PREMESSA:
Inauguro con questa delicata poesia, ricordo dei miei studi liceali, una sezione dedicata alle poesie scomparse dai manuali scolastici. Purtroppo molte liriche che hanno appassionato gli studenti nella seconda metà del secolo scorso, non vengono più trattate nei programmi scolastici. Accolgo, quindi, l’invito che qualche lettore mi ha fatto, intervenendo sul blog o scrivendomi in privato, a commentare qualcuna di queste poesie dimenticate dai curatori delle antologie scolastiche (almeno di quelle in uso nelle scuole superiori) ma mai del tutto scomparse dai nostri cuori.
Giovanni Pascoli (1855-1912), noto poeta romagnolo, compì gran parte dei suoi studi presso il Collegio Raffaello di Urbino, retto dai padri Scolopi. Entratovi a sette anni, nel 1862, assieme ai fratelli Giacomo e Luigi, vi rimase fino al 1871, concludendo la prima classe liceale.
La morte del padre, avvenuta il 10 agosto 1867, avvenimento che traumatizzò il giovane Pascoli, provocò un cambiamento del curricolo di studi cui era già stato avviato: la famiglia, infatti, avrebbe voluto che proseguisse gli studi in ambito tecnico per succedere al padre nel ruolo di amministratore della tenuta dei principi di Torlonia, a San Mauro. Il poeta, però, dopo l’uscita dal collegio di Urbino, riuscì a frequentare il secondo anno di liceo classico a Rimini e l’ultimo anno presso il collegio degli Scolopi di Firenze nel 1872. Bocciato a giugno nelle materie scientifiche, riparò ad ottobre sostenendo gli esami a Cesena.
Grazie ad una borsa di studio e all’interessamento di Giosue Carducci, che in lui intravide delle doti letterarie, si iscrisse alla Facoltà di Lettere dell’università di Bologna dove si laureò a pieni voti, dopo varie vicissitudini, nel 1882, ottenendo in seguito un incarico di insegnamento al liceo di Matera.
Dal 1897 al 1903 Pascoli insegnò Letteratura Latina all’Università di Messina. Qui compose la poesia L’aquilone, rievocando momenti lieti e tristi passati al collegio di Urbino. La lirica fa parte della raccolta Primi poemetti che il poeta pubblicò, nell’edizione definitiva, nel 1904.
Dal punto di vista metrico, la lirica è composta da 21 terzine di endecasillabi più un verso isolato che la conclude. Lo schema metrico è ABA, BCB, CDC, rima incatenata detta anche terza rima. La stessa usata da Dante Alighieri per la sua Commedia. Qui, tuttavia, il metro scelto non appare affatto solenne, anzi, si fa discorsivo e le rime spesso nemmeno si avvertono.
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole,
anzi d’antico: io vivo altrove, e sento
che sono intorno nate le viole.
Son nate nella selva del convento
dei cappuccini, tra le morte foglie
che al ceppo delle quercie agita il vento.
A Messina, complice il clima mite, già a febbraio si respira un tepore primaverile: è quel qualcosa di nuovo che porta con sé l’antico, i ricordi dell’infanzia passata in quel convento dei Cappuccini, a Urbino, dove il poeta immagina siano già spuntate le viole tra le foglie ormai morte che il vento agita ai piedi delle querce.
Si respira una dolce aria che scioglie
le dure zolle, e visita le chiese
di campagna, ch’erbose hanno le soglie:
un’aria d’altro luogo e d’altro mese
e d’altra vita: un’aria celestina
che regga molte bianche ali sospese…
sì, gli aquiloni! E’ questa una mattina
che non c’è scuola. Siamo usciti a schiera
tra le siepi di rovo e d’albaspina.
Le siepi erano brulle, irte; ma c’era
d’autunno ancora qualche mazzo rosso
di bacche, e qualche fior di primavera
bianco; e sui rami nudi il pettirosso
saltava, e la lucertola il capino
mostrava tra le foglie aspre del fosso.
L’aria tiepida scioglie la terra indurita dal ghiaccio, accarezza le soglie cosparse d’erba delle chiese di campagna; è l’aria di un luogo diverso da quello in cui Pascoli si trova, quella che respirava nella sua infanzia (d’altra vita) e in un mese diverso. A Urbino, infatti, la primavera tarda ad arrivare rispetto a Messina, in cui ora vive. Ed ecco che sospinti da quell’aria celestina i ricordi vagano nel rievocare le bianche ali sospese: gli aquiloni.
È una mattina senza scuola, gli scolari felici, in gruppo, sono usciti tra le siepi spoglie e spinose di rovo e di biancospino. Fra i bianchi fiori primaverili si intravedeva ancora qualche bacca rossa, reminescenza autunnale. Sui rami degli alberi, ancora spogli, saltellava sulle sue zampette il pettirosso e la lucertola faceva capolino tra le foglie aride di un fossato.
Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino
ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.
Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza.
S’inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.
S’inalza; e i piedi trepidi e l’anelo
petto del bimbo e l’avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.
Più su, più su: già come un punto brilla
lassù, lassù… Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto… – Chi strilla?
Ora il ricordo si fa più nitido e alle immagini della natura si sovrappongono quelle dei compagni. Il poeta ricorda che, dall’alto di un colle che sovrasta Urbino, con il favore del vento ciascuno libera nel cielo turchese il suo aquilone che qui assume l’aspetto di una stella cometa che ondeggia, quasi sospesa in precario equilibrio, trova un ostacolo poi riprende il volo e si libra leggera nell’aria. Quando l’aquilone si rialza, il movimento viene accompagnato dall’urlo dei bambini.
Particolarmente efficace, nella seconda terzina riportata qua sopra, i verbi elencati per asindeto, quasi a voler seguire l’avventura aerea della cometa, e quell’ultimo s’inalza ripreso, in anafora, all’inizio delle strofe che seguono.
Delicata l’immagine dell’aquilone che prende il volo, quasi a rubare il filo dalle manine dei bimbi, paragonato ad un fiore che si libera dallo stelo per andare a rifiorire altrove. E poi i piedi dei piccoli che sulle punte sembrano spiccare il volo, mentre la corsa, o forse l’emozione, rende il loro petto ansimante. Gli occhi (la pupilla è una sineddoche) seguono anch’essi trepidanti il volo dell’aquilone che sembra portare tutto con sé in cielo, il viso e il cuore.
Il volo continua sempre più in alto finché un colpo di vento devia il volo dell’aquilone, accompagnato da uno strillo. Di chi è quella voce?
Sono le voci della camerata mia:
le conosco tutte all’improvviso,
una dolce, una acuta, una velata…
A uno a uno tutti vi ravviso,
o miei compagni! E te, sì, che abbandoni
su l’omero il pallor muto del viso.
Sì: dissi sopra te l’orazioni,
e piansi: eppur, felice te che al vento
non vedesti cader che gli aquiloni!
Le ricorda tutte quelle voci, il poeta. Sono quelle dei suoi compagni di camerata, riesce a distinguerle ad una ad una, non appena si affacciano alla sua memoria. Tutte, e ciascuna con la sua caratteristica propria: qualcuna dolce, un’altra acuta, un’altra ancora velata, forse di pianto. E anche i volti dei compagni visitano nuovamente la mente di Pascoli, uno in particolare: quello di chi ha abbandonato sulla spalla del poeta il viso pallido e muto.
È forse l’amico più caro, per lui il poeta giovinetto aveva pianto e pregato, invano. Un fanciullo che non aveva goduto dello spettacolo sulla collina, che non era riuscito a vedere gli aquiloni cadere. Felice, nonostante tutto, perché aveva goduto dell’età più bella e la morte l’aveva sottratto ai dolori della vita.
In questi versi ritorna, seppur attraverso immagini delicate, quel male di vivere, mai celato, che accompagnò il poeta durante la sua esistenza contrassegnata da numerosi lutti, iniziati con la scomparsa del padre che causò in lui un trauma mai superato. Ecco, dunque, che la morte in giovane età è, per Pascoli, una morte felice.
Tu eri tutto bianco, io mi rammento:
solo avevi del rosso nei ginocchi,
per quel nostro pregar sul pavimento.
Oh! te felice che chiudesti gli occhi
persuaso, stringendoti sul cuore
il più caro dei tuoi cari balocchi!
Oh! dolcemente, so ben io, si muore
la sua stringendo fanciullezza al petto,
come i candidi suoi pètali un fiore
ancora in boccia! O morto giovinetto,
anch’io presto verrò sotto le zolle
là dove dormi placido e soletto…
L’autore qui ricorda il pallore di quel bimbo, il bianco che contrasta con il rosso delle ginocchia causato dalle preghiere che erano costretti a recitare piegati sul pavimento.
Nelle terzine che seguono, l’anafora di quell’oh iniziale racchiude il pensiero pascoliano sulla morte, una morte che anche il poeta sente vicina. Eppure quel fanciullo morì felice, stringendo al petto il suo giocattolo preferito assieme alla sua giovane vita troncata anzitempo, come i petali bianchi di un fiore non ancora sbocciato del tutto. Una dolce morte che accompagnò il bimbo nell’estremo riposo sotto le zolle, tranquillo e solo.
Meglio venirci ansante, roseo, molle
di sudor, come dopo una gioconda
corsa di gara per salire un colle!
Meglio venirci con la testa bionda,
che poi che fredda giacque sul guanciale,
ti pettinò co’ bei capelli a onda
tua madre… adagio, per non farti male.
Per Pascoli la morte felice del compagno è caratterizzata dall’immagine di chi giunge alla fine della vita ancora ansimante, sudato e accaldato dalla corsa fatta per salire il colle, facendo a gara con i compagni per chi arriva primo. E per primo è arrivato alla meta finale: ha ancora i capelli biondi, quel bimbo, l’età non li ha fatti ingrigire. La sua testolina, che custodisce immutate le infantili illusioni, ora riposa fredda sul guanciale mentre la madre pettina dolcemente la chioma, creando un’onda, adagio per non fare male al figlio che non vide cadere al vento altro che gli aquiloni.
[le immagini: “Aquiloni” di Pietro Lerda da questo sito; “Bambina con l’aquilone” da questo sito; “Madre pettina bambino” di Mary Cassat da questo sito; barra divisoria da questo sito]