LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: RITROVATA IN FRIULI LA PRIMA PELLICOLA DI ORSON WELLES

orson wellesAnche quest’oggi voglio occuparmi di cultura e questa mi pare proprio una buona notizia: in una vecchia cassa abbandonata in un magazzino è stata ritrovata la pellicola del primo film interpretato da Orson Welles nel lontano 1938.

Il film in questione, Too Much Johnson, girato da Orson Welles quando aveva 23 anni ed era già un famoso regista teatrale e autore radiofonico, era diviso in tre parti che dovevano fungere da preludio ai tre atti della commedia omonima scritta da William Gillette, Ma la commedia andò in scena senza la parte cinematografica perché il progetto di Welles fu bocciato.

Il film doveva essere muto e ispirato alle comiche di Mack Sennett e Harold Lloyd e aveva tra gli interpreti Joseph Cotten e Virginia Nicholson, all’epoca moglie di Welles.
La delusione dell’attore fu tanta che, a quanto dicono, quando la sua casa spagnola andò a fuoco nel 1971, non si dimostrò dispiaciuto che nell’incendio fosse stata distrutta anche la pellicola di Too Much Johnson.
Invece le otto bobine del film sono miracolosamente arrivate a Pordenone e ritrovate dopo trenta-quarant’anni dal loro ingresso in Italia.

Il ritrovamento del film è stato del tutto fortuito. Come sia arrivato a Pordenone è un mistero, anche se è famoso il suo festival del cinema muto. Fatto sta che un impiegato di una ditta di traslochi ha notato che da una vecchia cassa, contenente materiale cinematografico, abbandonata in un magazzino si sprigionavano sgradevoli odori. Viene, quindi, interpellato il responsabile del club Cinemazero che immediatamente intuisce che l’odore è dovuto ad un processo chimico degenerativo irreversibile che distrugge il supporto delle pellicole in triacetato di cellulosa.
Fra il numeroso materiale ormai distrutto, ecco che miracolosamente compaiono le otto pellicole del film chiuse nelle loro scatolette di metallo. Intatte.

Dopo la conferma di Cito Giorgini, un grande esperto wellesiano, che si tratta proprio dell’inedito Too Much Johnson, la copia del film, affidata alla Camera Ottica di Gorizia prima e alla cineteca del Friuli poi, è stata restaurata dalla George Eastman House con il contributo della National Film Preservation Foundation.

La notizia ha avuto un risalto mondiale tanto che il New York Times ha preteso l’esclusiva. Solo in seguito è stata diffusa in Italia.
La pellicola restaurata verrà proiettata a Pordenone il 9 ottobre prossimo all’interno delle Giornate del Muto.

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IL RAZZISMO BUSSA ALLA PORTA … DI UNA CASA IN AFFITTO


Chi vive in un condominio lo sa: quando un appartamento viene dato in locazione a degli stranieri, nascono sempre, o quasi, dei problemi. Ricordo che nel palazzo dove abitavo fino a dieci anni fa, la proprietaria dell’appartamento attiguo al mio era disperata. Non voleva fare discriminazioni, quindi affittava il bilocale anche agli stranieri. Nel tempo si sono alternati colombiani, brasiliani, albanesi … non li ricordo tutti di preciso. Ricordo però quanto sia stato difficile spiegare ai miei figli che ci facessero sul pianerottolo degli uomini, prevalentemente nel pomeriggio. Le due signorine che vi abitavano, la cui nazionalità onestamente non ricordo, facevano le ballerine in un night club, la mattina dormivano e nel pomeriggio arrotondavano facendo le squillo. Trovavo oltremodo imbarazzante, per giunta, dover rispondere al citofono a voci maschili che evidentemente non cercavano me. “Ehi, bella, ci siamo sentiti al telefono poco fa … ” costituiva l’enunciato più gentile. E io a spiegare che di certo con me non aveva parlato al telefono e che non facevo quel mestiere là.

Poi è stata la volta degli albanesi. Questi me li ricordo bene. Tranquilli, pareva di non averli nemmeno come vicini di casa. Quasi quasi mi sentivo in imbarazzo io con due maschietti scatenati che si rincorrevano per tutto l’appartamento. Poi, di punto in bianco, non si è visto più nessuno. La padrona di casa si è decisa ad aprire con le sue chiavi l’appartamento solo molto tempo dopo e solo perché gli inquilini erano spariti senza lasciar tracce di sé e, soprattutto, senza aver pagato il canone d’affitto, per mesi. Ricordo che quando aprì la porta mi sono trovata per caso sul pianerottolo: dalla casa usciva un fetore tale da farci credere che avremmo trovato, là dentro, quattro cadaveri in avanzato stato di decomposizione. Fortunatamente si trattava soltanto di avanzi di cibo lasciati dentro e fuori il frigorifero che, se cadaveri non erano, puzzavano terribilmente lo stesso.

Il problema dell’affittare le case agli extracomunitari è quello che non si sa mai quanta gente effettivamente ci andrà ad abitare. L’appartamento attiguo al mio, nel condominio dove abito attualmente, è stato affittato per trent’anni (forse quaranta, non ricordo) alla stessa persona. Andata via questa, la padrona aveva pensato di affittarlo ancora e ci aveva avvertiti che, stranieri o meno, lei non guardava in faccia nessuno a patto che le pagassero il canone. Ovviamente le demmo ragione: chi siamo noi per giudicare le scelte altrui? Fortunatamente si rese conto ben presto che gli extracomunitari, in particolare indiani e pakistani, pretendevano di andarci ad abitare in setto-otto (dichiarati, quindi forse quindici abusivamente) in appena 70 metri quadri. Per fara breve, ben presto la signora si rese conto che non avrebbe mai affittato ad italiani, quindi mise in vendita la casa che fu acquistata, fortunatamente, da una coppia che ha una scuola di lingue e che l’affitta ai suoi insegnanti provenienti perlopiù dall’Inghilterra. Magnifico! Così ogni tanto mi faccio una chiacchierata in Inglese sul pianerottolo. Anzi, nei primi tempi, eravamo spesso invitati alle loro feste e frequentavamo la casa regolarmente. Ma poi gli insegnanti sono cambiati e ne sono arrivati altri molto meno espansivi e per nulla festaioli.

Per giungere al topic, leggo sul quotidiano Il Messaggero Veneto, che in quartiere di Pordenone è stato affisso un cartello in cui si dichiara di essere disponibili ad affittare una casa esclusivamente ad Italiani. La cosa ha suscitato non poche polemiche, tanto che i proprietari si sono dovuti giustificare dicendo: «Abbiamo avuto una brutta esperienza. Una coppia di stranieri ci ha vissuto lo scorso anno. Lei una brava ragazza, ma lui l’ha lasciata e lei si è trovata in difficoltà. Non ce la faceva a starci dietro. Così abbiamo detto basta», aggiungendo che «Nel palazzo vivono dei professionisti. Vogliamo che qui vivano brave persone».

Ora, io credo che gridare allo scandalo non serva a nulla. Nemmeno alla Caritas che, commentando il cartello, tuona, per voce del legale, Carla Panizzi: «Bisognerebbe sempre capire le motivazioni che stanno alla base, però, così come è scritto, è palesamente discriminatorio in termini di razza e lingua».

Io credo che ognuno debba fare quel che si sente. Forse il cartello appare discriminante, forse si potrebbe trovare un altro modo per aggirare l’ostacolo, usando la diplomazia. Trovo, però, che le giustificazioni dei padroni siano plausibili, avendo avuto anch’io un’esperienza indiretta, quella descritta, che mi ha convinto che se uno acquista un immobile con l’intenzione di fare un investimento, non può rischiare di trovare degli inquilini insolventi. Anche se per onestà dobbiamo ammettere che, di questi tempi, con la crisi economica e la precarietà delle occupazioni lavorative, il rischio c’è sempre, anche con gli Italiani.

Mi permetto, infine, un’osservazione: quando i nostri migranti se ne andavano a cercar fortuna all’estero, non si trovavano spesso di fronte a cartelli in cui, senza mezzi termini, si dichiarava di non affittare case agli Italiani? E come no! Certo, erano altri tempi e tutta questa politica dell’accoglienza non esisteva. La storia passata dovrebbe essere magistra vitae, ma sappiamo molto bene che ognuno guarda al proprio orticello, senza curarsi di chi si trova in difficoltà. Questa forma di egoismo non è ancora tramontata, forse perché non abbiamo raggiunto quel grado di civiltà che ci porta ad essere accoglienti nei confronti di chicchessia, senza timori o sospetti. E purtroppo ci lasciamo facilmente condizionare dai pregiudizi che, però, molte volte sono fondati. Perché dovremmo, in nome dell’accoglienza, ignorare questa realtà e uniformarci tutti ad un unico pensiero? C’è chi se la sente e chi no. Ma non per questo dobbiamo giudicare le scelte altrui, sempre che non rechino danno a delle persone innocenti e sfortunate.

[foto e notizia dal Messaggero Veneto]

MANIFESTI GAY A UDINE: NON SI PLACANO LE POLEMICHE


Dal 17 maggio scorso, giorno in cui si è celebrata la giornata mondiale contro l’omofobia, nelle strade del centro cittadino di Udine e di Pordenone sono stati affissi centinaia di manifesti con le immagini di due coppie di omosessuali, due maschi e due femmine, riprese nell’atto di baciarsi. Ne ho già parlato in questo post.
Le reazioni di protesta, soprattutto da parte del PdL e della Chiesa non si sono fatte attendere. Ma il sindaco di Udine, Furio Honsell, già rettore dell’ateneo friulano e noto al grande pubblico per le sue numerose ospitate, avvenute qualche tempo fa, nella trasmissione “Che tempo che fa”, condotta su Rai 3 da Fabio Fazio, è irremovibile. La campagna pubblicitaria, voluta e sponsorizzata a spese dell’amministrazione comunale, conferma, secondo il primo cittadino, che di questo tipo di pubblicità ce n’è davvero bisogno: l’omofobia è una realtà.

In effetti sembra che Honsell abbia ragione: non appena affissi i manifesti, nottetempo sono stati oscurati: in pratica qualcuno, probabilmente più persone e ben organizzate, visto che hanno girato tutta la città, ha nascosto i manifesti gay coprendoli con altri completamente bianchi. Non solo, in diverse parti della città sono comparsi degli adesivi con delle scritte ingiuriose contro gli omosessuali.
Da parte dell’Arcigay il commento è questo: il nostro obiettivo non è lo scontro ma generare un franco dibattito su un problema di stretta attualità qual è l’omofobia, un problema che ha sancito una giornata di carattere mondiale. Resta il fatto che questi adesivi confermano che l’omofobia è un problema reale, vero, e non un’invenzione delle nostre associazioni. E che dunque chi ha voluto dedicare il 17 maggio a questo problema lo ha fatto sicuramente a ragion veduta.

Anche il sindaco Honsell esprime il suo disappunto: È con profondo rammarico che abbiamo assistito a questa azione di inciviltà. Un’azione che condanniamo in tutti i sensi. Per quanto riguarda la copertura dei manifesti avvenuta nella notte (tra il 17 e il 18 maggio, NdR) ci attiveremo in base a quanto previsto dal regolamento comunale, che prevede il ripristino dei manifesti del committente. È chiaro comunque che sporgeremo denuncia contro ignoti e condanniamo questa azione così come tutte le espressioni di intolleranza. Come ho già avuto modo di rilevare da tutto questo emerge il fatto che di giornate contro l’omofobia c’ è davvero bisogno.

Direttamente chiamato in causa, il movimento La Destra del Friuli Venezia Giulia, attraverso il responsabile regionale Ernesto Pezzetta, ha rivendicato di aver “oscurato” a Udine i manifesti con il bacio omosessuale realizzati da Arcigay e Arcilesbica. Lo rivendico – ha dichiarato Pezzetta – assumendone la piena responsabilità. Si tratta di un’iniziativa prettamente politica, in contrapposizione alla scelta fatta dai Comuni di Udine e di Pordenone di patrocinare i manifesti.

Ma la gente comune che dice? Nelle interviste trasmesse sui vari Tg le reazioni sono state diverse: si va dall’indifferenza all’indignazione, ma da parte dei genitori si manifesta una certa preoccupazione per l’impatto che i manifesti potrebbero avere sui bambini: è difficile, infatti, spiegare loro il messaggio che si vuole trasmettere. A questo proposito, Eduard Ballaman , in veste di Tutore dei minori, definisce la campagna dell’Arcigay «aggressiva e mal congegnata». Mentre un dirigente scolastico ha protestato per l’affissione dei manifesti in prossimità dell’edifico scolastico e ne ha chiesto la rimozione.

Insomma, il problema è complesso e non saranno certo i manifesti con i baci tra gay a risolverlo. Tanto meno le polemiche che ne sono scaturite. Forse i tempi non sono ancora maturi per affrontare una tematica che pone in primo piano ancora molti pregiudizi e discriminazioni. Ma è anche vero che, nel momento stesso in cui da parte delle associazioni pro-gay si sente l’esigenza di una campagna pubblicitaria del genere, si ammette che una diversità, nel senso buono del termine, c’è: perché, infatti, non si tappezzano le strade di manifesti che ritraggono delle coppie eterosessuali o delle allegre famiglie con prole? Perché ciò che è “normale” non ha bisogno di pubblicità: ha già di suo un valore intrinseco su cui è difficile dubitare, se non altro perché fa parte della storia dell’uomo.

[fonti: Messaggero Veneto e Gazzettino; LINK per la foto]

A UDINE OMOSEX È UN PRODOTTO TIPICO … DI CIVILTÀ

Ha suscitato polemiche a non finire l’affissione in città di manifesti che ritraggono degli omosessuali nell’atto di baciarsi. In occasione della giornata mondiale contro l’omofobia, che si celebrerà il 17 maggio, l’amministrazione comunale ha pensato di accompagnare i manifesti con una scritta che propaganda la civiltà, e quindi implicitamente la tolleranza nei confronti delle coppie omosex, come “prodotto tipico friulano” accanto ai prosciutti, al vino e ai formaggi per cui questa regione è nota.

Niente da obiettare sul fatto che la civiltà sia un dovere di tutti i cittadini; ma in questo ritengo che non debbano primeggiare per forza i friulani. Se poi vogliamo essere sinceri, chi vive in Friuli-Venezia Giulia non può ignorare che siano esistite, e purtroppo non ancora sopite, diatribe tra i friulani e i giuliani. Quindi, a parer mio, un chiaro sintomo di civiltà dovrebbe essere rinunciare alle antiche e ingiustificate rivalità tra i friulani e i triestini. E lo dico con cognizione di causa, essendo io una triestina che vive da quasi venticinque anni in Friuli e che ha visto spesso degli atteggiamenti di insofferenza e sospetto da parte degli “autoctoni” non appena dichiaravo la mia origine.

Per molti anni ho dovuto fare i conti con i pregiudizi; ho rinunciato per lungo tempo alla mia identità, cercando di mascherare la mia origine per non essere emarginata, per essere considerata per quello che sono e non per la mia provenienza. Non è stato facile perché, sembra incredibile, ma l’intolleranza nei confronti dei triestini è sempre viva, si trasmette per via ereditaria. Il popolo friulano, popolo di emigranti, che ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza dell’emarginazione, non è ancora riuscito a mandar giù il “boccone amaro”. Più volte ho cercato di capire la ragione di questo atteggiamento, senza risultato. Ovviamente non mi è capitato spesso di sentirmi a disagio rivelando la mia origine, ma so che alla classica e scherzosa domanda “Chi vuoi buttar giù dalla torre: un extracomunitario o un triestino?”, molti sceglierebbero la seconda opzione.

Ma a parte questa mia esperienza personale, gli stessi pregiudizi sono ancora nutriti nei confronti dei meridionali: un paio di mesi fa aveva fatto notizia il licenziamento di un docente napoletano nel pordenonese. Ne avevo scritto questo post e i commenti che avevo ricevuto da due friulani doc avevano un tono molto diverso da quella “civiltà prodotto tipico friulano” che ora si vuol propagandare per combattere contro l’intolleranza nei confronti degli omosessuali.

Insomma, a me pare che ci siano molti modi per dire no ai pregiudizi e all’intolleranza, anche agendo in modo meno plateale, rischiando di urtare la sensibilità di chi, pur rispettando le scelte degli altri, non ha piacere di vedersi di fronte i manifesti descritti. Ad esempio, il presidente della Provincia di Pordenone, altra città in cui è stata diffusa questa campagna, Alessandro Ciriani, ha osservato: «È un’ostentazione pubblica fuori luogo di orientamenti sessuali privati e non è neanche trasgressiva, perché, considerate le immagini con le quali i media ci bombardano ogni giorno, ormai sarebbe più trasgressivo mostrare una famiglia normale».
Da parte sua, il direttore dell’Ufficio di pastorale della famiglia della Diocesi di Udine, don Giuseppe Faccin, ha definito “indecente” il patrocinio dato dal Comune di Udine alla campagna in questione.

A questo punto mi aspetto che prima o poi per la propaganda della “civiltà prodotto tipico friulano” siano affissi dei manifesti in cui un udinese (o pordenonese) baci un triestino. Anche omosex va bene.

[fonte della notizia e foto da Il Gazzettino]

POTETE LEGGERE ALTRI COMMENTI SULL’INIZIATIVA A QUESTO LINK DEL MESSAGGERO VENETO DEL 17/05/2010

OFFERTA SPECIALE: PROSTITUTE GRATIS PER UNA SETTIMANA

Per qualcuno la notizia potrebbe essere assai gradita, per me è semplicemente una notizia shock. Non vorrei sembrare moralista, perché non lo sono affatto. Parto dal presupposto che chiunque sia libero di fare ciò che gli pare, anche andare a prostitute se la cosa può dargli soddisfazione. Non mi permetto nemmeno di criticare o condannare le donne che scelgono il mestiere più antico del mondo, ma che lancino addirittura offerte speciali da supermercato, questo no, non lo ammetto.

La notizia è questa: Pia Covre, pordenonese nota, almeno in Friuli Venezia-Giulia, per aver fondato il primo sindacato delle prostitute, ha lanciato una campagna pubblicitaria che prevede prestazioni sessuali gratuite per un’intera settimana. Basta scaricare da un sito internet un buono-invito ed il gioco è fatto. Le sex-workers (così le chiama la Covre, evidentemente l’uso dell’idioma anglosassone dà più prestigio al lavoro delle puttane, classificate come workers, cioè lavoratrici a tutti gli effetti) sono pronte ad accogliere le richieste di uomini e donne, senza discriminazione alcuna. Certo, in un’epoca in cui basta poco per essere marchiati come razzisti, omofobi e così via, è meglio chiarirlo subito.

La sindacalista delle “lavoratrici del sesso” (traduco perché l’abuso dell’inglese mi infastidisce un pochino) ha dichiarato in un’intervista trasmessa durante l’edizione serale del TG 3 del Friuli Venezia-Giulia, che prostituirsi non è reato, se è una libera scelta della donna che esercita tale professione (direi “mestiere” ma non vorrei sembrare discriminante). I reati perseguibili sono, infatti, lo sfruttamento della prostituzione, la riduzione in schiavitù e l’adescamento. Secondo la Covre il 50% delle donne che offrono servizi sessuali a pagamento lo fa spontaneamente per molti motivi, primo fra tutti la difficoltà di trovare altri lavori. Io avrei dei dubbi in proposito, ma mi fido di ciò che asserisce l’esperta in questione. Le prostitute, quindi, devono essere tutelate e non criminalizzate come avviene spesso per quella che la Covre, fondatrice del Comitato per i Diritti Civili delle prostitute, chiama una doppia, ed implicitamente falsa, morale: tanti cercano i servizi delle sex workers ma si continua a fingere che questa sia una degenerazione. La stigmatizzazione e la criminalizzazione del lavoro sessuale purtroppo producono abusi e violenze contro chi esercita, ed è una situazione inaccettabile. Vogliamo con questa campagna sollecitare i molti uomini italiani clienti ad opporsi a tali crimini e ingiustizie, sia a livello nazionale che locale.

Ecco quindi l’idea di lavorare gratis per una settimana. Idea che mi convince poco: immagino che saranno molti ad approfittare di questa offerta speciale ma di certo non per riflettere sul tasto dolente toccato dall’autrice della propaganda. È un po’ come quando andiamo al supermercato e magari siamo convinti a non acquistare un certo prodotto perché sappiamo bene che le multinazionali sfruttano i lavoratori ed impediscono il decollo economico delle aree in via di sviluppo. Poi vediamo che proprio quel prodotto lì è in offerta e facciamo finta di dimenticarci tutti i buoni propositi e anche dello sfruttamento delle popolazioni che subiscono torti d’ogni genere.
In quel caso, però, possiamo rivolgere la nostra attenzione al commercio equo-solidale. L’iniziativa della Covre mi pare una cosa del genere solo che ha come obiettivo quello di incentivare la prostituzione che non è cacao solubile. Quale messaggio arriva ai più giovani, proprio quelli che non hanno mai provato questa forma di trasgressione? Non gli viene esattamente l’orticaria come quando si beve troppa cioccolata …

E che cosa possono pensare le ragazze? Che sia un lavoro come un altro contro cui non bisogna puntare il dito?
Molte forse si prostituiscono spontaneamente e magari ne traggono un buon profitto ma senza pensare che il vero sfruttamento non è quello che esercitano i protettori e che la schiavitù, per essere tale, non dev’essere per forza inflitta. Se solo si fermassero a riflettere, non sarebbero più tanto convinte della loro “libera” scelta.

In questa sorta di mercato che sta per diventare equo-solidale, a questo punto mi aspetto che la Covre escogiti un’altra offerta promozionale: il 3 x 2.

[fonet: Messaggero Veneto]

PORDENONE: VIETATO BACIARSI A SCUOLA

In questi giorni qui nel nord-est d’Italia il clima è piuttosto rigido. Cosa c’è di meglio di un affettuoso abbraccio o di un bacio fra innamorati per scaldarsi un po’? Nulla, ma a scuola non si può.
Il Dirigente Scolastico dell’Istituto Tecnico Commerciale “Mattiussi” di Pordenone, Vinicio Grimaldi, ha, infatti, vietato baci ed effusioni tra studenti nei locali della scuola. Gli insegnanti, di conseguenza, hanno l’obbligo di vigilare sul rispetto del divieto e sul comportamento corretto dei ragazzi. È una questione di buon gusto, innanzitutto, nonché di buona educazione. Le sanzioni previste, a seconda della gravità, possono includere anche la sospensione. E di questi tempi, con il nuovo regolamento sul comportamento degli studenti emanato dal ministro Gelmini, non c’è da scherzare: con il 5 in condotta si perde l’anno, anche se il profitto è positivo. Insomma, meglio rigar dritto e, oltre ad evitare le effusioni, gli studenti dovranno rinunciare alle sigarette, visto che non si può fumare nemmeno in cortile, dovranno prestare attenzione al linguaggio, evitando parolacce e bestemmie, nonché astenersi da qualsiasi atto di bullismo.

Il Dirigente precisa che non ci sono stati fatti specifici che ci hanno indotto a far seguire alla lettera il regolamento che già esiste, ma la volontà di chiarire alcuni atteggiamenti che devono essere in linea con un comportamento decoroso. In questo senso ritengo che all’interno della scuola il bacio tra studenti nei corridoi non può essere considerato un fatto normale. Come dargli torto?

Ricordo che ai tempi in cui frequentavo il liceo, le coppie di innamorati, se osavano tenersi per mano durante l’intervallo, si staccavano con grande sollecitudine non appena vedevano, anche da lontano, arrivare un professore. Scambiarsi dei baci, poi, era semplicemente impensabile. Quando ripenso ai “miei tempi”, lo confesso, mi sento mille anni luce lontana dai giovani d’oggi. Ogni volta che nei corridoi incrocio qualche coppietta, o faccio finta di niente o tutt’al più mi schiarisco la voce per farmi notare. Vorrei essere capace di sbraitare che queste cose non si fanno, che le andassero a fare a casa loro … non ne sono capace. In fondo le cosiddette “effusioni”, quando non oltrepassano il limite della decenza, ovviamente, fanno tenerezza. Se d’istinto provocano in me una reazione di disappunto, alla fine mi rendo conto che disappunto non è, è proprio invidia. C’è qualcuno che, arrivato alla mia età, non proverebbe un po’ d’invidia nei confronti di questi quindicenni in preda alla tempesta ormonale tipica della loro età? Poi però subentra in me la coscienza del mio ruolo istituzionale e faccio violenza alla parte sentimentale di me che vorrebbe lasciarli teneramente abbracciati. I baci, no, però. Quelli danno fastidio anche a me.

Sulle parolacce, bestemmie, bullismo e altro sono completamente d’accordo con il preside Grimaldi. Gli innamorati mi fanno tenerezza ma i maleducati vorrei prenderli a schiaffi. In quei frangenti non faccio finta di niente e li rimprovero aspramente ma, se non sono allievi miei, l’unico risultato che ottengo è uno sguardo fulminante che sottintende “Che ca**o vuoi? Fatti gli affari tuoi che non sei neanche una mia prof”. Allora mi sento impotente perché, al di là delle circolari che, una volta lette, vengono cestinate e di certo non s’imparano a memoria, ci vorrebbe più severità e soprattutto una comunione d’intenti: preside e insegnanti tutti pronti a vigilare, davvero, sugli studenti e a punire le trasgressioni. Ma senza dire “se ti vedo (o ti sento) la prossima volta …”, perché i ragazzi fanno presto a capire che ogni volta sarà la prossima e non succederà mai niente.
Quanto al fumo, da fumatrice mi fa comodo poter fumare almeno negli spazi aperti ma, se dovesse uscire nella mia scuola una circolare che imponesse il divieto di fumo anche all’aperto, mi adatterei. In fondo, ho rinunciato a fumare al ristorante o al bar e posso stare tre ore in classe senza accendere la sigaretta. Che problema c’è?

In conclusione, sono favorevole alla presa di posizione del Dirigente del “Mattiussi”, anche se qualcuno potrebbe pensare che alcuni dei divieti siano un po’ rigidi. I ragazzi hanno bisogno di regole: se non gliele diamo e non le facciamo rispettare, non impareranno mai a vivere.

[fonte: Il Gazzettino]

DICIOTTENNE MAROCCHINA AMA UN ITALIANO: UCCISA DAL PADRE

donna arabaÈ successo di nuovo e ancora accadrà. Figlie di immigrati, cresciute in Italia, a volte nate nel nostro Paese, destinate a soggiacere alla dura legge dell’islam. Quella legge che non prevede nel destino di giovani donne una vita felice, un amore sincero, un legame con un uomo che non appartenga alla stessa cultura. Per ragazze come Hina , 20 anni, pachistana, uccisa dal padre due anni fa perché amava un italiano e come Sanaa Dafani, diciottenne appena, la libertà è stata una falsa illusione, una conquista effimera, pagata con il sangue. Le mani armate dei padri hanno “fatto giustizia”, appellandosi al diritto di punire la trasgressione delle figlie, invocando la “legge dell’onore”. Dura lex, sed lex, dicevano i Romani; mai legge più dura e più ingiusta potrebbe esistere. Una legge che fa parte di una cultura che non sa aprirsi al mondo e che ritiene legittimo un omicidio per salvare l’onore. E poi si parla di integrazione. Ma l’integrazione sono prima di tutto loro a non volerla. Almeno persone come il padre di Sanaa che ieri ha ucciso la figlia. È accaduto in provincia di Pordenone, una provincia tranquilla.

La gente è incredula. Nelle interviste si sente solo parlare di “una brava persona”, riferendosi all’omicida. E sì, chi l’avrebbe mai detto? Un tipo un po’ chiuso, è vero, molto riservato. Si faceva i fatti suoi ma sul lavoro era socievole, rideva e scherzava con i colleghi. Chi avrebbe potuto immaginare che arrivasse ad uccidere la propria figlia, sangue del suo sangue. E in questo tipo di vicende, così tristi, così sconvolgenti, io mi chiedo che ruolo abbiano le madri. Nessuno. Le donne, mogli, figlie, sorelle, devono solo ubbidire alla “dura legge”, coprirsi il capo, non indossare i pantaloni, non lavorare o studiare, possibilmente. Qualcuna riesce ad opporsi, dimostrando un coraggio quasi da “uomo”, svincolandosi da questo integralismo che non è fede, non è religione, è solo crudeltà e ignoranza. Cosa possiamo avere noi in comune con gente come questa? Nulla. E non vuol dire essere razzisti, significa solo prendere le distanze da un mondo che non è solo diverso, ma è atrocemente ingiusto.

Omicidio premeditato, quello di El Ketaoui Dafani, 45 anni, residente dal 2001 in provincia di Pordenone. Forse le ha teso una trappola; la figlia non avrebbe avuto motivo di trovarsi sul luogo dell’omicidio, un luogo boschivo sulle montagne delle Valcellina. Forse la figlia e il fidanzato, da pochi mesi suo convivente, avevano sperato in una chiarificazione. Non una mano tesa pronta per il perdono, ma almeno uno sforzo per capire, se non condividere, le scelte di Sanaa.
E invece, all’arrivo dei soccorsi, il tragico epilogo di quell’incontro non fortuito si è materializzato davanti agli occhi di tutti: la ragazza agonizzante, sgozzata senza pietà, il giovane Massimo De Biasio, 31 anni, ferito gravemente accanto al suo amore ormai perduto per sempre. Un amore pagato a caro prezzo, da tutti e due: lei non c’è più, lui si salverà ma per tutta la vita porterà in sé il ricordo di questa atrocità di cui, involontariamente, è stato causa. Il senso di colpa non lo abbandonerà e potrà solo sentire un po’ di sollevo quando giustizia sarà fatta, quando El Ketaoui sarà punito. Ma spesso la Legge, quella degli uomini, non è così severa e qualsiasi punizione sembrerà insufficiente a fargli scontare la propria colpa.

Il presidente degli Intellettuali Musulmani Ahmad Gianpiero Vincenzo ha preso le distanze dal gesto efferato del “fratello musulmano”, dichiarando: Né L’Islam, né alcuna religione sulla terra possono giustificare l’omicidio tanto meno quello dei propri figli. Non possono esserci motivi religiosi dietro gesti così efferati, ma solo violenza e ignoranza. Assurdo però, che per la follia di pochi sconsiderati, si cerchi di colpevolizzare interi popoli e civiltà. No, non stiamo condannando un intero popolo, una civiltà riconosciuta tale; stiamo puntando il dito proprio contro quella “ignoranza” che rende ciechi, che porta a gesti estremi perché chi ne è afflitto non ha il potere di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Il “delitto d’onore” non esiste, non è scritto nella Legge di Allah e su questo siamo d’accordo. L’omicida, in ogni caso, merita una punizione esemplare. Forse quella di Ahmad Gianpiero Vincenzo è la testimonianza che maggiormente rende l’idea dell’integrazione possibile: seguire le leggi della fede ma rispettare il codice, quello degli uomini che condannano i reati, al di là di qualsiasi fede religiosa. E qui l’onore macchiato non ha alcuna importanza, non può essere un pretesto per uccidere. Questa si chiama giustizia umana. Poi sarà Dio o Allah a concedere il perdono, se verrà richiesto. La bontà di Dio è infinita, quella degli uomini no.

[fonti: Messaggero veneto e Gazzettino]

PORDENONE: STUDENTI CONTRO PROF

urlo_munchVita dura per un docente di Storia e Filosofia di un liceo pordenonese. Quando uno pensa di essere finalmente in vacanza e si può ritenere soddisfatto dagli esiti degli Esami di Stato che vedono premiata la sua terza (si tratta di un classico) con una media di voti piuttosto alta, ecco che arriva una stangata che forse non si aspettava. E già, perché gli studenti a volte sono perfidi; di fronte tutti “ciccì e coccò”, ma pronti a pugnalarti alle spalle. Anche quando non dovrebbero più pensare al “vecchio” prof, quando dovrebbero godersi finalmente le vacanze, quando l’Esame di Stato dovrebbe essere ormai archiviato e con lui, anche i cinque anni di liceo. Si sa, gli studenti fanno presto a dimenticare … E invece, c’è chi cova un risentimento antico e pensa di potersi sfogare con una lettera mandata ad un quotidiano, gettando un po’ di fango su un prof ignaro della trama tessuta alle spalle. Ma di questi tempi non ci si deve stupire di nulla, non c’è privacy che tenga, si mandano lettere ai giornali, anche le più inopportune, invece di interpellare i diretti interessati. Evidentemente Veronica Lario ha fatto scuola e i panni sporchi non si lavano più in casa. Ma questo l’ho già detto in un altro post di tutt’altro tenore.

Devo confessarlo, sto scrivendo con rabbia, pensando che gli allievi sono sempre in agguato, pronti a demolirti, o almeno a fare un tentativo. La vicenda è questa: sedici studenti dell’ultimo anno, freschi d’esame, pur avendo ottenuto presumibilmente delle votazioni di tutto rispetto –si parla, come ho già detto, di una media piuttosto alta- hanno espresso il loro scontento inviando al Messaggero Veneto una lettera di protesta contro il loro insegnante. Hanno ritenuto, infatti, di essere stati penalizzati dall’ignaro docente in quanto non li avrebbe adeguatamente preparati nelle proprie discipline. Nello specifico, le accuse mosse sono le seguenti: ha interrogato poco, non ha impedito che si copiasse durante le verifiche, ha spiegato per un numero insufficiente di minuti (ne hanno tenuto il conto?).

Bene, ora mi permetto di fare alcune considerazioni. La perfidia degli studenti non sta solo in questa specie di accoltellamento alle spalle, cioè nell’aver “dimenticato” di esplicitare il loro malcontento durante l’anno scolastico parlandone con il diretto interessato, ma sta soprattutto nel fatto che le accuse mosse, ammettendo che siano reali, nascono da situazioni che, sempre durante l’anno, ai ragazzi andavano benissimo. Non ho mai sentito, infatti, che qualcuno si sia lamentato per le poche interrogazioni o per il fatto che sia possibile copiare durante i compiti o che le spiegazioni siano brevi e approssimative. Diciamola tutta: che s’interroghi poco agli studenti fa un gran piacere così studiano di meno; che si possa scopiazzare è come partecipare ad un banchetto e arraffare quante più leccornie possibili, praticamente una festa; che le spiegazioni siano brevi è una manna perché così non ci si annoia. Ovviamente non conosco il motivo per cui il prof in questione abbia dedicato “pochi minuti” alle spiegazioni, ma posso immaginare che non abbia perso il resto delle ore a fare i fatti suoi. Non un prof che insegna da trent’anni e che sa il fatto suo. A volte si “perde” del tempo in discussioni e dibattiti su un dato argomento, anche attualizzando i messaggi, nel tentativo di rendere più accattivanti le lezioni. Non dimentichiamo, poi, che la lezione frontale, così com’era concepita “secoli” fa, non rientra più nella metodologia didattica cui dedicare il 100% delle ore. Quanto al fatto che il prof abbaia lasciato copiare, il più delle volte non è una scelta precisa –del tipo “tanto che me ne frega, peggio per loro”- ma una sorveglianza non da gendarme austriaco rientra nel patto formativo, quello per cui i ragazzi possono riporre nel loro insegnante quella stessa fiducia che l’insegnante ripone in loro. Ma questo gli studenti lo ignorano o fanno finta di ignorarlo.

Quello che più mi fa restare a bocca aperta sono le parole della preside che afferma di aver ricevuto segnali di difficoltà dagli alunni, nel corso dell’anno scolastico e che si farà carico di affrontare in maniera esplicita e approfondita il problema con il docente stesso solo se le arriverà una segnalazione firmata esplicitamente dagli studenti oppure dai genitori. Questa è la dichiarazione fatta dalla preside e riportata dal quotidiano; prima di commentarla premetto che non conosco la persona in questione né posso essere certa che le parole dette siano davvero queste. Tuttavia, commenterò considerando le affermazioni veritiere e corrette.
Per prima cosa inorridisco quando sento che dei ragazzi vanno a parlare con un dirigente scolastico invece di affrontare l’argomento, spinoso fin che si vuole ma da affrontare comunque per il bene di tutti, con l’insegnante in questione. Se ciò avviene, secondo me, è indice di un pessimo rapporto con il prof e quindi elemento tale da compromettere una buona relazione didattica, intesa come rapporto tra l’insegnamento e l’apprendimento.
In secondo luogo ritengo una pessima consuetudine –e questa so che è reale in alcune scuole- quella dei presidi che fanno finta di ascoltare i ragazzi ma poi quasi mai informano i docenti delle proteste o lamentele. Un insegnante non può “immaginare”, deve “essere messo al corrente” di certe cose. Poi finisce, chissà perché, che tutta la scuola sappia e parli alle spalle dell’ignaro docente che non si pone nemmeno il problema.
Infine, non capisco perché un dirigente debba muoversi solo dopo aver sentito il parere anche dei genitori, a patto che le rimostranze siano fatte per iscritto. È evidente che qualsiasi intervento della preside in questione sia ormai tardivo e non possa ottenere altro se non un eventuale beneficio nei confronti dei futuri maturandi preparati dal docente di Storia e Filosofia. Ma quella dei sedici allievi è una frittata ormai già fatta, ammesso che di frittata si tratti.

Questa vicenda mi riporta indietro di trent’anni, alla mia maturità. Quell’anno all’orale erano “uscite” italiano, filosofia, greco e fisica. Noi dovevamo portare una materia a scelta e la seconda –allora le materie per l’esame orale erano due- veniva decisa dalla commissione. In realtà, però, la scelta era particolarmente caldeggiata dal commissario interno (l’unico, a quei tempi) che aveva preventivamente raccolto tutte le nostre preferenze e persuadeva, non so con quali mezzi, la commissione ad assecondare la nostra opzione.
Neanche a farlo apposta, la materia in cui eravamo poco preparati era filosofia. Il nostro insegnante era particolarmente buono; dire un pezzo di pane è poco, una fetta di sacher rende meglio l’idea. Il fatto è che lui spiegava benissimo, e riusciva a farlo anche nonostante il baccano che facevamo in classe, sicché nessuno, o quasi, lo ascoltava. Quando venivamo interrogati, lui chiedeva un argomento a scelta … solo quello. Inutile dire che ciascuno di noi, a parte i più solerti e coscienziosi, conosceva di tutto il programma solo quattro argomenti, due del primo quadrimestre e due del secondo. Quindi, è evidente che la filosofia era come lo spettro di Banquo: ci perseguitava tutte le notti prima dell’orale. Devo dire che siamo stati fortunati: nessuno l’aveva scelta come seconda materia e l’hanno imposta solo ad un compagno. Ma, al di là di tutte le più rosee aspettative, lui alla fine è uscito con 60/60. Perché? Semplicemente perché lui la filosofia l’aveva sempre studiata, anche se non lo dava ad intendere, a dispetto dei quattro argomenti buoni per le quattro interrogazioni. Qual è la morale? Che se uno studia con coscienza, non c’è professore impreparato o troppo buono che tenga: lui quella materia la saprà bene lo stesso. Naturalmente è superfluo che io ammetta di avere delle lacune mostruose in filosofia, anche se mi sono impegnata a studiarla all’università; solo quella medievale, però.

Un altro episodio analogo è accaduto quando frequentavo il ginnasio. La nostra professoressa di Lettere era anche lei un pezzo di pane. Ci trattava come se fossimo tutti suoi figli; lei ne aveva otto o nove, almeno così si diceva in giro, e non sapeva rinunciare a quell’atteggiamento materno che, però, in un’aula scolastica poteva fare solo danni. Infatti, quando arrivò una supplente verso metà anno della quinta ginnasio, ci trovò tutti impreparati in greco. Naturalmente noi allievi rimanemmo stupiti di ciò, visto che in pagella avevamo tutti otto e nove. In fondo credevamo di saperlo bene il greco. A quel punto la supplente, che rimase con noi un paio di mesi, si rimboccò le maniche e cercò di rimediare ai danni fatti dalla nostra prof. Ma l’atteggiamento della classe non fu unanime: la maggior parte dei compagni, infatti, credé non fosse poi così importante mettersi a studiare perché, anche se il rischio era quello di ritrovarsi dei due o tre appioppati dalla supplente, poi comunque sarebbe tornata la titolare e avrebbe rimesso a posto le cose. Qualcuno, invece, pensò fosse l’occasione buona per recuperare e preparasi ad affrontare il terribile professore di greco che avremmo avuto al liceo. Io appartenevo a questa seconda categoria e i fatti mi diedero ragione: primo compito in classe della prima liceo, due sufficienze in tutto (un 8 e un 8-), tra cui la mia. A quel punto anche gli altri si rimboccarono le maniche ma sarebbe stato meglio farlo prima, indubbiamente con minor fatica.

Perché ho raccontato questi episodi della mia esperienza scolastica? Per far capire, agli studenti in primis, che la volontà di ciascuno ha la meglio in qualsiasi situazione. Quindi, quei sedici ragazzi invece di lamentarsi dopo l’esame, a giochi già conclusi, avrebbero dovuto mettersi d’impegno prima e recuperare le lacune. Sempre ammesso che sia stato il docente in questione a sbagliare. Ma poi, non è così scontato che un professore non troppo esigente sbagli; è un modo come un altro per mettere alla prova i ragazzi, per responsabilizzarli. In fondo loro sapevano che avrebbero dovuto sostenere un esame.

Se è vero che il torto e la ragione non stanno mai da una parte sola, in ogni caso mi sento in dovere di difendere il collega in questione, pur non conoscendolo. È necessario, infatti, che qualcuno prenda le difese della categoria, specie in un momento in cui non si fa altro che parlare di “scuola malata” e di “insegnanti fannulloni”. Si fa presto ad essere messi alla gogna, se poi è mediatica, ancora meglio.

[ho volutamente omesso di citare nomi e luoghi, ma per dovere di cronaca devo citare la fonte. Quindi, lascio il link dell’articolo in questione]