e loro. Questa alterità determina una gamma di sentimenti che si possono provare: curiosità (ad es. quella degli antropologi), indifferenza (anche se c’è la convivenza, non c’è contatto con gli altri, quindi c’è indifferenza), fastidio (è l’atteggiamento di ripulsa tipico della xenofobia e del razzismo; la constatazione della diversità approfondisce ancor più la distanza).
2. gli altri più vicini a noi: se gli altri sono ancora più vicini a noi, perché parlano la stessa lingua, hanno valori comuni, le stesse usanze e gusti uguali, si parla di SENSO DI APPARTENENZA, ovvero di IDENTITÀ COLLETTIVA.
A questo punto, se riusciamo a superare le barriere descritte al punto 1, possiamo parlare di Integrazione? Dal nostro punto di vista sì, ma non è detto che questa convinzione sia reciproca.
E poi, per “integrazione” che cosa intendiamo veramente se non la presunzione che lo straniero si adatti al nostro stile di vita? E possiamo chiederglielo senza riconoscere che gli stiamo domandando di rinunciare alla propria identità? Evidentemente no. Al di là di quelli che sono i paletti universalmente riconosciuti nell’ambito della convivenza civile (il rispetto delle leggi, primo fra tutti), non possiamo chiedere nulla allo straniero. Non possiamo certamente pretendere che rinunci alla sua lingua, alla sua religione, alla sua “cultura”. Anzi, gli imponiamo di imparare la nostra lingua e, ai più giovani, di studiare la nostra storia, tutta concentrata sul mondo occidentale, così estranea alla maggior parte degli extracomunitari.
In definitiva, dovremmo chiedere loro la rinuncia all’identità, escludendo, però, gli stranieri, anche se nuovi cittadini italiani, da quell’ “identità collettiva”, quel “senso di appartenenza” che non possiamo concedere loro. Questa sarebbe integrazione, ma in concreto non è possibile.
Ora, non vorrei sembrare dura o addirittura xenofoba … anzi, a scuola per anni ho collaborato al progetto di Ed. Interculturale. Ma proprio per questo osservo la realtà con occhi disincantati. Belle parole, nobili intenti, niente più. Tuttavia, non sono la sola a pensarla in questi termini. Cedo volentieri la “parola” ad un famoso romanziere tedesco, Hans Magnus Enzensberger, noto ai più per il best – seller “Il mago dei numeri”, ma anche autore di un prestigioso saggio intitolato La grande migrazione, uscito in Germania nel 1992 e tradotto in italiano da Einaudi l’anno successivo.
Nel V capitolo Enzensberger scrive:
Ogni migrazione provoca conflitti, indipendentemente dalle cause che l’hanno determinata, dagli scopi che si prefigge, dal fatto che sia spontanea o coatta, dalle dimensioni che assume. L’egoismo del gruppo e la xenofobia sono costanti antropologiche che precedono ogni motivazione. Il fatto che siano universalmente diffuse dimostra inequivocabilmente che sono più antiche di ogni forma di società conosciuta.
Per porre loro un argine, per evitare continui spargimenti di sangue, per rendere possibile un minimo di scambi e di relazioni fra clan, tribù, etnie, le società antiche hanno inventato i tabù e i rituali dell’ospitalità. Queste misure tuttavia non annullano lo status dello straniero. Anzi, lo circoscrivono entro rigidi limiti. L’ospite è sacro, ma non può rimanere.
A questo punto, cito nuovamente il professor Gri. A proposito della “diversità culturale”, afferma:
“Non si deve credere che il mondo stia diventando omogeneo; c’è la spinta verso la conservazione e l’imposizione di una cultura ma ogni volta che si cerca di fare ciò, si creano lingue nuove e modelli nuovi.
Gli antropologi ritengono che si stia creando una forma di diversità culturale sempre più articolata, ma negano che si stia verificando un’omogeneizzazione, perché non è possibile avere un modelllo unico.
La diversità non è eliminabile e con essa bisogna convivere.
[…]
Ognuno di noi ha un luogo d’origine, la parentela, la storia degli avi, la situazione economica … quindi siamo diversi. Si devono vedere i modi in cui si è diversi e per giudicare le diversità si usano degli stereotipi. Ad esempio, gli alieni sono il risultato di una mostrificazione dell’uomo perché si parte dal modello che si ha. I Greci chiamavano barbaroi quelli che non sapevano parlare il greco, ma in effetti il termine significa “balbuziente” e rimanda al concetto di incomprensibilità. Quindi bisogna venire in contatto con la diversità, conoscerla e trovare degli strumenti di comunicazione. Si è spesso usato il modello gerarchico (inferiorità nei sistemi di dominanza) che ha portato alla persecuzione degli ebrei, alla schiavizzazione, seguendo il concetto che se un essere è inferiore, o è considerato tale, si può anche buttare.
L’alternativa è vivere la diversità fondandola su un sistema di valori che ha come principio l’eguaglianza di tutti gli esseri umani.”.
È su questo principio d’uguaglianza che bisogna lavorare. Caro Presidente, grazie per le Sue buone intenzioni, ma la strada dell’integrazione non è antropologicamente percorribile. Solo quando quelli che Lei giustamente chiama “pregiudizi” (mi permetto di aggiungere, da ambo le parti) saranno abbattuti, si potrà cominciare a parlare di uguaglianza, prima ancora che di integrazione.
Concludo “rubando” una bella citazione del professor Gri:
“È vero che dobbiamo avere delle radici, ma non siamo alberi: abbiamo le gambe e siamo fatti per camminare.”