CLIENTE SUCCESSIVO

cliente successivo Voglio raccontare un episodio di cui sono stata testimone questo pomeriggio in un supermercato cittadino. Non so come definirlo, ha a che fare con i pregiudizi che sono radicati nella mente degli stranieri fin dalla più tenera età. Confesso che, mentre tutti ridevano, io mi sono sentita in imbarazzo.

Sono alla cassa. In fila davanti a me c’è una famiglia straniera, madre e due figlie, una grande e l’altra più piccolina. Quest’ultima porta il carrello e insiste per mettere da sola sul nastro la merce da acquistare. La madre non è troppo convinta e mi dice: “Ha solo quattro anni, vuole fare tutto da sola”. Mi meraviglio perché la bambina sembra molto più grande. La mamma sorride e mi dice che l’altra, dell’apparente età di 15-16 anni, ne ha solo 12. Del resto la signora è proprio un marcantonio, alta e piuttosto robusta. Hanno la pelle “marrone”, come dirà più tardi la bimba.

Disposta la merce sul nastro, la piccola vorrebbe che la cassiera mettesse il divisore, quello con su scritto “cliente successivo”. La signora gentilmente le dice di no, non si può fare. Effettivamente i prodotti occupano tutto il nastro, io ho le due cose che devo acquistare in mano, bisogna attendere che il nastro scorra un po’ in avanti. La bimba ci resta male: lei vorrebbe mettere il divisore davanti ai prodotti che la mamma deve comprare. Lo prende e la cassiera, sempre con la massima gentilezza, glielo toglie dalle mani dicendo che non si può metterlo lì.

Quando finalmente c’è posto anche per le mie cose, la cassiera prende il divisore e lo posiziona fra la spesa della famiglia “marrone” e la mia.
A quel punto la bimba, con aria un po’ delusa, chiede: “Questo [indicando il divisore] serve solo per i bianchi e non per noi che siamo marrone?”.

Risata generale. Tutti sembrano divertiti: cassiera, mamma, bambine, clienti. Solo io, che ci sono rimasta davvero male, ma proprio male male, dico: “Mi sembra grave se una bambina di 4 anni soltanto fa questo tipo di ragionamento”. Ma gli altri mi guardano come se stessi dicendo una cosa fuori luogo, una cosa seria in un momento di massima ilarità.

Che imbarazzo, che tristezza, che vergogna. Do una carezza alla piccola e non mi viene in mente nulla da dire se non: “Sei proprio brava”. Ovviamente mi riferisco all’abilità dimostrata nello svuotare il carrello alla cassa.

[immagine da questo sito]

FORSE VI SEMBRERÒ RAZZISTA

Più volte ho detto, nei post e nei commenti di questo blog, che noi Italiani, per non sembrar razzisti, alla fine ci discriminiamo da soli. Oppure gridiamo allo scandalo se qualcosa di sconveniente accade ad uno straniero e magari non spenderemmo una parola per difendere un nostro connazionale. Ma siamo fatti così.

Prendiamo il caso, ad esempio, di un extracomunitario che perda il lavoro (ovviamente senza una giusta causa) o dei bambini stranieri che, non pagando la mensa, rimangano senza un pasto caldo a scuola. Sono cose che, giustamente, ci fanno inorridire. Ma prendiamo, sempre per fare un esempio, il caso di un lavoratore straniero, di religione musulmana, che si licenzia dal posto di lavoro (in un hotel di Venezia, non uno qualsiasi, addirittura il Danieli, dove svolgeva mansioni di facchino, presumibilmente con uno stipendio di tutto rispetto ben arrotondato da generose mance) – non viene licenziato, badate bene – perché non tollera che il suo superiore, la persona da cui debba prendere ordini, sia una donna.

Prendiamo il caso, ancora, di questo lavoratore di fede islamica, che notoriamente relega le donne ad un ruolo subordinato, che poi viene riassunto con la garanzia che, accanto alla donna sua superiore, avrà sempre un uomo che gli darà disposizioni. In questo caso, se dico che questa è una discriminazione bella e buona, nei confronti della persona di sesso femminile che ha tutti i diritti di dare degli ordini, se questa è la sua funzione all’interno dell’hotel, ma anche nei confronti di chiunque altro, italiano o meno, avrebbe avuto tutti i diritti di essere assunto al posto del facchino dimissionario, posso essere considerata razzista?

Se sì, devo dire onestamente che non me ne importa un fico secco.

QUI la stessa notizia riportata da Il Gazzettino, quotidiano veneto.

DEI TRIESTINI FACCIAMO UN FALO’. PAROLA DEL LEGHISTA DORDOLO

Ecco, solo ieri ho scritto un post su questo consigliere friulano che, di fronte all’omicidio di una donna indiana in provincia di Piacenza, da parte del marito che ha poi gettato il corpo della sventurata nel fiume Po, ha commentato che in quel modo l’uomo aveva inquinato il fiume sacro alla Lega.

Inutile sottolineare che il razzismo di certi – e sottolineo certileghisti non si esprime solo nell’odio contro gli extacomunitari, o comunque stranieri, ma anche nei confronti dei loro vicini di casa.

Che altro dire?

Da triestina, vivendo da quasi 27 anni in Friuli, esprimo la mia indignazione. Nella speranza, tuttavia, che individui come Dordolo siano l’eccezione, all’interno del partito, e non la regola.

Speranza vana?

bollettino trieste

(dopo questo leggi ancheDordolo parte seconda: espulsione dalla lega e licenziamento dalla regione“, clicca qui)

I triestini? “Slavo triesticoli“, oppure più sobriamente “puzzolenti barcaioli“. La Triestina? Una società ingloriosa da estinguere con una sottoscrizione affinché sparisca per sempre, così per schiacciarli (sempre i triestini) sotto i piedi. Il tono, troppo raffinato anche per l’osteria numero venti, e i pensieri (?) hanno un autorevole autore: trattasi di un Consigliere comunale di Udine, anzi capogruppo della Lega Nord, il simpatico Luca Dordolo. Avete capito bene: un rappresentante delle istituzioni, che su facebook ha postato questo garbato appello a sottoscrivere una colletta per rilevare la società alabarda per poi estinguerla, “così – prosegue il Dordolo – dovranno partire da zero con un altro nome tipo SIAMOSLAVI o ZASTAVASEMACHINACHEVA“. Le citazioni usate dal nostro autore fanno trapelare un

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L’ “ORIZZONTE DEL CUORE” DI UNA MAMMA ADOTTIVA


Due anni fa avevo scritto un post sull’adozione. In particolare, mi soffermavo a riflettere sul caso di una coppia siciliana che aveva espresso il desiderio di adottare un bambino ma non disponibile ad accogliere bambini di pelle scura o diversa da quella tipica europea o in condizione di ritardo evolutivo.

Il caso aveva suscitato molte polemiche, soprattutto da parte dell’Aibi (movimento dei genitori adottivi) ed era approdato alla Corte di Cassazione la quale aveva stabilito che «Il decreto di idoneità’ all’adozione pronunciato dal tribunale dei minorenni non può essere emesso sulla base di riferimenti all’etnia dei minori adottandi, né può contenere indicazioni relative a tale etnia». (potete leggere i post QUI e QUI)

Qualche giorno fa ho ricevuto un bellissimo e toccante commento al primo post. Una mamma adottiva, Luisella, mi ha scritto raccontandomi la sua esperienza. Ve la riporto testualmente:

Luisella detto,
6 maggio 2012 a 11:48 pm

Ciao!
Con due anni di ritardo, ho letto questo interessante blog…
Da mamma adottiva di una bambina congolese, leggendo certe notizie, un po’ mi arrabbio, un po’ sorrido. Col tempo devo imparare a relativizzare.
La mia è, per certi versi, una “storia al contrario”: potevo/posso avere figli biologici e non li ho voluti, il colore della pelle dell’eventuale adottato/a era per me un problema … desideravo un bimbo (anzi una bimba…anche sessista!) colorato. “Bianco” non era il mio orizzonte del cuore. Gli psicologi dell’asl si sono scervellati su queste turbe che di certo mascheravano devianze e, probabilmente, non hanno mai capito un tubo. Ma niente “turbe” o “devianze” hanno impedito a me e a mio marito di coronare il nostro sogno: una bimba di colore.

Il razzismo c’è: il compagno di scuola che si pulisce quando lei lo sfiora, quello che non vuole giocare con bambini “marroni”, quello che le dice “sei brutta”… crescendo sarà peggio. O forse no. Le daremo tutto il possibile, in termini affettivi ed economici. Lei è nostra figlia. merita il meglio. L’aiuteremo ad affrontare la vita e i deficienti, così come sono costretti ad affrontare cattiverie e stupidità i “diversi” in generale.
E poi farà tesoro del mondo.
Un giorno, durante una vacanza in Francia, ha detto, dopo aver visto molte coppie miste con bimbi scuretti-ma-non troppo: “io sposerò un francese”. … Ok, sposa chi vuoi e va’ dove vuoi. Quando sarai grande, figlia mia, tra 15-20 anni, come sarà il mondo? E dove sarai tu? Non so nulla del futuro, nè del mio nè del tuo. Ti amo infinitamente per come sei e per le tue sfumature d’ebano: ti insegnerò a difenderti e a capire che non è sempre il caso di lottare. Il mondo e il futuro possono essere a volte buoni, a volte no. Con tutti: bianchi, gialli, neri, rossi. Era meglio, forse, lasciarti nell’incertezza del tuo paese, a soffrire la fame, la mancanza d’affetto perchè qui, nel mondo dei bianchi, c’è la possibilità di incontrare molti idioti? Sì? No? Da mamma penso di no.

Capisco che le scelte siano per tutti diverse, anch’io mi arrovello, a volte, sulle difficoltà che potrà incontrare mia figlia.
Ma c’è sempre la Francia… cioè la possibilità, per lei, di avere le capacità di spiccare il volo, a suo tempo, per cercare il suo posto nel mondo, che non dovrà essere per forza nè vicino a noi, suoi genitori, nè nel Paese nel quale adesso vive.
Si può essere diversi in mille modi diversi.
Troverà la sua strada e il suo posto nel tempo.
A noi il compito di darle tutti gli strumenti e l’amore possibili per avere spalle larghe e cuore saldo.
Il resto …. è silenzio!

Buonissima serata!

FONDAZIONE AGNELLI: LA RICERCA BOCCIA LA SCUOLA MEDIA. LA COLPA È DEGLI STRANIERI?

Il ritardo scolastico è spesso il primo campanello d’allarme del “rischio abbandono”, una delle maggiori criticità della scuola italiana. Durante il periodo dell’obbligo i ritardi scolastici arrivano al 25% nei primi due anni di scuola secondaria superiore. E’, però, nella scuola media che cominciano a manifestarsi significativamente, giungendo fino al 10%, dopo essere rimasti molto contenuti alle elementari. Ma quali sono i fattori socio-demografici e familiari che accrescono per gli adolescenti della secondaria di I grado la probabilità di essere in ritardo negli studi?

Questo è la domanda da cui muove la ricerca “I ritardi scolastici a 11 e 13 anni”. Comportamenti, abitudini e contesto scolastico-familiare-territoriale degli studenti delle scuole secondarie inferiori con percorsi non regolari realizzata in collaborazione dalla Fondazione Giovanni Agnelli e dall’équipe del Dipartimento di Sanità Pubblica e Microbiologia (DSPM) dell’Università di Torino, guidata dal Prof. Franco Cavallo.

Così inizia la sintesi della relazione prodotta dalla Fondazione Agnelli sui ritardi scolastici da 11 a 13 anni. Il quadro non è affatto confortante: la scuola secondaria di I grado (ex scuola media) ne esce bocciata. Si mettono in dubbio la capacità della scuola secondaria inferiore di garantire pari opportunità di apprendimento a tutti e di adempiere, quindi, a una delle missioni istituzionali che le sono state attribuite.

Il maggior fattore di rischio per il ritardo scolastico e, di conseguenza, l’abbandono è costituito, secondo i ricercatori, dall’origine straniera degli alunni. Non tanto perché ritenuti incapaci di adattarsi al nostro modello scolastico, quanto perché il sistema italiano prevede che i ragazzi vengano inseriti immediatamente nelle scuole se arrivano in Italia e sono nell’età dell’obbligo scolastico. A prescindere, quindi, dalla conoscenza della lingua, abilità indispensabile per l’apprendimento di qualsiasi disciplina, data la sua trasversalità. Questi ragazzi (la cosiddetta generazione 1.5) hanno una probabilità di essere in ritardo in I media rispetto ai coetanei italiani di circa 18 volte superiore, 19 volte una volta arrivati in III media.

Va un po’ meglio, sempre secondo i ricercatori, agli stranieri di seconda generazione, ovvero nati in Italia da genitori non madrelingua. Ma anch’essi, seppur con un ritardo rispetto ai ragazzi arrivati da poco nel nostro Paese, sembrano destinati a “perdersi per strada”: entro la III media la loro probabilità di perdere uno o più anni cresce fino a diventare di 3,5 volte superiore a quella dei compagni di classe italiani.

Ma il problema si può risolvere? Certamente, ma ci vorrebbe un investimento nell’organizzazione didattica tale da venir incontro al disagio di questi giovani studenti: rare o inesistenti risultano essere le forme di sostegno specifico alle difficoltà che i ragazzi di origine straniera – anche quando bene integrati nella loro classe – possono incontrare nello studio. Non di rado, aggiungo io, la problematicità della situazione che si viene a creare in una classe con alta percentuale di alunni stranieri (il ministero ha stabilito il 30% ma non di rado si sfora e, in ogni caso, appare una percentuale niente affatto contenuta), ha una ricaduta negativa sull’intera scolaresca.

La Fondazione propone una soluzione: un supporto differenziato ma garantito a tutti nelle ore pomeridiane e sostegno agli studenti stranieri arrivati in Italia in età scolare con «classi di benvenuto» e «specifici supporti pomeridiani».
Bene. Allora perché quando nell’ottobre 2008 la Lega ha proposto le “classi di inserimento” per allievi stranieri si è gridato allo scandalo? Quella era una proposta razzista, naturalmente. Le “classi benvenuto” proposte dalla Fondazione Agnelli sono più graziose e non offendono la suscettibilità dei piccoli stranieri e delle loro famiglie?

[fonti: Tuttoscuola.com, Fondazione Agnelli, La Stampa; l’immagine è tratta da questo sito]

IL RAZZISMO BUSSA ALLA PORTA … DI UNA CASA IN AFFITTO


Chi vive in un condominio lo sa: quando un appartamento viene dato in locazione a degli stranieri, nascono sempre, o quasi, dei problemi. Ricordo che nel palazzo dove abitavo fino a dieci anni fa, la proprietaria dell’appartamento attiguo al mio era disperata. Non voleva fare discriminazioni, quindi affittava il bilocale anche agli stranieri. Nel tempo si sono alternati colombiani, brasiliani, albanesi … non li ricordo tutti di preciso. Ricordo però quanto sia stato difficile spiegare ai miei figli che ci facessero sul pianerottolo degli uomini, prevalentemente nel pomeriggio. Le due signorine che vi abitavano, la cui nazionalità onestamente non ricordo, facevano le ballerine in un night club, la mattina dormivano e nel pomeriggio arrotondavano facendo le squillo. Trovavo oltremodo imbarazzante, per giunta, dover rispondere al citofono a voci maschili che evidentemente non cercavano me. “Ehi, bella, ci siamo sentiti al telefono poco fa … ” costituiva l’enunciato più gentile. E io a spiegare che di certo con me non aveva parlato al telefono e che non facevo quel mestiere là.

Poi è stata la volta degli albanesi. Questi me li ricordo bene. Tranquilli, pareva di non averli nemmeno come vicini di casa. Quasi quasi mi sentivo in imbarazzo io con due maschietti scatenati che si rincorrevano per tutto l’appartamento. Poi, di punto in bianco, non si è visto più nessuno. La padrona di casa si è decisa ad aprire con le sue chiavi l’appartamento solo molto tempo dopo e solo perché gli inquilini erano spariti senza lasciar tracce di sé e, soprattutto, senza aver pagato il canone d’affitto, per mesi. Ricordo che quando aprì la porta mi sono trovata per caso sul pianerottolo: dalla casa usciva un fetore tale da farci credere che avremmo trovato, là dentro, quattro cadaveri in avanzato stato di decomposizione. Fortunatamente si trattava soltanto di avanzi di cibo lasciati dentro e fuori il frigorifero che, se cadaveri non erano, puzzavano terribilmente lo stesso.

Il problema dell’affittare le case agli extracomunitari è quello che non si sa mai quanta gente effettivamente ci andrà ad abitare. L’appartamento attiguo al mio, nel condominio dove abito attualmente, è stato affittato per trent’anni (forse quaranta, non ricordo) alla stessa persona. Andata via questa, la padrona aveva pensato di affittarlo ancora e ci aveva avvertiti che, stranieri o meno, lei non guardava in faccia nessuno a patto che le pagassero il canone. Ovviamente le demmo ragione: chi siamo noi per giudicare le scelte altrui? Fortunatamente si rese conto ben presto che gli extracomunitari, in particolare indiani e pakistani, pretendevano di andarci ad abitare in setto-otto (dichiarati, quindi forse quindici abusivamente) in appena 70 metri quadri. Per fara breve, ben presto la signora si rese conto che non avrebbe mai affittato ad italiani, quindi mise in vendita la casa che fu acquistata, fortunatamente, da una coppia che ha una scuola di lingue e che l’affitta ai suoi insegnanti provenienti perlopiù dall’Inghilterra. Magnifico! Così ogni tanto mi faccio una chiacchierata in Inglese sul pianerottolo. Anzi, nei primi tempi, eravamo spesso invitati alle loro feste e frequentavamo la casa regolarmente. Ma poi gli insegnanti sono cambiati e ne sono arrivati altri molto meno espansivi e per nulla festaioli.

Per giungere al topic, leggo sul quotidiano Il Messaggero Veneto, che in quartiere di Pordenone è stato affisso un cartello in cui si dichiara di essere disponibili ad affittare una casa esclusivamente ad Italiani. La cosa ha suscitato non poche polemiche, tanto che i proprietari si sono dovuti giustificare dicendo: «Abbiamo avuto una brutta esperienza. Una coppia di stranieri ci ha vissuto lo scorso anno. Lei una brava ragazza, ma lui l’ha lasciata e lei si è trovata in difficoltà. Non ce la faceva a starci dietro. Così abbiamo detto basta», aggiungendo che «Nel palazzo vivono dei professionisti. Vogliamo che qui vivano brave persone».

Ora, io credo che gridare allo scandalo non serva a nulla. Nemmeno alla Caritas che, commentando il cartello, tuona, per voce del legale, Carla Panizzi: «Bisognerebbe sempre capire le motivazioni che stanno alla base, però, così come è scritto, è palesamente discriminatorio in termini di razza e lingua».

Io credo che ognuno debba fare quel che si sente. Forse il cartello appare discriminante, forse si potrebbe trovare un altro modo per aggirare l’ostacolo, usando la diplomazia. Trovo, però, che le giustificazioni dei padroni siano plausibili, avendo avuto anch’io un’esperienza indiretta, quella descritta, che mi ha convinto che se uno acquista un immobile con l’intenzione di fare un investimento, non può rischiare di trovare degli inquilini insolventi. Anche se per onestà dobbiamo ammettere che, di questi tempi, con la crisi economica e la precarietà delle occupazioni lavorative, il rischio c’è sempre, anche con gli Italiani.

Mi permetto, infine, un’osservazione: quando i nostri migranti se ne andavano a cercar fortuna all’estero, non si trovavano spesso di fronte a cartelli in cui, senza mezzi termini, si dichiarava di non affittare case agli Italiani? E come no! Certo, erano altri tempi e tutta questa politica dell’accoglienza non esisteva. La storia passata dovrebbe essere magistra vitae, ma sappiamo molto bene che ognuno guarda al proprio orticello, senza curarsi di chi si trova in difficoltà. Questa forma di egoismo non è ancora tramontata, forse perché non abbiamo raggiunto quel grado di civiltà che ci porta ad essere accoglienti nei confronti di chicchessia, senza timori o sospetti. E purtroppo ci lasciamo facilmente condizionare dai pregiudizi che, però, molte volte sono fondati. Perché dovremmo, in nome dell’accoglienza, ignorare questa realtà e uniformarci tutti ad un unico pensiero? C’è chi se la sente e chi no. Ma non per questo dobbiamo giudicare le scelte altrui, sempre che non rechino danno a delle persone innocenti e sfortunate.

[foto e notizia dal Messaggero Veneto]

ADOZIONI: L’AMORE NON HA COLORE


È incredibile ma il razzismo rischia di entrare anche nelle case dei bimbi adottivi. C’era bisogno del parere espresso dalla Cassazione, riunita di fronte alle Sezioni Unite, per stabilire che gli aspiranti genitori adottivi non possono esprimere delle preferenze sul colore della pelle e sull’etnia dei bambini che vogliono adottare.

La notizia, riportata dal quotidiano La Stampa , fa riferimento alla vicenda di due coniugi siciliani che, nella domanda di adozione, si era dichiarata disponibile ad adottare fino a due bambini, di età non superiore ai 5 anni senza distinzione di sesso e religione ma non disponibile ad accogliere bambini di pelle scura o diversa da quella tipica europea o in condizione di ritardo evolutivo. Il Tribunale dei Minori di Catania aveva accettato la richiesta, giudicando evidentemente legittime le motivazioni. Di tutt’altro parere l’associazione “Amici dei bambini”, il cui presidente, Marco Griffini, ha presentato un esposto giudicando il decreto del tribunale come una palese discriminazione su base razziale nei confronti di minori di colore e di etnia straniera a quelle presenti in Europa.

L’Aibi, e in particolare il movimento dei genitori adottivi, ritiene che la dichiarazione “mercantile” delle coppie, come quella catanese, avallata dalla decisione del Tribunale, contrasta con il principio del migliore interesse del minore e rivela semplicemente una mancanza di requisiti necessari negli aspiranti genitori, posto che il minore che la coppia si affretta ad accogliere presenterà certamente alcune problematiche in più rispetto ad un minore che ha subito meno traumi.
Ora si attende la decisione delle Sezioni Unite civili, che non avrà ripercussioni sul caso di Catania, ma stabilirà soltanto un orientamento giurisprudenziale.

Che dire? Ritengo che i genitori adottivi abbiano una motivazione per certi versi ancor più forte delle coppie fortunate che possono mettere al mondo dei figli e per questo dovrebbero spalancare la porta di casa ai bambini soli e abbandonati, donando loro tutto l’amore possibile indipendentemente dal colore della pelle, dall’etnia o dagli handicap psicofisici. L’amore non ha colore né etnia e parla una lingua universale che non s’impara ma nasce dal cuore. Evidentemente, però, qualcuno crede che adottare un bambino sia come andare al supermercato dove si può scegliere il prodotto migliore e approfittare dell’offerta più conveniente.

Cosa c’è di più bello dell’immagine dei bimbi della pubblicità “United colour of Benetton”? C’è bisogno di un mondo migliore perché diventi realtà. Per ora è un manifesto sbiadito che qualcuno forse tiene ancora appeso al muro.

RAZZISTA CHI LEGGE?

cartellone negro lesbica

Stamattina, mentre fumavo una sigaretta in un angolino del cortile “di servizio” della mia scuola, luogo solitario in cui mi sono autoesiliata -non si fa che parlare di dare il buon esempio! Poi i ragazzi fumano più di me ma questo non ha importanza-, la mia attenzione è stata attirata da un cartellone pubblicitario. Prima di tutto ho riconosciuto la donna ripresa nell’immagine fotografica: ho scoperto dopo, grazie a internet che toglie ogni curiosità, o quasi, che si tratta di una deputata del Pd, Anna Paola Concia, la cui faccia mi era nota poiché l’altra sera era ospite a Matrix su Canale 5 e ha stressato parecchio sottolineando, ad ogni pie’ sospinto, che l’articolo corretto da anteporre a “transessuale” è “la” e non “il”. La puntata, manco a dirlo, era dedicata alla triste vicenda di Piero Marrazzo, quindi non potevano mancare i riferimenti ai transessuali (alle transessuali, per far contenta la Concia). Che fosse un tipo strano, l’onorevole Concia, l’avevo capito; che fosse omosessuale avrei potuto anche intuirlo ma, vista l’ora tarda, la mia perspicacia, che anche in condizioni normali scarseggia, era del tutto annullata dal sonno che incombeva inesorabile su di me, ormai sfinita dalle consuete diciannove ore di attività.

Tornando al cartellone, accanto alla gentile signora era ben visibile un uomo di colore che ho poi scoperto essere, sempre grazie all’insostituibile Google, anche lui un deputato, tale Jean Leonard Touadì. Il testo del messaggio recita: CI CHIAMI SPORCO NEGRO E LESBICA SCHIFOSA, MA TI OFFENDI SE TI CHIAMANO ITALIANO MAFIOSO.
La campagna pubblicitaria è curata dall’ARCI che mette in guardia il lettore con parole minacciose: “IL RAZZISMO È UN BOOMERANG. PRIMA O POI TI RITORNA”.

Ora non vorrei fare la moralista dicendo che un tale cartellone non dovrebbe trovarsi ben in vista in prossimità di una scuola (e pazienza la mia che è un liceo, ma ce n’è uno un po’ più in là proprio di fronte ad una scuola elementare); quello che mi sconvolge, essendo stata costretta a leggere il testo, che mi si rimproveri di essere razzista e omofoba. Non solo, che si creda che io possa offendermi se qualcuno mi chiama “italiana mafiosa”. Prima di tutto, sono dell’idea che ogni uomo/donna abbia pari dignità, a prescindere dal colore della pelle, dalla cultura, religione, lingua, provenienza geografica o tendenze sessuali. Poi, anche se le mie origini sono meridionali, non ho nessun legame di parentela con famiglie mafiose o camorriste che dir si voglia. Io non offendo nessuno, purché nessuno offenda me. Se poi il razzismo è un boomerang, allora il suo effetto non mi sfiora nemmeno, perché razzista non sono.

A questo punto qualcuno potrà obiettare che i cartelli pubblicitari sono nelle strade bene in vista, alla portata di tutti –anzi, sarebbe meglio dire all’occhiata …- e che il messaggio non è rivolto al singolo. Certamente. Ma se un cartello mi invita a mangiare una deliziosa crema spalmabile di cui non sono consumatrice perché il mio colesterolo, già alto, andrebbe alle stelle, sarò libera di scegliere se acquistare quel prodotto o no, ma nessuno mi minaccerà mai, attraverso il messaggio stesso, che se non cederò alle lusinghe di quel bel barattolone mi accadrà qualcosa di male.
Ragion per cui, credo che quella di cui sto parlando non sia una pubblicità, sia un monito. E dà per scontato che chiunque legga sia razzista, così come chiunque veda la crema spalmata su una deliziosa fetta di pane fragrante, sia un consumatore. Ma mentre il consumatore del prodotto è considerato solo potenziale, e infatti si invita qualcuno ad acquistarlo, i due onorevoli, tra l’altro nudi, non mi invitano a non essere razzista, bensì danno per scontato che io lo sia e che sia enormemente infastidita dal fatto che qualcuno mi chiami mafiosa, cosa che nella mia vita non è mai accaduto proprio perché non lo sono, né nei fatti né potenzialmente.

Sarò un po’ rompina, ma questo tipo di pubblicità mi sembra alquanto sconveniente, basandosi solo su delle illazioni. Ma sul sito dell’onorevole Concia, le motivazioni che hanno indotto a questa campagna sono tutt’altre:

pensando a quanto ci assomigliamo noi due, lui nero e io lesbica, e quanto si assomiglia lo sguardo degli altri su di noi, ho concluso che il razzismo non ha solo a che fare con la razza. E’ l’atteggiamento di chi ragiona solo per classifiche. Di chi si sente sempre in serie A, e decide che quelli che non gli somigliano dovrebbero giocare in serie B, a prescindere da quanto valgono.
E’ un atteggiamento di immensa presunzione: ma purtroppo, il razzismo non guarda in faccia nessuno, neanche i presuntuosi. Il razzismo, i miei amici pubblicitari l’hanno pensato proprio come un boomerang, perché se lo fai partire, prima o poi torna al mittente.
[…] Quando un italiano, convinto di giocare a pieno diritto in serie A (in quanto maschio, bianco, eterosessuale, benestante, occidentale, cristiano) si sente dare del mafioso all’estero, ecco che si sente vittima. E soffre. E si agita. Ritiene di essere oggetto di razzismo. Non si accorge che è vittima dello stesso criterio che ha finora applicato, sul lavoro, in metropolitana, pensando di avere più diritto a sedersi degli altri esotici passeggeri. Il boomerang che ha lanciato è cioè tornato al mittente.

Certo, il ragionamento non fa una piega ma, come si suol dire, non è bene fare di tutta l’erba un fascio. Perché adottare uno strumento così provocatorio per sottolineare un concetto tanto semplice e facilmente comprensibile? Ogni uomo e donna hanno pari dignità. L’intolleranza è una cosa abietta e chi la esercita su persone che ritiene inferiori, non ha la capacità di pensare. Ma che all’estero noi tutti passiamo per mafiosi solo perché abitiamo in Italia, è solo un luogo comune che non ha troppe conferme, per fortuna. Almeno, non è mai capitato che qualcuno usasse questo appellativo riferendosi a me. Forse perché ho incontrato persone straniere ma intelligenti. Quelli che non capiscono, invece, che il razzismo e l’omofobia sono un’assurdità, nel momento in cui si trovano davanti a un cartellone cui campeggiano i corpi nudi dei due onorevoli, si fanno una risata e passano avanti con la stessa indifferenza di prima, sempre che non deturpino i cartelli o ci sputino sopra. D’altra parte, chi mai andrebbe a deturpare la pubblicità della crema spalmabile?

Leggo su internet che la campagna pubblicitaria risale al giugno scorso, io però ho visto i cartelloni solo oggi. Ora, io so che qui arriva tutto in ritardo –soprattutto la moda- ma forse c’è un’altra spiegazione a questa “rispolverata” pubblicitaria: non è che l’ARCI abbia diffuso nuovamente tale pubblicità proprio ora che è uscito lo scandalo di Marrazzo e dei suoi incontri intimi con un (una, per accontentare la Concia) transessuale? Il sospetto è legittimo, mi pare. Ma se così fosse, sarebbe un tentativo un po’ patetico di legittimare un comportamento moralmente non condivisibile, facendo leva sulla coscienza di ognuno di noi: se condanni il povero Marrazzo, sei intollerante. Non vorrai mica comportanti in modo così spregevole?

NON-PIÙ-STRANIERI: I NUOVI CITTADINI ITALIANI.

bambini_stranieri1
Stamattina il Presidente della Repubblica Napolitano ha ricevuto al Quirinale alcuni nuovi cittadini italiani. Stranieri non-più-stranieri, ora italiani come noi. Ma davvero si può diventare cittadini di un altro Paese perdendo la propria identità, rinunciando alla cultura, alla lingua, al modus vivendi che fin dalla nascita hanno caratterizzato un’esistenza?
Napolitano, accogliendo con garbo e gentilezza questi nuovi “italiani”, si è espresso in questi termini: “Debbono cadere antichi pregiudizi; solo così potranno avere successo le politiche sull’integrazione degli immigrati”. Nulla da eccepire, sul senso delle parole. Colgo pure le buone, anzi buonissime intenzioni del Presidente; tuttavia, mi chiedo: che cosa significa “integrazione”? Non nel senso letterale, chiaramente, ma in quello traslato. Per noi, italiani doc, accogliere “lo straniero” significa farlo sentire a casa propria, cercando di abbattere quelle che sono le diversità, perché ci sono, inutile negarlo, condividendo con lui lo spazio, perché riconosciamo nello spazio la nostra dimensione umana, costruendo con lui un percorso di “civilizzazione”, nel senso originale del termine, quello, cioè, relativo alla costituzione dell’identità di “cittadino” (civis, in latino, significa questo, appunto.
Tutto questo, senza mai chiederci “che cosa vuole lo straniero”, quali sono le sue reali aspirazioni. Può darsi che non ne abbia, può darsi che lui voglia soltanto adattarsi, cercare di convivere con persone che comunque sentirà sempre diverse, perché noi lo siamo per lui e lui lo è per noi, lavorando onestamente, anche se sa, lo straniero, che la maggior parte degli italiani si chiede cosa faccia qua, perché porti via il lavoro agli autoctoni.

Parole dure, certamente, ma vere. E non vorrei essere fraintesa perché io sono una di quelle persone che vuole l’integrazione, vuole essere accogliente, desidera convivere arricchendo il proprio patrimonio culturale attraverso lo scambio. Purtroppo, però, so che ciò non è possibile. So che l’atteggiamento diffidente, che spesso leggiamo in molti italiani nei confronti degli extracomunitari e non, è l’atteggiamento che prima di tutto dobbiamo leggere in loro. È una cruda realtà, è una pura e semplice questione di identità. Non sono io ad affermarlo; lo fanno, da tempo, molti antropologi. Partendo dall’affermazione che “integrazione” è la parola sbagliata.

Prima di tutto dobbiamo stabilire cosa significhino le parole “identità” e “alterità”.
Tre anni fa ho assistito ad una conferenza tenuta nel mio liceo dal prof. G.P. Gri, docente di Antropologia Culturale” presso l’università di Udine.
Punto di partenza, secondo Gri, è la definizione di Identità e Alterità su due livelli:

1. gli altri più lontani: noi ci sentiamo distanti da alcune culture e definiamo il senso di appartenenza alla nostra cultura sul confine che sentiamo tra noi e loro. Questa alterità determina una gamma di sentimenti che si possono provare: curiosità (ad es. quella degli antropologi), indifferenza (anche se c’è la convivenza, non c’è contatto con gli altri, quindi c’è indifferenza), fastidio (è l’atteggiamento di ripulsa tipico della xenofobia e del razzismo; la constatazione della diversità approfondisce ancor più la distanza).
2. gli altri più vicini a noi: se gli altri sono ancora più vicini a noi, perché parlano la stessa lingua, hanno valori comuni, le stesse usanze e gusti uguali, si parla di SENSO DI APPARTENENZA, ovvero di IDENTITÀ COLLETTIVA.

A questo punto, se riusciamo a superare le barriere descritte al punto 1, possiamo parlare di Integrazione? Dal nostro punto di vista sì, ma non è detto che questa convinzione sia reciproca.
E poi, per “integrazione” che cosa intendiamo veramente se non la presunzione che lo straniero si adatti al nostro stile di vita? E possiamo chiederglielo senza riconoscere che gli stiamo domandando di rinunciare alla propria identità? Evidentemente no. Al di là di quelli che sono i paletti universalmente riconosciuti nell’ambito della convivenza civile (il rispetto delle leggi, primo fra tutti), non possiamo chiedere nulla allo straniero. Non possiamo certamente pretendere che rinunci alla sua lingua, alla sua religione, alla sua “cultura”. Anzi, gli imponiamo di imparare la nostra lingua e, ai più giovani, di studiare la nostra storia, tutta concentrata sul mondo occidentale, così estranea alla maggior parte degli extracomunitari.
In definitiva, dovremmo chiedere loro la rinuncia all’identità, escludendo, però, gli stranieri, anche se nuovi cittadini italiani, da quell’ “identità collettiva”, quel “senso di appartenenza” che non possiamo concedere loro. Questa sarebbe integrazione, ma in concreto non è possibile.

Ora, non vorrei sembrare dura o addirittura xenofoba … anzi, a scuola per anni ho collaborato al progetto di Ed. Interculturale. Ma proprio per questo osservo la realtà con occhi disincantati. Belle parole, nobili intenti, niente più. Tuttavia, non sono la sola a pensarla in questi termini. Cedo volentieri la “parola” ad un famoso romanziere tedesco, Hans Magnus Enzensberger, noto ai più per il best – seller  “Il mago dei numeri”, ma anche autore di un prestigioso saggio intitolato La grande migrazione, uscito in Germania nel 1992 e tradotto in italiano da Einaudi l’anno successivo.
Nel V capitolo Enzensberger scrive:

Ogni migrazione provoca conflitti, indipendentemente dalle cause che l’hanno determinata, dagli scopi che si prefigge, dal fatto che sia spontanea o coatta, dalle dimensioni che assume. L’egoismo del gruppo e la xenofobia sono costanti antropologiche che precedono ogni motivazione. Il fatto che siano universalmente diffuse dimostra inequivocabilmente che sono più antiche di ogni forma di società conosciuta.
Per porre loro un argine, per evitare continui spargimenti di sangue, per rendere possibile un minimo di scambi e di relazioni fra clan, tribù, etnie, le società antiche hanno inventato i tabù e i rituali dell’ospitalità. Queste misure tuttavia non annullano lo status dello straniero. Anzi, lo circoscrivono entro rigidi limiti. L’ospite è sacro, ma non può rimanere.

A questo punto, cito nuovamente il professor Gri. A proposito della “diversità culturale”, afferma:

Non si deve credere che il mondo stia diventando omogeneo; c’è la spinta verso la conservazione e l’imposizione di una cultura ma ogni volta che si cerca di fare ciò, si creano lingue nuove e modelli nuovi.
Gli antropologi ritengono che si stia creando una forma di diversità culturale sempre più articolata, ma negano che si stia verificando un’omogeneizzazione, perché non è possibile avere un modelllo unico.
La diversità non è eliminabile e con essa bisogna convivere
.
[…]
Ognuno di noi ha un luogo d’origine, la parentela, la storia degli avi, la situazione economica … quindi siamo diversi. Si devono vedere i modi in cui si è diversi e per giudicare le diversità si usano degli stereotipi. Ad esempio, gli alieni sono il risultato di una mostrificazione dell’uomo perché si parte dal modello che si ha. I Greci chiamavano barbaroi quelli che non sapevano parlare il greco, ma in effetti il termine significa “balbuziente” e rimanda al concetto di incomprensibilità. Quindi bisogna venire in contatto con la diversità, conoscerla e trovare degli strumenti di comunicazione. Si è spesso usato il modello gerarchico (inferiorità nei sistemi di dominanza) che ha portato alla persecuzione degli ebrei, alla schiavizzazione, seguendo il concetto che se un essere è inferiore, o è considerato tale, si può anche buttare.
L’alternativa è vivere la diversità fondandola su un sistema di valori che ha come principio l’eguaglianza di tutti gli esseri umani
.”.

È su questo principio d’uguaglianza che bisogna lavorare. Caro Presidente, grazie per le Sue buone intenzioni, ma la strada dell’integrazione non è antropologicamente percorribile. Solo quando quelli che Lei giustamente chiama “pregiudizi” (mi permetto di aggiungere, da ambo le parti) saranno abbattuti, si potrà cominciare a parlare di uguaglianza, prima ancora che di integrazione.
Concludo “rubando” una bella citazione del professor Gri:
“È vero che dobbiamo avere delle radici, ma non siamo alberi: abbiamo le gambe e siamo fatti per camminare.”

W OBAMA: BELLO, GIOVANE E …

berlusconi e obamaLa stampa di mezzo mondo si sta occupando da ieri della gaffe di Berlusconi su Obama. Eppure ci sarebbero tanti altri fatti di cui occuparsi con tanto zelo. Pazienza, ancora una volta la stampa e l’opinione pubblica hanno contribuito ad innalzare, se possibile, il già elevatissimo narcisismo del nostro Premier. Ora ha un motivo in più per bearsi nel suo innato egocentrismo … e dire che tutti quelli che non lo sopportano non si rendono conto che così facendo si continua a parlare di lui. Pare che la stessa elezione di Barack Obama sia passata in secondo piano.
Per curiosità ho fatto un giro, on – line, sui siti dei quotidiani italiani ed esteri, leggiucchiando qua e là i commenti all’infausto show in cui il  Silvio nazionale si è esibito nella lontana Russia. Con gran delusione ne ho dedotto che letto un articolo, li hai letti tutti. Non solo nell’ambito della stampa italiana, ma anche in quella straniera. In pratica si trovano svariate traduzioni del pezzo riportato sul Corriere della Sera: evidentemente all’estero il Corriere è per antonomasia “il Giornale”.

Fatta questa premessa, non starò a ripetere quello che è già stato detto, scritto, commentato, specie dall’opposizione che non aspettava altro che un’altra occasione per scagliarsi contro al nostro Premier, accantonata, almeno per un po’, la questione del decreto Gelmini.
Mi soffermo, perciò, su alcuni commenti letti sul sito del Times. Leggo con meraviglia che i più agitati sono gli italiani: quasi tutti si scusano, si vergognano di appartenere al popolo italiano, ritengono che le parole di Berlusconi rappresentino un’offesa per tutta la popolazione … insomma, tanti “sorry” a fronte di un più distaccato e neutro atteggiamento di molti stranieri. E questo la dice lunga sul famoso “gatto che si morde la coda”.
Tra tanti commenti ne ho scelto alcuni che vogliono, a volte in modo sagace, sdrammatizzare la situazione.

Nathan da Oxford scrive: “Ragazzi, avete bisogno di darvi una calmata! Dire a qualcuno che è abbronzato, non significa che sia razzista, come potrebbe esserlo? La gente sta semplicemente tentando di far passare una battuta per razzismo solo perché di questi tempi è la faccenda più popolare contro cui scagliarsi.”

Sempre da Oxford Jen afferma: “Dubito che qualcuno in America possa considerare la battuta offensiva. Obama stesso, probabilmente, l’ha trovata un po’ divertente. Non credo fosse un commento razzista: i neri e i mulatti generalmente passano sopra cose di questo tipo. Sono i bianchi che di solito vanno nel panico e considerano cose del genere oltraggiose, a loro vantaggio.”

E ancora, Laura da Londra: “Dovete essere felici di chiamare Obama ‘nero’, dimenticando che al 50% è bianco, quindi, secondo la logica, dovreste essere felici di chiamarlo ‘abbronzato’ dimenticando che al 50% è nero. Ma i due punti di vista sono entrambi errati: Obama non è nero ma è di razza mista, quindi, visto che dire ‘abbronzato’ equivale a dire ‘nero’, il concetto di fondo è errato.”

Evidentemente abituata alle gaffe del Premier, ancora da Oxford Sonia saggiamente osserva: “È vero che Berlusconi è famoso per i commenti fuori luogo. Comunque la gente non dovrebbe reagire in questo modo di fronte a certe cose. Nel mondo accadono fatti ben più terribili e preoccupanti. Gente, politici e stampa dovreste rivolgere la vostra attenzione su quelli! Io sono ancora orgogliosa di essere italiana!”

Infine, C.Sette da Londra fa notare che “Chiunque parli italiano dovrebbe capire che dire ‘giovane, bello e abbronzato’ equivale a dire ‘alto, scuro e carino’ … ce ne vuole per arrivare ad un commento razzista.”

Insomma, non mi pare che tutti se la siano presa a male. A parte l’elucubrazione mentale di Laura sull’essere neri o bianchi al 50 % (ho avuto delle difficoltà anche a tradurre il commento … più andavo avanti e meno capivo!), credo che persone ragionevoli possano ritenere che, al di là della sconvenienza di tale affermazione, Berlusconi volesse risultare spiritoso … Eppure, viste le infelici battute fatte in diverse situazioni, avrebbe già dovuto capire che non fa ridere nessuno. L’unico effetto che sortisce ogni volta è l’indignazione di tutta l’opposizione. Anche loro, però, potrebbero rivolgere l’attenzione altrove!
Battute a parte, sono felice per Obama e per tutto il popolo americano, bianchi, neri, meticci … insomma, di fronte al primo presidente degli States con il colorito un po’ scuro bisognerebbe inchinarsi e ringraziare Dio che, finalmente, i milioni di africani che hanno subito per secoli ogni sorta di sopruso possano avere il giusto e dovuto riscatto morale.

Se proprio vogliamo parlare di battute, a me pare molto più infelice quella di Gasparri: “Al Quaeda felice con Obama”. Purtroppo questa non era una spiritosaggine … ah, se l’avesse pronunciata Berlusconi, chissà cosa sarebbe successo. La terza guerra mondiale?