#CAPPUCCINODAY: PERCHÉ A TRIESTE VE LO SERVONO IN TAZZA PICCOLA?

capo in b

L’8 novembre in Italia si festeggia il #cappuccinoday, una bevanda calda che dal nome rimanda al colore del saio dei frati cappuccini. Sembra che l’inventore del cappuccino sia Marco d’Aviano, frate appartenente all’Ordine dei frati minori cappuccini, il quale sarebbe stato inviato a Vienna nel settembre 1683 da Papa Innocenzo XI per una missione diplomatica. Trovatosi in una caffetteria viennese, il frate, con l’intento di attenuare il gusto troppo forte del caffè, avrebbe aggiunto un po’ di latte. La nuova bevanda, inconsapevolmente da lui scoperta, avrebbe assunto il nome di kapuziner, che nella lingua tedesca significa appunto “cappuccino”.

Ci sono tuttavia altri racconti legati alla “scoperta” del cappuccino. Altre fonti attribuiscono l’invenzione a Franz Georg Kolchitzky il quale fu principale artefice della liberazione di Vienna dall’assedio ottomano. In cambio del suo aiuto, gli sarebbero stati offerti molti sacchi di caffè ma a Kolchitzky, come a tutti i viennesi, il caffè alla turca non piaceva perché troppo forte quindi vi aggiunse qualche goccia di latte.

Leggende a parte, in tutta Italia il cappuccino viene servito in tazza grande e il latte schiumato a volte viene cosparso di cacao. A Trieste, invece, tale bevanda viene servita nella stessa tazzina usata per il caffè espresso, mentre se il cliente vuole il cappuccino tradizionale deve chiedere un caffè latte.

La città giuliana è nota con l’etichetta di “capitale del caffè” grazie alle numerose industrie che trattano questo tipo di prodotto e grazie anche al suo porto che da oltre due secoli è la principale meta italiana per l’importazione dei chicchi. Inoltre, Trieste faceva parte dell’impero austro-ungarico quindi non ci deve stupire il fatto che la nuova bevanda da Vienna sia stata importata in città direttamente dall’Austria. Ciò tuttavia non spiega il motivo per cui il cappuccino a Trieste sia paragonabile al caffè macchiato servito nei bar al di là del ristretto confine cittadino. Pare quindi che non ci sia risposta alla domanda: “Perché a Trieste il cappuccino è servito in tazza piccola?”.

Se siete turisti e ordinate un cappuccino, probabilmente il cameriere vi chiederà “grande o piccolo?”, senza dubitare del fatto che siate foresti. Un triestino, infatti, chiede semplicemente un capo, con la variante assai diffusa di capo in b se lo vuole servito in un piccolo bicchiere. Naturalmente è possibile chiedere anche il nero in b e tutte le sue varianti che verranno servite in vetro.

Un’altra curiosità è relativa all’espresso: a Trieste si chiede un nero. Ma se vi trovate in Friuli e siete triestini, attenzione: l’ordine sarà evaso servendovi un… bicchiere di Merlot! Infatti, ordinando al bar un vino rosso si dice “un taj di neri”, il che alle 7 del mattino, per esempio, non è proprio il massimo. Specialmente se poi volete intingervi un cornetto (o croissant oppure briosche… anche qui i termini sono diversi a seconda del luogo in cui vi trovate).

Proprio per non smentire la fama di “capitale del caffé”, a Trieste ci sono innumerevoli varianti in cui viene somministrata la bevanda. Oltre al nero e al capo in b, potete chiedere un macchiato caldo o freddo (in questo caso vi serviranno un nero con a parte il latte freddo), un gocciato, un deca (decaffeinato) nero oppure capo, ma se volete un cappuccino in tazza grande dovete chiedere un caffè latte.

E ora non mi resta altro da fare che augurare a tutti un buon cappuccino!

[fonti: ansa.it, triesteprima.it, discovertrieste.it, sangiustocaffè.com, bora.la. L’immagine è tratta da questo sito]]

1 FEBBRAIO: GIORNATA MONDIALE DEL VELO ISLAMICO. TESTIMONIANZE PRO E CONTRO

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Oggi è il 1 febbraio e nel mondo musulmano si celebra il «World Hijab Day», la giornata mondiale del velo islamico. In questa occasione, come pare, le donne rivendicano il diritto ad indossare il velo islamico senza essere perseguitate né discriminate.

Personalmente, come ho spesso scritto in questo blog, credo che la libertà individuale debba essere rispettata e non giudicata. Sempre che venga rispettata la Legge.

Anni fa, a commento di un post che riguardava la difesa del crocifisso, è arrivata la testimonianza di Hajar che voglio ripubblicare in parte (con qualche lieve modifica formale) in occasione di questo evento.
Riporto di seguito un brano tratto dal libro di LEILA DJITILI, Lettera a mia figlia che vuole portare il velo, Piemme editore, 2005.
Due visioni diametralmente opposte. Voi da che parte state?

BUONA LETTURA.

Mi chiamo Hajar, sono una ragazza di 21 anni e vivo in italia da più di 15 anni. Qui ho frequentato tutte le scuole, mi sono sposata e porto il burqa da tre mesi, non perché qualcuno mi abbia obbligata, anzi, mio marito non voleva neanche che io lo mettessi. Ma ho indossato il burqa perché è una mia libera scelta e perché sono diventata più praticante.
Nella città in cui vivo non ho trovato nessun problema con i concittandini e la polizia mi ha incontrato più volte per strada e non ha detto niente. […]

Questa, invece, è la storia di Aicha (la madre) e Nawel (la figlia), raccontata da Leila Djitli, una giornalista di origine algerina che vive da anni a Parigi, nel libro Lettera a mia figlia che vuole portare il velo. Ne riporto alcuni passi:

[…] Te l’ho detto, sono pronta a rispettare la tua scelta. Soltanto non venirmi a dire che è in nome della tua religione o della tua identità. Perché è falso. D’altronde, cosa fanno quelle che lo portano in nome di questa presunta identità cultural-religiosa? Nient’altro che deviarla. Lo vedi: si velano e si truccano, portano tacchi alti, gioielli, pantaloni aderenti. Si velano e guardano i ragazzi! E’ impressionante vedere quanto questo atteggiamento sia diffuso. Soprattutto se si pensa che il velo è, prima di ogni altra cosa, un segno. Se viene scelto liberamente, è il segno di un impegno sincero, totale. Un segno che distingue e separa dal mondo laico e dalle sue distrazioni materiali le donne che lo indossano. E’ il segno di un’adesione a valori profondi e rispettabili […]
Di fronte all’immagine fuorviante del velo, due atteggiamenti sono possibili: accettazione o rifiuto.
Rifiutare, significa considerare il velo semplicemente come un segno religioso. Accettare, significa ammettere che il segno religioso non ha più, o non solo, importanza […] l’abito non fa il monaco. Ed è ciò che dicono e fanno le ragazze e le donne che portano un segno religioso, senza tuttavia esserne schiave. Queste ultime non fanno alcuna fatica a lasciarlo quando entrano, per esempio, in classe o sul luogo di lavoro. Sono coerenti. Come credenti hanno capito che la loro fede è altrove, è più grande di quel pezzo di tessuto al quale non possono essere ridotte (e al quale, infatti, non accettano di essere ridotte). Ma le altre, quelle che in classe si rifiutano di toglierlo, sotto quale pressione agiscono? Ribellione, accanita affermazione di sé o … integralismo?
(da LEILA DJITILI, Lettera a mia figlia che vuole portare il velo, Piemme editore, 2005, pp. 53-55)

[IMMAGINE DA QUESTO SITO]

LE FESTE DEL 2012: 29 APRILE, 6 MAGGIO E 3 GIUGNO


Nella manovra finanziaria appena varata dal governo è stato deciso di “abolire” le festività laiche spostandole alla domenica successiva. Salve, almeno per ora, le festività religiose concordatarie, definite in un trattato internazionale col Vaticano, mentre nel mirino del governo ci sono finiti anche i santi patroni delle città, pure loro spostati. Praticamente si salveranno solo i patroni della capitale, i santi Pietro e Paolo, la cui festività cade il 29 giugno, che, come, il Natale e l’Assunzione (ovvero, Ferragosto), è indicata in un accordo con la Santa Sede.

Calendario alla mano, festeggeremo la “liberazione” il 29 aprile, la festa dei lavoratori il 6 maggio e quella della repubblica il 3 giugno, posticipata di un solo giorno. Sono feste che personalmente avrei abolito anche senza manovre finanziarie ma tant’è …

Ora i più giovani sgraneranno gli occhi: quand’ero studentessa si festeggiava anche l’11 febbraio, data significativa in quanto ricorre l’anniversario dell’apparizione di Nostra Signora di Lourdes, in ricordo della Conciliazione, ovvero la firma dei cosiddetti Patti lateranensi (1929), tra papa Pio XI e Mussolini, con cui si concludeva l’annosa Questione Romana, sorta all’indomani della breccia di Porta Pia (20 settembre 1870). Non solo: c’era anche un’altra festa laica, 1l 4 novembre, che ricordava l’anniversario della vittoria nella Prima Guerra Mondiale e in cui si celebrava anche la festa delle Forze Armate.

Ma nemmeno le feste religiose, in passato, erano considerate intoccabili: per un periodo, credo negli anni ’80, le vacanze natalizie duravano di meno: si ritornava sui banchi di scuola il 2 gennaio in quanto la festa dell’Epifania era stata spostata alla domenica successiva. L’esperimento durò poco per le proteste degli studenti e delle famiglie. Noi docenti ci siamo sempre distinti per lo spirito di adattamento.

Ora, il problema non è festeggiare o meno un evento del passato. Quello vero è che, spostando la data, la festa perde ogni significato. Che senso ha festeggiare il 25 aprile al 29, il 1° maggio al 6 e il 2 giugno al 3? E poi io avrei una domanda per il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini: come la mettiamo con il calendario scolastico già fissato, sia a livello nazionale sia regionale?

LEGGI ANCHE L’ARTICOLO CORRELATO: LA MANOVRA DI FERRAGOSTO E LA SCUOLA: I PENSIONAMENTI SLITTANO DI UN ANNO

AGGIORNAMENTO DEL POST, 16 AGOSTO 2011

Scusate, dicono che il 2 giugno forse rimane dov’è (visto che cade di sabato e disturba poco) e che le altre feste potrebbero essere anticipate: il 25 aprile al 23 e il 1. maggio al 30 aprile (LINK). A parte il fatto che a casa mia mi hanno insegnato che le feste si posticipano e non si anticipano (per questioni di superstizione, credo), ma anche fosse, che differenza fa? M’immagino già un bel ponte di fine aprile! 🙂

NUOVO ARTICOLO CORRELATO: 2 GIUGNO: PARATA SI’ PARATA NO … EPPURE NEL 1976

NATALE CON I TUOI E PASQUA … ANCHE!


La mia è sempre stata una famiglia unita. Unita e allargata, ma non nel senso che intendiamo noi oggi. I miei genitori sono sposati da cinquantotto anni, nessun/a nuovo/a compagno/a, nessun/a figliastro/a, nessun divorzio in famiglia, almeno nell’ambito della parentela diretta.
I miei genitori hanno sempre attribuito un valore profondo all’unità familiare. Sono stati l’elemento di coesione tra il nostro nucleo familiare (mamma, papà, figlio, figlia, nonna) e il resto del parentado. Fin da giovanissimi, i miei hanno sempre frequentato i cugini di entrambi e da questa amicizia sono nati dei matrimoni stranissimi, almeno ai miei occhi di bambina: mia nonna e una delle sue sorelle, ad esempio, hanno sposato due fratelli; uno dei cugini di mia mamma ha sposato la sorella di mio papà; una cugina di mia mamma ha sposato il fratello di mio papà. Insomma, come dice spesso mio marito, che mai è riuscito a destreggiarsi tra l’intricata parentela, un bel casino. Nel senso buono, naturalmente.

Ad ogni festa comandata, ci si incontrava tutti, a casa dell’uno o dell’altro. La domenica si usciva tutti assieme e io potevo giocare con le mie cugine, cosa che gradivo particolarmente avendo un fratello più grande che non è mai stato per me un compagno di giochi. D’estate si andava al mare la domenica e ogni famiglia portava qualcosa: ricordo ancora le lasagne della zia paterna e i dolci di quella materna, oltre, naturalmente, alle superbe melanzane impanate di mio papà. Un menù poco adatto per una giornata al mare, ma si usava così.

Due alberi genealogici che s’incrociavano, fino a formare un’unica grande pianta dai rami rigogliosissimi. Eh sì, perché, avendo dei cugini molto più grandi di me, ho vissuto la nascita dei pro-cugini e anche loro sono stati per me compagni di giochi. Diciamo che per loro io ero una specie di piccola mamma: me li stringevo al petto, li cullavo, fino ad addormentarli, cantavo per loro sulle note del juke box. Ho manifestato con loro i primi segni della mia vocazione: fare la mamma. Poi sono cresciuti e le mie cugine me li mandavano a lezione, intuendo fin d’allora che avevo un’altra vocazione: quella dell’insegnante.

Quando ripenso a come sono cresciuta io, un po’ mi sento in colpa nei confronti dei miei figli. D’altra parte, riflettendoci, non è stata del tutto colpa mia. Loro non sono cresciuti in simbiosi con i cugini, un po’ per la distanza (siamo, infatti, un po’ sparsi qui e là, non viviamo tutti nella stessa città) e un po’ perché nella famiglia di mio marito non c’è mai stata una frequentazione assidua con gli zii e i cugini. L’incontravo, e li incontro, solo in occasioni particolari: matrimoni, battesimi, anniversari, comunioni, cresime e funerali. Come se fosse una specie di parabola: nascita, crescita e morte. Non è il massimo, effettivamente.
Così i miei figli non hanno dei rapporti speciali, come li ho avuti io, con i loro cugini. Si sentono, si scrivono messaggi, a volte si incontrano per qualche ritrovo. Nulla di più.

Pensando alle feste, come ho detto, ci si trovava sempre tutti assieme: Natale o Pasqua, non faceva differenza. Per questo, almeno fino all’adolescenza, non ho mai pensato che ci fosse alcuna distinzione tra una festa e l’altra, nel senso che davo per scontato che si dovesse passare tutti assieme entrambe le ricorrenze. Crescendo, soprattutto dopo aver incontrato mio marito, ho iniziato ad allontanarmi da casa per Pasqua, ma andavo in montagna con quelli che poi sono diventati i miei suoceri e con le cognate. Sempre in famiglia stavo.

Dopo il mio matrimonio, le cose non sono granché cambiate. Solo nel 1986, appena sposati, siamo andati a Roma per Pasqua, a trovare una coppia che avevamo conosciuto durante il viaggio di nozze. Poi, dopo la nascita dei figli, la regola era: il giorno di Pasqua con i miei e il Lunedì dell’Angelo con i miei suoceri. Regola che raramente abbiamo trasgredito (solo un anno siamo andati da soli, con i bambini, sulla riviera romagnola), anzi, più volte abbiamo festeggiato la Pasqua tutti assieme, con genitori e suoceri. Naturalmente quasi sempre mio fratello si è unito a noi.

I miei figli, invece, fin dall’adolescenza hanno fatto proprio il famoso detto “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”. D’altra parte è giusto che sia così. E proprio per rispettare la “mia” tradizione sono in partenza per l’Austria con mamma, papà, fratello, cognata, nipote e fidanzato, e naturalmente mio marito. Noi non trasgrediamo, i miei figli sì. Ma va bene così.

Colgo l’occasione per augurare una FELICE PASQUA A TUTTI.

[immagine tratta da questo sito]

A PROPOSITO DI CROCIFISSI … E MADONNE

edicola madonna
Ho letto su Il Giornale, un’interessante riflessione dell’antropologa Ida Magli dal titolo L’inutile Europa ci toglie pure il crocifisso. Rimando alla lettura del pezzo attraverso il LINK e mi limito a trascriverne un brano che, a parer mio, è molto significativo e non ha bisogno di essere commentato.

I politici che hanno progettato l’Unione europea hanno affermato che ci univamo perché eravamo uguali; ma nelle religioni non si è, non si può essere uguali, perché appunto, come le lingue, esse si differenziano in funzione della diversità dei popoli. Adesso, dunque, è giunto per l’Ue il momento più difficile: vivere l’unione senza isterilirci, senza morire. Questo significa per prima cosa salvaguardare i segni visibili dell’appartenenza religiosa. In Italia l’architettura, le rappresentazioni pittoriche, i crocifissi, le innumerevoli Madonne, fanno parte della storia, dell’arte, delle tradizioni di un paese che si è talmente alimentato, lungo lo scorrere dei secoli, della bellezza del Vangelo che sarebbe impossibile immaginare un S. Francesco senza il dolce paesaggio dell’Umbria, un S. Benedetto senza l’ordinata gravità del lavoro romano, un Raffaello senza l’innamorata contemplazione della Vergine Maria. Oggi si vogliono togliere i crocifissi dalle aule nelle scuole pubbliche; per proteggere, come si afferma, la libertà degli studenti. Ma anche le migliaia di edicole della Madonna, che proteggono i viandanti agli incroci delle strade, sono «pubbliche»; presto qualcuno, giustamente, vorrà che vengano eliminate. Guardiamo bene in faccia il prossimo futuro: se nell’Ue per essere liberi bisogna che in pubblico vengano cancellati tutti i segni che indicano un’appartenenza, questo significa che nessun popolo sarà più un popolo, salvo che si ritenga che possa farci sentire «Popolo» l’esposizione nelle scuole e agli angoli delle strade della faccia di Barroso. Il «privato» non crea un popolo, ed è questo che succederà: tutte le differenze saranno costrette a vivere, o a sopravvivere, nell’ambito del privato e l’Europa sarà debolissima perché saranno a poco a poco cancellati, anche nella memoria, i tratti distintivi che legano fra loro i popoli che la compongono.

I TRIESTINI COME I TALEBANI? NEANCHE PER SOGNO!

BAGNOStamattina mi sono imbattuta in un articolo de Il Giornale dal titolo shoccante: “SESSI SEPARATI IN SPIAGGIA. TALEBANI? NO, TRIESTINI”. Visto che sono triestina, non c’è voluto molto per realizzare che si stava parlando del famoso, almeno per noi, e mitico ‘bagno’ “Alla Lanterna”. Si tratta di un esempio unico in Europa e, vi assicuro, non ha nulla a che vedere con Talebani o mussulmani in genere. È semplicemente uno stabilimento balneare in cui la zona riservata alle donne, che occupa i due terzi dell’intera area, è separata da quella degli uomini. Il muro divisorio, rigorosamente bianco, prosegue per un tratto anche nel mare e ha un’altezza massima di ben tre metri, per poi degradare man mano che si fa strada verso il mare. Non è raro che, al largo, tra una bracciata e l’altra, gli sguardi maschili e quelli femminili s’incrocino, ma per il resto la separazione non solo è gradita, ma fa anche parte di una tradizione cui i triestini non intendono rinunciare. Anche a costo di essere tacciati per retrogradi, anacronistici, ridicoli e imbecilli … e sono solo alcune delle cose carine che ho letto sui commenti all’articolo de Il giornale sul sito internet.

Già, i triestini alle tradizioni sono molto attaccati, specie se riportano a quel periodo storico che ha visto come protagonista a Trieste l’impero Asburgico. Riguardo alla sua nascita le fonti sono discordanti: secondo alcuni lo stabilimento balneare sarebbe stato inaugurato nel 1890, secondo altri agli inizi del 1900. Il muro, forse eretto più tardi, nel 1906, doveva servire a proteggere quella che oggi modernamente chiamiamo privacy e ad impedire “atti contrari alla decenza”. Anche se questa divisione può sembrare anacronistica, vi assicuro che sia gli uomini sia le donne gradiscono molto la separazione tra i due sessi: i primi perché fanno volentieri a meno di ascoltare le “ciacole” (chiacchiere) delle donne e passano il tempo o da soli dedicandosi alla tintarella e al nuoto, o in compagnia facendosi una partita di briscola o tre sette; le seconde, che hanno la possibilità di portare con sé anche i bambini di entrambi i sessi, ma i maschi solo fino ai 12 anni, si godono il sole tranquillamente fregandosene altamente di “tette cadenti”, cellulite, smagliature e “rotoloni regina” attorno ai fianchi, libere di girare per la spiaggia in perizoma e in topless anche se hanno sessant’anni e un fisico lontanissimo dal modello pin up. Le ragazze, poi, specie quelle dotate fisicamente, si possono abbronzare in santa pace, senza essere assalite dai soliti “galletti” invadenti e sottraendosi agli sguardi impertinenti dei maschi bavosi. Volete mettere il vantaggio della separazione? E poi, visto che agli uomini le “ciacole” danno fastidio, sono ben liete di chiacchierare in santa pace, senza dover sopportare gli sguardi rivolti al cielo e gli sbuffi a ripetizione dei mariti, fidanzati, amanti che malvolentieri si adattano alla promiscuità quando ci sono di mezzo i pettegolezzi. Certo i signori uomini devono fare a meno di godersi lo spettacolo di qualche femmina avvenente, ma il vantaggio che dal muro di separazione deriva è senz’altro degno di qualsiasi rinuncia. Tanto ormai basta accendere la TV per rifarsi gli occhi, un tempo era diverso …

Una cosa, però, bisogna dire: a Trieste tutti conoscono “La Lanterna” ma praticamente il nome “italiano” non è mai usato. Per i triestini il “bagno” ha l’appellativo di “pedocin”. Anche sull’origine del nomignolo ci sono interpretazioni diverse: una riporta la parola “pedocin” al termine dialettale che tradotto significa “piccolo pidocchio” e farebbe riferimento ad una leggenda secondo la quale questo tratto di spiaggia sarebbe stato utilizzato dai soldati di Francesco Giuseppe che venivano a «spidocchiarsi» al mare. Non proprio romantica, come leggenda. Però è più probabile che il nome derivi da “pedoci“, che significa anche cozze; pare, infatti, che una volta nello specchio di mare dove ora sorge “La Lanterna” fossero coltivati i mitili nelle cosiddette “pedocere“.

Recarsi al “pedocin” è possibile tutto l’anno, anche se nell’ultimo periodo lo stabilimento è stato chiuso per un restauro, visto che cadeva praticamente a pezzi. L’assessore ai lavori pubblici e ai grandi eventi Franco Bandelli (quello della multa, per intenderci!) all’inaugurazione, avvenuta due giorni fa dopo i lavori di ristrutturazione, ha detto: «Abbiamo ristabilito il bagno originario inaugurato sotto l’Austria. I colori sono quelli dell’epoca: bianco e azzurro. Il muro è rimasto lo stesso, altro tre metri nel punto più basso. Sono state ristrutturate anche le panche, con il legno marino come un tempo». Per intenderci, il muro è bianco, mentre le porte, le finestre e gli sfondi dei porticati sono dipinti d’azzurro, come lo splendido mare che dalla spiaggia di ciottoli si può ammirare. Il vantaggio di questo stabilimento è quello di essere vicino al centro, nella zona del porto, e soprattutto di essere molto economico: attualmente l’ingresso costa 80 centesimi per tutta la giornata, nel senso che se uno vuole, può andare a casa a pranzo e poi tornare nel pomeriggio. Ma ci sono anche gli abbonamenti: 15 euro quello mensile e 50 per l’intera stagione. Prezzi popolari, dunque, ma non per questo il “pedocin” è snobbato dai benestanti. Ciò significa che l’attaccamento ad una tradizione prescinde da qualsiasi distinzione di classe.

I più assidui frequentatori sono, ovviamente , i pensionati. Ma, grazie alla comoda ubicazione e alla facilità di raggiungere il “bagno” con i mezzi pubblici, anche le commesse, le impiegate o le studentesse (ma ciò vale anche per gli uomini) lo frequentano durante la pausa pranzo. Nella parte femminile c’è anche un chiosco che vende bibite, gelati e snack vari, anche se la maggior parte degli avventori preferisce portarsi il pranzo da casa.
Ricordo con nostalgia i tempi in cui, studentessa universitaria, mi calavo dalla Facoltà di Lettere, molto vicina al porto, e mi crogiolavo al sole un paio d’ore per poi tornare intontita a studiare. Allora il biglietto d’ingresso era lo stesso … dell’autobus. Identica era anche l’obliteratrice. Visto che d’estate la dieta era, ed è, un obbligo, mi portavo quei beveroni schifosi, che poi erano pure caldi dopo ore passate in macchina sotto il sole, qualcosa tipo “Slim fast”, praticamente imbevibile. Ma non venivo tentata né dai sandwich né dai gelati che vedevo sfilare davanti a me, perché ero contenta dei miei sacrifici e soprattutto felice di godermi il sole primaverile o quello d’inizio estate, ascoltando la musica rapita dal vento a piccole radio sparse qua e là; erano i tempi dei Righeira e della loro Vamos alla playa, non lo dimenticherò mai.
In piena estate, però, trovare un posto per l’asciugamano è un’impresa davvero ardua. C’è chi va a stendere il telo da mare alle otto di mattina, poi va in ufficio e torna durante la pausa pranzo. Nessuno tocca niente e, visto che non ci sono spogliatoi ma solamente dei ganci dove appendere i vestiti sotto un porticato, è lodevole il fatto che ci si possa fidare a lasciare le proprie cose incustodite. Almeno, una volta era così, spero che le cose non siano cambiate.

La spiaggia è spartana; niente ombrelloni o lettini o sdraio a noleggio, ognuno si porta quel che gli pare. Gli affezionati lasciano addirittura là tutto il materiale da spiaggia, evitando l’incomodo di portarsi dietro ogni giorno tutto l’ambaradan, considerato anche il fatto che i più si spostano in autobus. Un tempo non era difficile trovare un posto per l’auto, ma ora praticamente il parcheggio è tutto a pagamento e si rischia di pagare il ticket ben più salato dell’ingresso allo stabilimento.
Nulla ostacola i triestini dall’andare al “bagno”; beh, detto così, il termine sembra ambiguo ma questo è il modo di dire comunemente diffuso a Trieste. Ricordo che una volta ho usato questo termine parlando con delle amiche milanesi; sono stata derisa così tanto che da allora, anche a costo di sembrare snob, evito di dire “vado al bagno” preferendo la più comune espressione “vado al mare”.
I triestini, dicevo, non perdono l’occasione di andare al “bagno”. Appena vedono il sole, come le lucertole sgaiattolano via da casa e non importa se i letti sono fatti, se il pranzo è pronto, se non c’è nessuno che va a prendere i figli a scuola, se si ha il raffreddore o la tosse … si va e basta, poi per il resto ci si arrangia. Le previsioni del tempo sono decisamente snobbate: al “bagno” si va anche se è nuvoloso, perché l’ottimismo dei triestini li porta a considerare il fatto che il sole può arrivare, magari si alza un po’ di borin, e che, nella peggiore delle ipotesi, ci si rifugia da qualche parte e si aspetta che il cielo si rassereni. Ricordo ancora le mattine passate, vestita di tutto punto, con in mano la tazza fumante del cappuccino, in compagnia della mia amica più cara con la quale andavo spesso al mare d’estate. Né io né lei triestine patoche (cioè veraci) ma a Trieste si vive così e l’atmosfera non può che essere contagiosa.

E allora, proprio perché Trieste è Trieste, e non esiste al mondo una città uguale a lei, nessuno osi criticare il bagno “Alla Lanterna”, o “pedocin” che dir si voglia, perché una tradizione asburgica non si può toccare. Anche Joyce prendeva il sole su quei sassolini, quindi il luogo non solo merita rispetto, ma è anche degno di essere elevato ad una sorta di monumento nazionale. E poi ciò che ricorda l’Austria è degno di venerazione, perché, come hanno scritto Carpinteri e Faraguna, “l’Austria era un paese ordinato” e “ordine” in greco si dice “cosmos” che poi vuol dire anche “bello”. Lasciate, allora, ai triestini le loro bellezze, compreso il “pedocin”. “Separare” non significa “tornare indietro”. Bisognerebbe forse interpretare la “separazione” guardando avanti: la libertà, per i due sessi, di incontrarsi, ma anche di evitarsi se è il caso.

[fonti: Il Giornale.it (articolo firmato da Fausto Biloslavo, dell’8 maggio 2009); La Repubblica.it (articolo firmato da Alessandra Longo, del 15 giugno1988); trivago; controcorrente satirica.com; vitanuovatrieste.it]