I MIEI RICORDI DI SCUOLA

Oggi si celebra la Giornata Mondiale degli Insegnanti. Avevo iniziato un post per il blog laprofonline ma ne è uscita una specie di pagina di diario che preferisco pubblicare qui, per riservare al mio blog sulla scuola una riflessione più seria.

La data del 5 ottobre è stata scelta perché nel 1966 si tenne un Congresso speciale, organizzato congiuntamente fra UNESCO e OIL (Labour International Organization), per elaborare ed adottare una “Raccomandazione” sulla condizione degli insegnanti.
Quella data mi ha riportato indietro nel tempo ed ecco qua i ricordi che mi ha risvegliato.
Un modo anche per ringraziare i miei vecchi insegnanti, quelli che lasciano una traccia di sé nel cuore degli studenti.
Buona lettura!

holly hobbie scuola
A quel tempo ero piccina e ho nella mente solo pochi fotogrammi che mi riportano all’infanzia. Ricordo, però, molto bene gli anni della scuola elementare, quelli della media e, infine, del liceo.

La mia maestra era una donna nubile, di mezza età, molto appassionata ed estremamente preparata su tutte le materie di studio. Erano gli anni del “maestro unico”, anche se la maggior parte dei docenti era di sesso femminile. Nella mia scuola, però, le classi non erano miste e la maestra o il maestro erano dei punti di riferimento rispettivamente per le femminucce e per i maschietti.
La mia insegnante elementare, tuttavia, era molto moderna, forse preparata dal punto di vista pedagogico e consapevole che i due sessi non dovevano essere per forza separati, a livello educativo il confronto poteva costituire una ricchezza, un’occasione formativa che l’austerità della scuola del tempo metteva in secondo piano con la “segregazione” imposta, in quanto poteva apparire sconveniente la promiscuità tra maschi e femmine.
Così lei e un maestro, che era anche il papà di una mia compagna, di tanto in tanto facevano lezione a “classi aperte”. Una metodologia didattica che, se calata in quegli anni, poteva apparire davvero all’avanguardia.

Non avrei dovuto, comunque, attendere molto per ritrovarmi in una classe mista: conclusi i cinque anni delle elementari, infatti, iniziò la mia avventura scolastica in compagnia anche dei maschi. Alcuni di essi, tra l’altro, li conoscevo già in quanto avevano frequentato la classe del maestro amico della mia maestra.
Il mio impatto con la scuola media fu contraddistinto da una sensazione di estremo disagio. Mi sentivo incompresa. Feci fatica ad ambientarmi, mi sembrava di non essere particolarmente apprezzata né dai compagni né dai docenti. Ero stata una scolara molto brava, studiosa, intelligente. La mia maestra tesseva di me elogi e mi prendeva a modello, cosa che tra l’altro mi metteva in imbarazzo, essendo io particolarmente timida. Però lei sapeva gestire bene il gruppo, era in grado di spronarci alla competizione in modo sano, senza invidie, capricci o ripicche.

Alla scuola media, specialmente il primo anno, non mi sentivo motivata e anche lo studio, che avevo sempre amato, finì per annoiarmi. Avevo, però, una professoressa di Lettere molto intelligente. Lei comprese che in qualche modo dovevo sentirmi protagonista. Nel senso buono, però, niente esibizionismo né superiorità, semplicemente avevo bisogno di distinguermi in qualcosa, di diventare un traino per gli altri.
La prof di Lettere lesse in me una propensione che io non sospettavo nemmeno di avere: aiutare chi è in difficoltà. Fu così che mi propose di organizzare delle visite a casa di un ragazzo più grande di noi ma che aveva una malattia che lo faceva apparire nostro coetaneo. Fu così che mi attivai e riuscì a formare, tra i compagni di classe, un gruppetto che andava un sabato pomeriggio al mese (forse anche di più, non ricordo bene) a far compagnia a questo ragazzo meno fortunato di noi. A soli 12 anni facevo la “volontaria” senza nemmeno sospettare che questo tipo di attività un giorno avrebbe avuto un posto importante nella società.

studenti sarah kayLa stessa professoressa, in terza media, mi affidò l’incarico di assistere un mio compagno, che soffriva di ricorrenti emicranie, portandogli i compiti e studiando con lui, affinché non rimanesse indietro nei lunghi periodi di assenza. La cosa non mi entusiasmò, soprattutto perché non lo conoscevo. Era stato inserito nella mia classe quell’anno – credo in seguito alla bocciatura dovuta, appunto, al suo stato di salute – e non pensavo fosse facile instaurare un rapporto di collaborazione con un perfetto sconosciuto. La mia prof senz’altro mi aveva scelta perché conosceva il mio spirito solidale e soprattutto per il fatto di essere praticamente una sua vicina di casa.
Tra me e quel ragazzo nacque una bella amicizia, forse da parte sua qualcosa di più. Da parte mia imparai che aiutare gli altri mi rendeva una persona migliore.

I ricordi del liceo sono sicuramente più nitidi. Devo, però, essere onesta: non sono proprio bellissimi.
La mia classe non era molto unita anche se mi sentivo un po’ a casa avendo ritrovato ben sette compagni della scuola media. Crescevo in fretta, troppo. Ero molto matura per la mia età, credevo di avere ben poco da spartire con i miei compagni, specie con i maschi che mi apparivano frivoli, un po’ sciocchi, troppo infantili. A parte qualche compagna che vedevo nei pomeriggi durante la settimana, frequentavo perlopiù gente più grande e i sabati pomeriggio li passavo a ballare in una discoteca improvvisata all’interno di un garage.

Dei miei professori ricordo con infinita gratitudine e molto affetto la professoressa di Lettere del ginnasio: buonissima, anche troppo, dolcissima, estremamente comprensiva, quasi materna. Per me, anzi, più materna della mia stessa madre, dato che lei era piuttosto severa e poco comprensiva. Non si sforzava nemmeno di capirmi.
Gli anni del ginnasio furono una passeggiata. Non mi ammazzavo di studio ma ottenevo ottimi risultati perché sapevo organizzarmi. Non ho mai sentito lo studio come una limitazione della libertà. Studiare era per me un piacere ma occupava uno spazio non troppo grande tra le altre mille attività in cui ero occupata, le tante passioni che mi davano enormi soddisfazioni.

studio sarah kayAl liceo (dal terzo anno, quindi) iniziai a comprendere che si doveva fare sul serio. Due professori presero il posto della mia amata prof di Lettere del ginnasio.
Quello che insegnava Italiano era buono e comprensivo, molto appassionato, estimatore di Dante, tanto da far passare in secondo piano la Storia della letteratura. Fu un male e un bene allo stesso tempo: mi trasmise la passione per il ghibellin fuggiasco, tanto da laurearmi in Filologia e Critica dantesca, e mi costrinse a studiare come una matta per superare brillantemente gli esami di Storia della letteratura alla facoltà di Lettere.
L’altro prof insegnava Greco e Latino, le mie due vere passioni. Era agli antipodi rispetto alla mia prof del ginnasio: severo ed esigente in modo fin quasi esagerato, serissimo, mai un sorriso una parola di incoraggiamento, anzi, usava spesso l’ironia per sottolineare le nostre debolezze. Sadico al punto da iniziare a distribuire i compiti scritti, dopo la correzione, non in ordine alfabetico, come faccio io, ma partendo dal voto più alto. Insomma, avete presente la fatidica frase: “per te Miss Italia finisce qui!”, pronunciata dal conduttore di turno del programma tv? Ecco, quando si arrivava al 6 e non si era stati ancora nominati, il mondo finiva lì. Fortunatamente non provai quasi mai quell’esperienza, una sola volta, mi pare, in una versione dall’italiano al latino, una vera croce a quei tempi.

Ecco, questi sono gli insegnanti che ricordo con maggiore affetto. Sono stati loro i miei maestri, in tutti i sensi. Dal primo momento in cui, poco più che ventenne, salii in cattedra, ciascuno di loro è stato per me un modello da seguire.

Dalla maestra ho imparato che la competizione, quella sana, può offrire stimoli e facilitare l’integrazione nel gruppo degli studenti più introversi, quelli che si sentono inadeguati.

La mia prof di Lettere della scuola media mi ha insegnato che gli studenti sono soprattutto persone, al di là dei voti segnati sul registro. Come tali hanno bisogno di non sentirsi soltanto dei numeri, di non essere giudicati solo per i voti che prendono perché il valore di una persona non è misurabile su una scala decimale. A volte è necessario investirli di qualche responsabilità per farli sentire “importanti”, persone di cui ci si può fidare.

La mia professoressa di Lettere del ginnasio mi ha insegnato a non esitare a mostrare di me anche il lato umano. Si può essere bravi insegnanti e rispettati nel proprio ruolo anche se, di tanto in tanto, si racconta qualche aneddoto personale o ci si confronta con le generazioni che ci scorrono davanti agli occhi iniziando con il detestato “Ai miei tempi …”.

Il mio professore di Italiano del liceo mi ha trasmesso un amore incondizionato per Dante. Soprattutto mi ha fatto capire che la “Divina Commedia” non sarà mai un’opera fuori luogo e fuori tempo perché permette di fare molti confronti con i tempi attuali e con tante altre discipline di studio.

inegnante sarah kay
Fra tutti, però, il modello di riferimento costante è il mio professore di Greco e Latino, nel bene e nel male.
Agli inizi della carriera non elargivo molti sorrisi, ero piuttosto austera, mi vestivo come una suora. Un po’ perché non dimostravo l’età che avevo e pensavo che un certo contegno autoritario mi avrebbe procurato la rispettabilità che credevo non fosse conciliabile con l’aria sbarazzina e spensierata che la mia giovane età mi avrebbe suggerito. Volevo essere come il mio prof ma mi sbagliavo. I tempi erano cambiati, semplicemente. Quando una ragazzina di seconda media mi fece notare che, al contrario della mia collega che insegnava in una classe parallela, non sorridevo mai e non offrivo mai loro le caramelle, mi fermai a riflettere. E cambiai … anche se non offro caramelle.
Ma quando spiego la letteratura latina, quando analizzo e traduco un passo d’autore, allora prendo il meglio di quel prof che, pur senza sorrisi, mi ha fatto amare così tanto la sua disciplina.

Infine ringrazio la mia maestra Alberta Penso, le professoresse Fulvia Tassan e Anna Buttazzoni, i professori Sergio Pirnetti e Sergio Daris. Assieme ai loro colleghi, che non ho citato e forse non hanno lasciato dentro di me una così vasta orma di sé, mi hanno accompagnato negli anni della mia infanzia e adolescenza e hanno fatto di me la persona ma soprattutto l’insegnante che sono.

[immagini Holly Hobbie da questo sito; immagini Sarah Kay da questo sito]

SCUOLA: BAMBINI VITTIME DEI BULLI O DEGLI/DELLE INSEGNANTI?

Stamattina, grazie ad una segnalazione che ho trovato in sala insegnanti al mio arrivo a scuola (come sempre con largo anticipo!), ho letto un articolo che Massimo Gramellini ha pubblicato sul quotidiano La Stampa, dal titolo Il bambino e il congiuntivo. Con la sua solita ironia, il giornalista faceva una riflessione su un caso emerso grazie a Flavia Amabile che, nel suo blog, ha pubblicato la lettera di una madre amareggiata perché il figlio di nove anni, bravo, intelligente ed educato, è da quattro anni, cioè dall’inizio della scuola elementare, vittima dei soliti bulli che lo prendono in giro per la sua “diversità”: si esprime, infatti, con un linguaggio curato e conosce perfettamente l’uso del congiuntivo. (QUI potete leggere il post che ho pubblicato sull’altro mio blog, laprofonline)

Ora, anche se ormai da mesi pubblico sull’altro blog gli articoli che concernono la scuola, vorrei fare qui una mia riflessione su questo episodio, prendendo in esame la lettera di questa mamma sfiduciata e la risposta della dirigente della scuola frequentata dal figlio. (QUI potete leggere entrambi i testi) Lo faccio in questa sede perché la vicenda ha risvegliato in me antichi ricordi e riaperto ferite mai rimarginate, risalenti alla mia esperienza di madre alle prese con gli insegnanti dei figli.

Scrive, dunque, la mamma del bambino oggetto di scherno, descrivendo l’esperienza del figlio all’inizio della scuola primaria, dopo un periodo felice passato in quella dell’infanzia:

Poi sono arrivate le elementari, e il suo piccolo incubo quotidiano. È arrivata la sua identificazione come un bambino “diverso”, perché usa il congiuntivo, non fa a botte, ha spesso delle cose da dire sugli argomenti trattati in classe. Da “diverso” a “bersaglio” il passo è breve: mio figlio vive da quattro anni giorni in cui la violenza (quella verbale più di quella fisica) fa parte delle sue giornate.
Ho parlato con le madri dei bambini interessati e la risposta è stata – in sintesi – “sono bambini”.
Ho parlato con le insegnanti e la risposta è stata – in sintesi – “sì, ma non se la può prendere per tutto, e se noi non cogliamo gli altri bambini sul fatto, non possiamo farci niente”.
Ho parlato con la preside e la risposta è stata – in sintesi – che avrebbe provveduto.
[…]
Mi chiedo come sia possibile non vedere, non sentire. Perché io lo vedo, come fuori dalla scuola questi bulletti in erba lo apostrofano. Più di una persona mi ha riferito di aver notato questi atteggiamenti nei suoi confronti.
È bizzarro che solo nelle mura scolastiche tutto ciò passi inosservato. Come se su 20 bambini su cui dividere l’attenzione uno sia sempre fuori fuoco, e quello sia sempre lo stesso. Come se il concetto di “vince il più forte” fosse nel programma di studi
.

Sono parole che fanno riflettere, che rimandano ad una scuola – elementare, per giunta! – in cui vige la regola del più forte, in cui chi è più debole, pur trattandosi di una debolezza solo apparente, non ha strumenti con cui difendersi, non ha alleati su cui contare. E non sto parlando di bambini.

Risponde la dirigente della scuola frequentata dal bimbo:

A proposito del comportamento dei compagni verso T. , la maestra mi ha riferito che, non appena accadono episodi di questo tipo, nei confronti di qualsiasi alunno della classe, l’intervento delle insegnanti è immediato nel richiamare gli autori del fatto. Fa parte infatti dell’operato delle docenti educare i bambini al rispetto reciproco e alla tolleranza nel rapportarsi quotidianamente tra di loro.

Dunque, le maestre avrebbero agito sempre in modo tempestivo, educando al rispetto e alla tolleranza. Avrebbero, in altre parole, fatto il loro dovere. Mi chiedo: se gli episodi continuano da quattro anni, forse l’aspetto educativo da solo non basta. Nonostante io sia convinta che, specie quando si ha a che fare con bambini piccoli, le punizioni dovrebbero essere evitate il più possibile, sono anche dell’idea che, qualora l’intervento prettamente educativo non sia sufficiente, si debba procedere, con i mezzi idonei e adatti all’età (che ignoro, non avendo mai insegnato alle elementari ma che delle maestre degne di questo nome devono saper utilizzare), a punire i diretti interessati. La punizione dei colpevoli, la giusta sanzione per una trasgressione (non è forse un trasgredire alle regole prendersi gioco ripetutamente di un compagno?) sono a volte gli unici mezzi, accanto all’educazione alla convivenza civile, con cui si possono ottenere dei risultati.

Prosegue la dirigente:

La docente in questione ha sempre operato costruttivamente; ha sempre goduto anche della stima dei genitori della classe, stima manifestata apertamente alla fine di ogni anno scolastico, anche con scritti inviati alla Dirigenza, auspicanti la permanenza della docente, incaricata annuale, nella classe anche per l’anno successivo.
Da ultimo, l’Istituto Comprensivo, di cui la scuola elementare di Via Fabriano fa parte, ha alle spalle una lunga tradizione di accoglienza, parte integrante del POF dell’Istituto, declinata attraverso iniziative e pratiche quotidiane di tolleranza, rispetto, solidarietà
.

Ed ecco entrare in scena i luoghi comuni e quel burocratese usato e abusato ogni volta che sia necessario difendersi dalle accuse. E vediamoli uno ad uno questi luoghi comuni.

Le insegnanti stimate. Che vuol dire? Che sono preparate culturalmente? Oppure che, accanto alle conoscenze, certamente apprezzabili, dei contenuti delle materie insegnate e delle corrette metodologie didattiche, hanno anche una adeguata preparazione nell’ambito della psicologia infantile e della psicopedagogia? Perché la preparazione culturale in assenza delle altre competenze vale ben poco.
E poi, se l’insegnante in questione è stimata ed apprezzata dagli altri genitori significa ben poco se anche una sola madre racconta vicende di tale gravità accadute sotto i suoi occhi. O forse la maestra è stimata perché lascia che i bulletti facciano la loro parte indisturbati, ed è quindi apprezzata dalle loro famiglie.

Altra nota dolente: il POF. Quando non si sa cosa dire, si tira fuori il famoso POF, documento imposto a tutte le scuole, di ogni ordine e grado, dal momento in cui si ha avuto la pretesa di equiparare le scuole a delle aziende. Una carta dei servizi arricchita dai contenuti disciplinari, nulla di più. Allora, siccome nel POF di quell’istituto sta scritto che la scuola ha una lunga tradizione di accoglienza che presuppone iniziative e pratiche quotidiane di tolleranza, rispetto, solidarietà, quel bimbo, che sa usare i congiuntivi ed è quotidianamente vessato dai compagni, deve adattarsi lui a quel tipo di accoglienza? Deve stare al gioco? Deve rispettare lui quel clima impostato sulla tolleranza, il rispetto e la solidarietà? Sta a vedere che è lui l’intollerante perché manifesta, anche se soltanto entro le mura domestiche, il disagio che gli deriva dal fatto di essere vittima di scherzi e atteggiamenti volti allo scherno. Scusate ma non capisco.

Man mano che procedo nello scrivere questo post mi rendo conto che l’argomento sarebbe stato più adatto al blog laprofonline. Ma, come avevo anticipato, questa vicenda mi ha riportato indietro nel tempo ed è giunta l’ora di raccontare la mia esperienza.

Il mio primogenito era uno scolaro vivace, curioso e attento fino alla terza elementare. Poi, sostituite due maestre su tre, le cose sono cambiate.
Durante l’inverno accadeva spesso che, arrivata l’ora di preparare lo zaino, al termine delle lezioni, e prepararsi per l’uscita, lui non trovasse berretto e sciarpa. Era sempre l’ultimo ad uscire e, dato che nessuna maestra aspettava la sua uscita, non capivamo mai il perché del suo ritardo. Poi, un giorno confessò che i suoi compagni gli nascondevano il berretto e la sciarpa, quindi doveva cercarli in ogni angolo dell’aula e qualche volta anche fuori, nei corridoi e nei bagni. Con grande insistenza riuscimmo a fargli ripetere la frase che la maestra gli aveva rivolto il giorno in cui lo vedemmo parecchio abbacchiato e volemmo conoscerne il motivo: “Ninin [appellativo con cui qui in Friuli ci si rivolge ai bambini in tono affettuoso, equivalente a tesoro … quel giorno, però, il tono della maestra doveva essere parecchio ironico] non posso ogni giorno stare qui ad aspettare che tu ritrovi i tuoi indumenti, devo andare a pranzo“. Detto questo, se ne andò.
A questo punto dovrei ricordare, per chi non lo sapesse, che le maestre hanno l’obbligo di attendere fuori dalla scuola finché l’ultimo scolaro sia stato prelevato, nonché accertarsi che le persone che vengono a prendere i bambini siano conosciute e autorizzate. Per un periodo dovetti delegare per iscritto la baby-sitter a prendere mio figlio al rientro pomeridiano, essendo io occupata nella frequenza di un corso all’università.
In seguito all’episodio descritto mandai mio marito dalla maestra. Volevo evitare il confronto, sempre sgradevole, tra insegnanti e gli raccomandai di tenersi calmo ma fermo nel manifestare la propria contrarietà riguardo all’atteggiamento assunto da quella insegnante nei confronti del bambino. Ritornò ancora più abbacchiato dei figlio. Mi riferì che la signora gli aveva detto, testualmente: “E’ suo figlio che si deve svegliare, altrimenti non imparerà mai a vivere”. Da quel giorno assistemmo al degrado irreparabile dei rapporti con quella e le altre insegnanti, perché lei era una specie di leader. Non protestammo mai, né oralmente né per iscritto, rivolgendoci al direttore, sperando che mio figlio se la cavasse da solo, mantenendo sempre un comportamento educato e nello stesso tempo indifferente nei confronti di giochini stupidi come quelli. Alla fine i compagni si stufarono.

E che dire quando un insegnante diventa bullo a sua volta? L’episodio riguarda il mio secondogenito, di tutt’altro carattere rispetto al fratello: vivacissimo, deciso, testardo, intraprendente … ho finito gli aggettivi ma, pregi o difetti che fossero, ne aveva in quantità impressionante. La vicenda ebbe luogo in seconda media.
Terminata la lezione di educazione fisica, arrivato nello spogliatoio il mio piccolo (lo chiamo così tuttora che ha 22 anni!) non trovò più i suoi vestiti. Non era l’unico, comunque. Cerca che ti ricerca, lui e i suoi compagni trovarono gli indumenti nelle tazze dei water. Subito si rivolsero al docente, raccontando l’accaduto. Lui scoppiò a ridere e, senza smettere, li mandò in aula. Pensate che sia finita qui? No. Mio figlio e gli altri, non avendo avuto alcun supporto da parte del professore, si recarono, in pantaloncini corti e canotta (abbigliamento con cui tornò a casa alla fine delle lezioni … era marzo!), in presidenza. Raccontarono il fatto e il preside chiese subito a chi avessero chiesto il permesso di parlare con lui, se all’insegnante di educazione fisica o quello dell’ora successiva. Risposta: “a nessuno, il prof N. ci ha riso dietro e siamo venuti qui direttamente”. Risultato: mio figlio fu sospeso per due giorni dalle lezioni per insubordinazione. Gli altri no perché lui fu accusato di averli sobillati.
E i responsabili della bravata? Mai scoperti. Non chiedemmo neppure i danni per la tuta da ginnastica “finita” nel water e ovviamente facemmo una lavata di capo a nostro figlio che comunque avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione per conferire con il dirigente.

Altro episodio, sempre con protagonista il piccolo e il docente di educazione fisica, alla fine della terza media. Ultimo giorno di scuola, prima dell’inizio delle lezioni: mio figlio si trovava in cortile, pronto a varcare il portone d’ingresso, quando gli finì addosso un gavettone (effettivamente un secchio colmo d’acqua) gettato dalla finestra dell’aula insegnanti. Gliel’aveva tirato il professore di educazione fisica che, anche in quella occasione, scoppiò in una fragorosa risata. Mio figlio tornò a casa per cambiarsi e pretese di essere riaccompagnato a scuola dal padre senza giustificazione scritta perché, diceva, “mica ho fatto ritardo per colpa mia, io ero già davanti alla porta, pronto per salire in classe”. Anche in quell’episodio fu lui la vittima: non solo il preside pretese ugualmente la giustificazione per il ritardo ma gli fu anche detto che si trattava in fondo di uno scherzo innocente, da ultimo giorno di scuola. Peccato che fuori ci fossero 15 gradi e che a scuola non potesse disporre di una stufa per asciugarsi gli abiti inzuppati.

Ecco, allora io mi chiedo: perché i genitori devono sempre stare zitti (per evitare ritorsioni) e se parlano non vengono mai creduti?

VIOLENZA DI GRUPPO IN CLASSE MENTRE IL PROF INTERROGA

A leggere la notizia si rimane a dir poco basiti. Non tanto per il fatto in sé – le cronache, infatti, ci riportano spesso fatti del genere, purtroppo – , quanto per l’assoluta incredibilità di quanto è successo, in una scuola media, in aula, durante la lezione, senza che l’insegnante in cattedra si accorgesse di nulla.
È successo a Salò, in provincia di Brescia. La vittima di una violenza di gruppo è una ragazzina; i carnefici sono poco più che bambini: un tredicenne (presumibilmente, visto che uno dei colpevoli ha meno di quattordici anni), un quattordicenne e un quindicenne; complici sono altri dodici compagni di classe più o meno coetanei.

I fatti sono andati così, almeno stando a quanto riportato da Il Corriere: durante un’ora di lezione, mentre il professore stava interrogando (presente in classe, dunque!!!), tre alunni si sarebbero denudati di fronte ad una compagna di classe e l’avrebbero costretta ad un rapporto orale (in realtà, secondo quanto detto dai genitori della vittima, non consumato). Per “passare inosservati”, i violentatori hanno ottenuto la complicità di altri dodici ragazzini che avrebbero fatto da paravento. E ci sarebbero riusciti così bene che il professore, interrogato dai carabinieri, ha ammesso di non essersi accorto di nulla.

L’episodio di violenza, accaduto a febbraio ma reso noto solo ora, è stato scoperto grazie ad un tema che un insegnante ha fatto svolgere: un espediente per capire se le voci, che nel frattempo si erano diffuse, fossero vere. E infatti sono state confermate dando l’avvio alle indagini.
I ragazzi di quattordici e quindici anni sono stati arrestati, mentre il più giovane è a piede libero. Naturalmente i complici la faranno franca in sede penale, ma si devono aspettare quanto meno un provvedimento disciplinare dal Dirigente Scolastico. Discutibile, poi, la decisione della preside di sospendere anche la vittima dell’abuso, in attesa che sull’episodio sia fatta chiarezza. Per quanto riguarda l’insegnante, gli investigatori hanno informato l’autorità giudiziaria affinché valuti l’opportunità di un provvedimento nei suoi confronti. A questo punto, voglio sperare che, oltre ad una denuncia penale (non dimentichiamo che i ragazzi sono affidati alla tutela degli insegnanti durante la permanenza a scuola), il docente in questione sia sospeso dall’insegnamento.

Non smetterò mai di chiedermi cosa facciano certi docenti in classe. Forse io sono troppo esigente se pretendo attenzione continua anche durante le interrogazioni? Sono addirittura un mostro se punisco chi non sta attento alle interrogazioni e non corregge i compiti svolti a casa? Non credo di fare nulla di eccezionale: svolgo semplicemente il mio lavoro, stando attenta che i ragazzi non si facciano del male e, attraverso il mio atteggiamento rigoroso, offro un esempio che ritengo possa contribuire ad una corretta formazione degli adolescenti.

Certo, nessuno è perfetto e nemmeno io lo sono. Ma non credo sia tanto difficile evitare di essere presi per i fondelli da una masnada di ragazzini.

SCUOLA: FESTA IN AULA, FANNO UBRIACARE IL COMPAGNO E ABUSANO DI LUI

Ci sono notizie che non si vorrebbe mai leggere. Specialmente qui, in questo tranquillo angolo del nord-est in cui la cronaca nera, specie se interessa i minori, non è sempre così nera.
Quando varco il portone di scuola la mattina e guardo gli studenti arrivare a frotte, mi sento quasi fortunata: mi tengono la porta, mi chiedono scusa se involontariamente mi urtano, salutano quasi sempre … la maggior parte di essi è davvero educata. Poi ci sono sempre le eccezioni, non c’è da stupirsene. Ci sono quelli che tentano di fregarti l’ascensore sotto il naso (loro non possono usarlo, se non per giustificati motivi e con regolare autorizzazione firmata dal Dirigente Scolastico) o, appena mi vedono arrivare, fanno finta di zoppicare per salire con me. Qualcuno non saluta, è vero, anche degli ex allievi che, non si sa perché, ma non appena si smette di essere una loro insegnante, hanno chiuso qualsiasi rapporto. Ma è anche vero che ci sono colleghi non salutano mai, quindi non mi stupisco dei ragazzi che seguono l’esempio di certi adulti.

A scuola, in tutte le scuole, ci sono molti divieti: non si fuma all’interno dell’edifico scolastico, non si sporcano le aule e i corridoi, non si urla quando ci si trasferisce dalla propria aula in un laboratorio, non si fa chiasso aspettando che arrivi l’insegnante e si chiede sempre il permesso di uscire durante le ore. Quando non ci si comporta a dovere, scatta la nota e, nei casi più gravi, c’è la sospensione talvolta integrata dalle cosiddette “attività socialmente utili”. Nella mia scuola non c’è stato nessun cinque in condotta e dire che gli allievi sono quasi 1400. Non ci si può lamentare, dunque.

Quando si ha l’impressione di stare in un piccolo paradiso e si leggono fatti di cronaca raccapriccianti che accadono nelle altre scuole, allora ci si convince di essere fortunati. Ma a pochi chilometri da qua, a Trieste, è successo qualcosa che, almeno a me, sembra del tutto inconcepibile in questo piccolo angolo di mondo. Leggo sul quotidiano Il Piccolo che in un istituto superiore di Trieste un quindicenne, durante una festa in aula (!), è stato fatto ubriacare da quattro compagni suoi coetanei che poi hanno abusato di lui sessualmente.
Scuola e protagonisti sono top secret, com’è giusto che sia. E il fatto sarebbe passato sotto silenzio –pare, infatti, che nessuno si sia accorto dell’accaduto- se due dei ragazzini non si fossero pentiti e non avessero raccontato l’episodio alla Preside.

Quello che stupisce, però, è leggere che il fatto è accaduto nel corso di una festa svoltasi nell’aula al termine delle lezioni e pare che l’episodio si sia trasformato in un vero e proprio atto criminale per colpa anche di una cassa di birra entrata non si sa come nell’istituto scolastico.
A questo punto mi chiedo: come hanno fatto questi quattro delinquenti (mi si perdoni, ma è l’unico vocabolo che riesco ad usare per definirli) a portare addirittura una cassa di birra a scuola? E chi ha dato l’autorizzazione di fare una festa in aula al termine delle lezioni? Credo nessuno perché sarebbe davvero inconcepibile. Vale la pena di ricordare che gli allievi, a maggior ragione se minorenni, dovrebbero essere accompagnati fino all’uscita di scuola o quanto meno l’insegnante dovrebbe controllare che l’aula rimanga vuota prima di allontanarsi. E poi, i bidelli (ops, collaboratori scolastici!) dov’erano? Non si usa, forse, in quella scuola pulire e riordinare le aule al termine delle lezioni? E nessuno ha visto che nei locali veniva introdotta addirittura una cassa di birra?

Nell’articolo firmato da Claudio Ernè si legge che i quattro studenti autori delle violenze sono già stati cautelativamente allontanati dalla scuola, mentre il ragazzino che è stato coinvolto in questa vicenda ha bisogno di una assidua e prolungata assistenza psicologica. Deve superare l’incubo in cui incolpevolmente è stato sprofondato da ragazzi della sua stessa età.
Ora, senza voler risultare troppo critica, mi chiedo: forse qualche punizione, e magari un supporto psicologico, non farebbe bene anche agli insegnanti e al personale della scuola?

[foto da Repubblica.it]

AGGIORNAMENTO DEL POST, 8 MARZO: SARA’ APERTA UN’INCHIESTA

Sulla Homepage del Il Piccolo di oggi, vengono resi noti i risvolti di questa sconcertante vicenda:

Presenteremo in Procura una denuncia per far aprire l’inchiesta sulle violenze sessuali esercitate su un ragazzo di 15 anni da quattro compagni di classe”. Lo ha affermato l’avvocato che assiste la famiglia della vittima. La vicenda che Il Piccolo ha reso nota risale a due settimane fa e nessuno finora aveva attivato né il sistema scolastico, né gli inquirenti. [LINK]

Nelle pagine interne, inoltre, si legge:

Deciso a rompere il muro d’omertà l’avvocato del ragazzo che ha subito violenze. Lunedì sarà aperta un’inchiesta. [LINK]

Io credo che sia il minimo pretendere di far chiarezza sul fatto. Ma, evidentemente, le scuole non si vogliono esporre: questa mattina a Buongiornoregione del Friuli-Venezia Giulia, la giornalista Marinella Chirico ha reso noto che, fatto il giro degli istituti superiori cittadini, la Polizia che sta indagando si è trovata di fronte ad una totale chiusura: pare che in nessuna scuola il fatto sia successo. A questo punto, quando la verità verrà a galla, le sanzioni non si faranno attendere. Trovo assolutamente disdicevole mettere a tacere un fatto così grave per coprire quelle persone -docenti e ATA- che hanno dimostrato uno scarso senso di responsabilità. Vale la pena di ricordare che la responsabilità penale è personale, come gia detto altrove. [LINK]

AGGIORNAMENTO ORE 20.44
Al Tg3 del Friuli-Venezia Giulia hanno smentito che il fatto sia accaduto in una scuola, tanto meno in una classe. Pare, infatti, che i protagonisti di questa sconvolgente vicenda frequentino una scuola professionale per l’edilizia e che l’atto di bullismo sia avvenuto in un cantiere dove gli studenti stavano facendo pratica, al termine di una giornata di lavoro.
Ora la faccenda sembra più credibile: si spiega, quindi, il motivo per cui alla polizia i Dirigenti delle scuole ispezionate avevano negato che il fatto fosse avvenuto nelle loro aule. D’altra parte, io stessa avevo espresso nel post il mio stupore in quanto non credo possa accadere qualcosa del genere nei locali scolastici al termine delle lezioni.
Ciò dimostra che alla stampa è meglio non dar credito, soprattutto quando mettono in prima pagina una notizia che attira l’attenzione dei lettori, senza prima aver appurato la corretta ricostruzione dei fatti riportati.
Mi scuso con i miei lettori e aggiungo che, indipendentemente dal luogo in cui si è attuato l’abuso nei confronti del giovane studente, il fatto in sé rimane gravissimo, specie per il coinvolgimento di ragazzi così giovani.

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L’IMPROBABILE SEXY PROF DI LATINO BELEN E L’ANCOR PIÙ IMPROBABILE PADRE GALLETTO DE SICA

telefonoLa pubblicità è l’anima del commercio, lo sappiamo. Uno spot dovrebbe, in teoria, presentare il prodotto in modo accattivante per indurre il consumatore ad acquistarlo. In gergo si chiama, anche, “persuasione occulta”. Infatti, quando andiamo al supermercato, ad esempio, mentre con il carrello percorriamo i corridoi immersi tra le scaffalature che contengono ogni ben di dio, è inevitabile che ci frulli nella mente il jingle o la scenetta che rimandano alla pubblicità di un dato prodotto. Fin qui, nulla di nuovo. Ma stiamo parlando di prodotti di consumo, quelli di cui potremmo fare benissimo a meno, che, tuttavia, acquistiamo con la certezza che poi il conto sarà più salato ma nello stesso tempo avremo approfittato delle “superofferte” che altro non sono che un’altra “persuasione” molto meno occulta della pubblicità stessa.

Ma nella vita di tutti i giorni non andiamo solo a fare la spesa. Oltre che lo stomaco, riempiamo la casa di oggetti “tecnologicamente avanzati” di cui potremmo fare benissimo a meno perché, in quel caso, lo stomaco non li reclamerebbe. Quelli sì che son soldi spesi inutilmente.
Cellulari, p.c. e internet fanno parte della nostra vita anche se non ce li mangiamo. Anche se non sono indispensabili -o quanto meno, non è indispensabile cambiarli spesso- si dà il caso che in Italia l’acquisto dei prodotti elencati sia spropositato: nella mia famiglia, solo per fare un esempio, ognuno ha il suo cellulare e il suo pc, non solo, nel cassetto giacciono almeno otto cellulari vecchi, perfettamente funzionanti, che sono stati messi in pensione solo perché non più tanto di moda (almeno quelli dei miei figli). Per ogni telefonino “funzionante” c’è un contratto con il gestore telefonico che ciascuno di noi preferisce. Ma si dà il caso, ancora una volta, che non appena uno sceglie la tariffa più conveniente, ne esce fuori subito un’altra ancora più economica. Che fare? Io personalmente mi tengo la tariffa che ho scelto nel lontano 1998… mai cambiata. Sono scema? Forse sì, ma sono soprattutto pigra e poi, onestamente, sono una che dalla pubblicità non si fa proprio prendere. Per me gli spot televisivi hanno solo un effetto soporifero: infatti, mentre sto guardando un film o una fiction alla TV, regolarmente mi addormento durante le interruzioni pubblicitarie.

Detto questo, se gli spot non influenzano più che tanto i miei acquisti, li osservo attentamente –sempre che rimanga sveglia- e li analizzo, anche perché immagini e testi sono a tutti gli effetti dei messaggi che vanno studiati. Alla fine dell’analisi, mi convinco che, al di là della bravura dei copywriter, quasi tutti sono molto ma molto scemi.
Ed eccomi arrivata all’argomento principale del mio post: l’ultimo spot della Tim che, pubblicizzando una delle tante tariffe superconvenienti, mette in scena un improbabile quadretto “scolastico” con protagonisti una sexy prof di Latino, Belen Rodriguez e un papà galletto, tanto per non smentire la fama degli uomini italiani, Christian De Sica. Bene, la scenetta, per me che sono una prof, per giunta di Latino, e ho a che fare quasi quotidianamente con i genitori dei miei allievi, è a dir poco idiota. Vi spiego perché.

In primo luogo, se esistono, com’è ovvio, delle giovani insegnanti di Latino anche avvenenti, il cliché rimane, nell’immaginario collettivo, quello di una docente di mezza età, un po’ appesantita dalla menopausa, con gli occhialini da presbite perennemente attaccati alla catenella che poggia sul seno a volte un po’ cadente, quando non stanno sul naso, e la matita a due colori, rosso e blu, pronta a deturpare le “splendide” prove degli allievi. Sarei un po’ troppo severa con me stessa se mi identificassi totalmente nel ritratto appena fatto, ma devo dire che alcune delle caratteristiche descritte già ce l’ho, ahimè! Però anch’io sono stata una giovane, anzi giovanissima, insegnante e anche un po’ avvenente. Il fatto è che mentre ora cerco in tutti i modi di allontanarmi dal cliché sopradescritto, cosciente del fatto che mi ci sto tuffando dentro anche se involontariamente, allora mi sforzavo di apparire meno giovane e carina perché mi pareva che fosse l’unico modo per essere “credibile”. Non potete immaginare quante volte ho sentito, pronunciata dal solito genitore ipercritico e un po’ diffidente anche senza motivo, la frase “Lei è così giovane …”. E devo dire che tale frase l’ho sentita fino a pochi anni fa, fortunatamente. Evidentemente m sto avviando irrimediabilmente verso il cliché di cui sopra oppure sono i genitori ad essere un po’ cambiati. Spero sia valida la seconda ipotesi.

Quando avevo l’età di Belen, se un papà mi si fosse presentato dicendo “pater istruitus filius purem” non mi sarei sottratta al colloquio, in quanto i rapporti con le famiglie rientrano nella funzione docente quindi non se ne può fare a meno, ma se poi mi avesse chiesto il numero di telefono (allora il cellulare non esisteva!) probabilmente l’avrei mandato dal preside (allora si chiamava così, non Dirigente Scolastico come adesso). Credo che ciò valga tuttoggi per le giovani prof, di Latino e non.
Ciò non toglie che a volte anch’io ho avuto l’impressione che qualche papà fosse più interessato alla mia persona piuttosto che a ciò che avevo da comunicare sul profitto del figlio. Ma mai nessuno mi ha, come si suol dire, spogliato con gli occhi. A parte, forse, un padre che, avendo per una volta mandato al colloquio la moglie, non s’è più fatto vivo. La signora, infatti, quando mi ha vista si è affrettata a dirmi: “Adesso capisco perché mio marito, che di solito manda me ai colloqui, si è sempre preso dei permessi dal lavoro per venire a parlare con Lei!”. Non l’ha detto, ma di sicuro l’ha pensato: “non lo mando più”. E così è stato. Insomma, anch’io ho avuto, per una volta, la mia bella soddisfazione, e che soddisfazione! Non c’è cosa più gratificante, per una donna, del suscitare la gelosia in un’altra donna. Altro che Belen e la sua … perifrastica!

LE MIGRAZIONI DEI PROF: ECCO IL PERCHÉ

valigieMe ne sono occupata anche in un recente articolo che riguardava la mia regione. Ora, dopo aver raccolto altre informazioni, ho voglia di riparlarne.

Nell’ultimo periodo, specie con l’approssimarsi della riapertura delle scuole, non si fa altro che parlare dei precari che rischiano di non avere l’incarico annuale come supplenti, nonostante abbiano alle spalle anni e anni d’insegnamento. Aspirare ad un “posto fisso” nella scuola è ormai un’utopia. Ma il problema investe tutti gli ambiti lavorativi e per i giovani, nonché per i meno giovani, non c’è altro modo per “campare” se non accettare dei contratti a termine. Ciò vale, dunque, anche per il mondo della scuola dove cambia la terminologia ma la sostanza rimane quella: “supplenza annuale” equivale a “contratto a termine”. E quando parliamo di precari della scuola, non dobbiamo tener presente solo i docenti, ma anche il cosiddetto personale ATA, ovvero ausiliare (gli ex bidelli, insomma), tecnico (cioè coloro che si occupano in prevalenza dei laboratori) e amministrativo (ovvero il personale di segreteria).

È di ieri la notizia che due coniugi casertani, entrambi precari della scuola (alcune fonti li definiscono “insegnanti”, altre facenti parte del personale ATA), nella triste se non disperata prospettiva dì trovarsi entrambi senza lavoro, si sono rinchiusi nell’Ufficio Scolastico della loro città e hanno minacciato di suicidarsi buttandosi dalla finestra. La perdita del lavoro, però, l’avrebbero potuta evitare: avevano, infatti, rinunciato ad un incarico in una scuola di Brescia, rassicurati da alcuni sindacalisti sulla possibilità di entrare in graduatoria a Caserta. Le cose, però, sono andate diversamente: avendo rinunciato all’incarico, sono stati esclusi dalla graduatoria di Brescia, senza riuscire ad entrare in quella di Caserta. Attualmente la protesta è terminata ed è stato annunciato un incontro tra il Prefetto e i rappresentanti sindacali.

Certo, la questione della “transumanza” degli insegnanti è alquanto spinosa. Ma è un problema che, secondo il ministro del MIUR Mariastella Gelmini, deve avere una soluzione. In un’intervista a Il Giornale del 30 luglio, il ministro afferma: Basta con il viavai dei professori che cambiano scuola ogni anno, facendo la spola da una regione all’altra, da una città all’altra. Voglio rivedere questi meccanismi. Ovvio che faremo attente verifiche ma il mio obiettivo è quello di sostenere la continuità didattica, voglio chiudere l’epoca degli insegnanti stagionali.
Eh già, perché se per i docenti costretti a migrare da settembre a giugno la situazione diventa insostenibile anche a causa dei costi che una supplenza fuori sede e così lontano comporta, senza parlare delle complicazioni a livello familiare, anche per gli allievi non è il massimo. Spesso, infatti, i prof cambiano scuola ogni anno e la cosiddetta continuità didattica va a farsi friggere, come si suol dire. È un disagio non da poco per bambini e adolescenti, perché il “via vai” dei docenti si verifica ad ogni livello d’istruzione, dalla scuola per l’infanzia a quella secondaria di I e II grado.

Tuttavia, non sono solo i prof a spostarsi in continuazione, un anno qua un anno là. Anche molti presidi che prestano servizio al nord provengono dal sud. Ciò comporta un aggravarsi della situazione perché la gestione della scuola, specie degli istituti grandi, è complessa e sono necessarie delle sinergie tra le varie componenti che, non appena raggiunte, vengono meno e ogni anno si deve ricominciare. Il ministro, in un’altra intervista (del 18 agosto), dichiara: La scuola non può essere un parcheggio temporaneo dove si aspetta di andare da qualche altra parte. I dirigenti dovrebbero restare un periodo di tempo sufficiente a gestire una programmazione organica.
Per arrivare a ciò, sempre secondo la Gelmini, bisogna legare la presenza sia dei dirigenti sia dei professori a un numero maggiore di anni, non meno di due o ancor meglio tre. Certo, sembra facile ma in effetti non lo è: nell’ambito della mobilità del personale della scuola, i trasferimenti sono annuali. Quindi, a buon diritto i dirigenti scolastici meridionali entrati di ruolo al nord, non appena seduti alla scrivania della nuova presidenza, hanno bell’e pronta la domanda di trasferimento per avvicinarsi a casa. Chi non lo farebbe? Ciò vale anche per i docenti, prevalentemente supplenti.

I dati riportati da Il Giornale stimano l’arrivo a settembre, nella sola Lombardia, di un centinaio di dirigenti scolastici, vincitori di concorso al sud che, in mancanza di sedi disponibili nelle loro regioni, devono fare il “trasloco”. Se consideriamo che molti hanno alle spalle una lunga carriera nell’ambito dell’insegnamento e con grandi sacrifici sono riusciti a raggiungere una sede comoda, vicina a casa, in questo modo è come se iniziassero tutto da capo con la sola, non trascurabile, differenza che lo stipendio di un preside è molto più alto di quello di un docente, quindi possono affrontare la migrazione con più serenità, almeno dal punto di vista economico.

Ma, al di là delle parole del ministro –sono i fatti che contano e tra il dire e il fare …- è legittimo chiedersi come mai ci sia questo continuo spostamento del personale della scuola, a tutti i livelli, dal sud al nord. Nel meridione non ci sono scuole? Oppure le cattedre sono poche rispetto agli insegnanti abilitati? Oppure che cosa? Ecco che, incuriosita da questo strano fenomeno, per caso mi sono imbattuta in un articolo de Il Corriere, non recente in verità, ma sicuramente emblematico. Ho così scoperto che al sud c’è una strana solidarietà nei confronti dei giovani docenti che non hanno possibilità di entrare in graduatoria nelle loro regioni, specie in Campania, né hanno piacere di sottostare alle regole della “transumanza” sopradescritta: scuole private altamente caritatevoli offrono loro un posto, delle cattedre di 18 ore teoricamente ma in pratica si arrogano il diritto di farli lavorare anche più di 30 ore a settimana. Quest’apparente opera di beneficenza, però, fa del bene solo alla scuola perché i docenti prestano servizio gratuito o sono pagati due o trecento euro al mese. Ma allora, vi chiederete, dove sta il vantaggio dei docenti? Perché se è vero che l’insegnamento è anche una missione, i docenti non sono del tutto scemi né sono Madre Teresa di Calcutta. In sintesi: in cambio di questa sorta di attività servile (da servus latino = schiavo), i mal o ben capitati, a seconda dei punti di vista, ottengono la possibilità di avere dei punti preziosi per entrare in graduatoria e sperare, un giorno, in un contratto a tempo indeterminato (ex ruolo). Shoccante, è vero, ma reale. Ci sono delle testimonianze. Ve ne riporto parzialmente alcune.

M. è una trentenne che da quasi tre anni lavora in un istituto primario paritario che si trova nell’agro nocerino-sarnese, area a metà strada tra Salerno e Napoli. Ha iniziato ad insegnare grazie alla “solita raccomandazione”. Della sua esperienza racconta: Già il primo giorno è stata chiara [la preside]: mi ha detto che a fine mese avrei dovuto dichiarare di aver ricevuto il compenso ordinario firmando la busta paga, ma mi sarebbero stati concessi solo 300 euro. Sono costretta a firmare e a dichiarare il falso perché questa finta retribuzione garantisce il pagamento dei contributi previdenziali, condizione necessaria per l’attribuzione dei 12 punti annuali in graduatoria.

Molto simile la storia di S. che dice: Lavoravo fino a 30 ore alla settimana e a fine mese l’istituto mi pagava solo 200 euro. Questo calvario è durato ben sei anni. […] Nella scuola vi erano oltre trenta docenti e la maggioranza si trovava nelle mie stesse condizioni. […] Mi dispiace dirlo, ma senza i compromessi accettati nella scuola privata, oggi non lavorerei in un istituto pubblico.

Poi c’è G. che fa il resoconto della sua esperienza: L’anno scorso ho lavorato l’intero anno e poi non mi hanno più chiamato. Non ricevevo nemmeno un euro come adesso, ma dovevo fare quasi 50 km in macchina per arrivare a scuola. G. non è ancora abilitato e ricevere questo nuovo incarico gli sembra una benedizione. [… ] Mi rendo conto – dice –che non è il massimo, ma questo lavoro non remunerato mi permetterà, dopo un anno e mezzo di sacrifici, di fare il concorso all’abilitazione.

Il bello è, si fa per dire, che i Sindacati conoscono la situazione, sanno che molti piuttosto che trasferirsi al nord acconsentono di essere sfruttati e di firmare documenti falsi. Ma, come afferma il segretario provinciale Uil-scuola, Gerardo Pirone, in oltre vent’anni al sindacato sono pervenute solo due denunce da parte d’insegnanti di scuole private che si lamentavano della retribuzione offerta dai loro datori di lavoro. Solo di fronte a delle regolari denunce il sindacato riesce a far rispettare le regole e i contratti; ma se nessuno parla, ovviamente, non si può far nulla. In pratica si tratta di connivenza e non è solo la scuola a dover pagare per l’illegalità. Quindi, meglio stare zitti.

Dopo aver letto tali racconti, sono rimasta senza parole anch’io. Però ho capito il motivo per cui a settembre molti docenti, e non solo, fanno i bagagli e si trasferiscono quassù. Credevo fosse un atto di coraggio, quasi d’eroismo. Ora mi sono convinta che i veri eroi si fermano laggiù.

QUESTIONE DI PUNTI (E VIRGOLA) DI VISTA

Punto_e_virgolaIeri ho trovato in coda di moderazione un commento assai sgradevole. Lì per lì volevo rispondere per le rime, poi ho pensato che, al di là del tono antipatico e offensivo, le parole di quella sedicente “collega” erano proprio fuori luogo. Il suo commento, infatti, non aveva nulla a che vedere con il post, “Arrivederci ragazzi”, che ho dedicato ai miei allievi di quinta neodiplomati. In breve, invece di commentare il contenuto dell’articolo, la “gentile” signora, o signorina, ha pensato bene di farmi una “lezioncina” del tutto gratuita sull’uso della punteggiatura, insinuando poi che io non sappia fare il mio mestiere. Alla fine ho deciso di non pubblicare il commento, ma non per mancanza di argomenti con cui controbattere, piuttosto perché, conoscendomi, avrei finito per scrivere un altro post. Ecco, quindi, da dove è scaturita l’idea di scrivere davvero un altro post, visto che la mia eventuale replica sarebbe stata fuori contesto, esattamente come il commento della “simpatica collega”.

Sia chiaro: io non temo il giudizio di nessuno e sono sempre pronta ad accettare critiche e consigli se costruttivi. Non temo il confronto a patto che ci sia. Ma un commento del genere non l’avrei accettato nemmeno da Umberto Eco in persona, se non debitamente argomentato. Purtroppo, però, c’è chi preferisce sparare la sua, per il gusto di farlo, e si accontenta. Sono arrivata a tale conclusione perché, almeno in questo caso, non vedo quale potesse essere lo scopo del commento. Di sicuro la “collega” non era interessata al confronto; a me la sua è parsa più una provocazione e sinceramente non comprendo quali vantaggi potesse trarne lei e quali danni potessero arrivare a me. Sul web si scrivono tante cose, a volte anche molto insensate; se si dovesse dar retta a tutto quel che si legge …

Ad ogni buon conto, visto che mi sono imposta di replicare, ecco il testo del messaggio postato da Annalisa (ammesso che sia il suo vero nome):

Gentile Professoressa, suvvia, corso accelerato di italiano per docenti di scuola media superiore: per non rendere le frasi troppo lunghe il punto al posto del punto e virgola, please!
Non è che anche Lei appartiene alla vastissima schiera dei brillanti predicatori che razzolano malissimo?
Saluti.
Una collega

Mi scusino i miei 25 lettori se per replicare a dovere sono costretta ad entrare in un ambito piuttosto tecnico, quindi è possibile che la lettura di quel che segue risulti piuttosto noiosa. Non me ne vogliano, così come io non me la prenderò se decideranno di cambiare blog.
Per i “tecnici”: la replica si basa non su dati soggettivi –il mio personale punto di vista– ma oggettivi, rifacendomi a quanto spiega a proposito della produzione del testo la linguista Maria Teresa Serafini , autrice di molti libri sulla scrittura. Il testo che prendo in considerazione è però un manuale di grammatica, una vecchia edizione non più in commercio perché nel frattempo ne sono uscite altre più aggiornate. Tuttavia, i consigli che vengono forniti dal manuale in mio possesso sono gli stessi contenuti nel libro della Serafini Come si fa un tema in classe, considerato una specie di bibbia per gli studenti in difficoltà nella produzione scritta.

Innanzitutto la sedicente “collega” dimostra di non conoscere la terminologia specifica, definendo frase quello che nel testo deve essere considerato periodo. La differenza tra le due parole è fondamentale e una docente di Lettere, quale credo ella sia, deve saperlo.
Non credo di sbagliarmi se affermo che il periodo – non frase! – a cui la signora/signorina si riferisce si trova nel secondo capoverso, laddove elenco delle “ipotesi”. Un paragrafo di questo tipo viene denominato dalla Serafini “per enumerazione”. A tal proposito l’autrice scrive:

Nella costruzione del testo gli elementi della lista vengono collegati con segni d’interpunzione e/o con connettivi appropriati. Dopo la frase organizzatrice troviamo generalmente i due punti […] Tra gli elementi della lista si usa preferibilmente lo stesso segno di punteggiatura, che viene scelto in base alla lunghezza degli elementi della lista: la virgola per parole o frasi brevi; il punto e virgola per frasi di lunghezza intermedia; il punto per periodi lunghi e complessi […]

Osservando l’organizzazione del paragrafo “oggetto del contendere”, si può affermare quanto segue: i due punti sono posti correttamente all’inizio e anticipano l’enumerazione; il punto e virgola posto alla fine di ogni sezione dell’elenco è usato in modo appropriato poiché si tratta di frasi di lunghezza intermedia.

Detto questo, passiamo alla distinzione fra stile segmentato e coeso, stili che richiedono, evidentemente, l’utilizzo di due tipi di punteggiatura. A questo proposito la Serafini scrive:

I testi con stile coeso e ipotattico sono caratterizzati da periodi lunghi e articolati e presentano una punteggiatura ricca. Vengono usati tutti i segni; in particolare compaiono frequentemente i due punti e il punto e virgola.
I testi in stile segmentato e paratattico utilizzano tutti i segni, con l’eccezione del punto e virgola che compare raramente. Dato che hanno periodi molto brevi, presentano un gran numero di punti, che compaiono anche al posto delle virgole, dei due punti e soprattutto del punto e virgola.
Il caso estremo di stile segmentato è il testo giornalistico, per cui si parla di punteggiatura giornalistica
.

Analizzando il mio scritto, appare evidente che lo stile usato è quello coeso; a detta della Serafini, che è un’autorità in ambito linguistico, l’uso del punto e virgola in questo stile è più che giustificato. A me personalmente lo stile giornalistico, o quello segmentato in generale, non piace, basta dare una letta ai post contenuti nel mio blog per arrivare alla conclusione che il taglio non è quello giornalistico. Mi sforzo di usare uno stile segmentato solo quando scrivo degli articoli di cronaca, ma onestamente è solo uno sforzo perché, come appena detto, non rientra nello stile naturale della mia scrittura.

Se poi le parole della Serafini non bastassero, Elisabetta Degl’Innocenti nel suo manuale Scrittura Scritture definisce in questo modo la punteggiatura: quell’insieme di segni che, da una parte indicano – in un certo senso rappresentano visivamente – la scansione logico–sintattica di un testo, dall’altra imitano le intonazioni del parlato e suggeriscono le pause nella lettura. Ora, credo che tutti sappiano che il punto fermo indica una pausa lunga, al contrario del punto e virgola che segnala una pausa più breve rispetto al punto fermo e un po’ più lunga rispetto alla virgola. Quindi, a rigor di logica, separare le parti di un’enumerazione con dei punti, al posto dei punti e virgola, crea una sorta di scollegamento tra le parti stesse e conseguentemente disorientamento nel lettore che non capisce che l’elenco non è ancora finito ma continua. Questo in linea generale. L’uso di uno stile segmentato al posto del coeso non è proibito ma certamente non può essere imposto. È dunque solo una questione di scelte personali, di punti d vista, in un certo senso.

Elisabetta Degl’Innocenti, tuttavia, ammette che alcuni segni appaiono in disuso, soprattutto nella scrittura giornalistica, pubblicitaria e aziendale, mentre permangono nella scrittura scolastica e accademica. Tra questi segni poco usati enumera anche il punto e virgola tradizionalmente utilizzato per separare proposizioni coordinate in periodi complessi o per enumerare porzioni di testo abbastanza ampie. Se si conosce il significato del termine “disuso”, non lo si potrà considerare sinonimo di “errato”. Se il punto e virgola è ormai poco usato ma io continuo a farne un uso moderato e solo in alcune situazioni, significa che il mio modo di scrivere rientra nella “tradizione” e di ciò, sinceramente, vado fiera. Odio, infatti, la scrittura giornalistica in cui ai vari “orrori” sintattici si aggiungono i sempre troppo frequenti errori ortografici, e non sopporto il modo di scrivere delle nuove generazioni di scrittori che partoriscono romanzi di successo solo perché l’argomento che trattano attira l’attenzione dei teenager. Quindi se mi si può muovere una critica, la mia non è una scrittura troppo moderna, ma non accetto che la si consideri scorretta. Né mi fa particolarmente piacere che si insinui che ai miei allievi non sappia insegnare l’uso corretto dei segni d’interpunzione. Io mi sono sempre sforzata di trasmettere loro degli strumenti utili all’acquisizione di competenze nell’ambito di una “scrittura scolastica corretta”, poi decideranno loro se continuare a scrivere usando per lo più uno stile coeso o se preferirgli quello segmentato. Non mi pare, dunque, di aver fatto dei danni.

Infine, mi permetto di osservare che la “collega Annalisa” – che non so dove insegni, se alle elementari, alle medie o addirittura all’università, visto che vuol fare un corso accelerato di italiano per docenti di scuola media superiore – avrebbe potuto risparmiarsi il commento finale: mi sa che è lei una che predica brillantemente – si fa per dire – ma razzola malissimo. Parole sue, non mie.

CENA DI MATURA

dafneOre otto: sono a scuola, come tutti i giorni, anche il sabato, ma stamattina la mia quinta non c’è. Ho lezione con loro la prima ora ma tanto è inutile che salga al terzo piano. Firmo il registro in portineria e scrivo “TUTTI ASSENTI”. Poi uno scrupolo mi assale: salgo le scale, mi affaccio alla porta dell’aula che, com’era ovvio, è deserta. Le aule vuote hanno sempre un qualcosa di inquietante, danno il senso di abbandono. Eh, già, i miei ragazzi stamattina mi hanno abbandonata. Fuori ne ho visti alcuni: sorridenti e allegri, come se avessero passato una notte di tutto riposo e invece a letto non ci sono proprio andati e ora si divertono, quei pochi che non hanno ceduto al sonno e alla stanchezza, a lanciare palloncini pieni d’acqua ai compagni delle altre classi.

Oggi si usa così: la mattina dopo la “cena di matura” ci si presenta a scuola con i gavettoni pronti ad essere lanciati sulle vittime di turno. Quest’ultime non se la prendono più di tanto perché sanno che, prima o poi, arriverà il loro turno. Gli insegnanti vengono risparmiati, specie quelli che, come me, saranno i loro commissari interni. Meglio non rischiare, dunque. D’altra parte sono certa che mi avrebbero risparmiata comunque; sono decisamente altri i docenti cui vorrebbero tirare i gavettoni.

È da ieri che, inevitabilmente, ripenso alla mia cena di matura. Allora io e i miei compagni avevamo atteso l’alba sulla spiaggia, umidissima, di Grado. Bello spettacolo: la mia prima alba in assoluto. Anche in seguito, però, non è che di albe ne abbia viste tante. Non sono una a cui piace tirar tardi. Poi, il mattino dopo, tutti, o quasi, a messa, perché allora la cena di matura si faceva l’ultimo giorno di scuola e la mattina successiva si andava in chiesa. Si usava così, quasi a consacrare quell’esperienza durata nove mesi, la gestazione di una nuova vita, un’ulteriore tappa del percorso di crescita. Altri tempi, decisamente. Ma anche se il tempo passa, e anche se oggi l’esame finale della scuola superiore si chiama “esame di stato” e non più “di maturità”, la cena non ha cambiato appellativo. In effetti, chiamarla “cena dell’esame di stato” sa tanto di burocratese. È tutto l’anno, poi, che ai miei allievi di quinta continuo a ripetere che, osservando i comportamenti di alcuni di loro, mi sono convinta sempre più del perché abbiano cambiato appellativo all’esame: “maturità” è un concetto ancora del tutto estraneo a molti diciottenni-diciannovenni di oggi. Ahimé.

Ieri sera, quando li ho visti tutti belli ed eleganti, mi sono commossa. Mi sono sembrati delle crisalidi finalmente divenute farfalle. Messe da parte, almeno per una serata, le scarpe da ginnastica, sfilati per una volta gli inseparabili jeans, t-shirt e felpe, hanno finalmente acquisito un aspetto umano. Anzi, dirò di più, mi si sono presentati, forse per la prima volta, in tutta la loro individualità, lasciati da parte tutti quegli elementi che li rendono così stereotipati. Le ragazze finalmente con i vestitini eleganti, spalle scoperte, decoltè ben in vista, gambe nude e ai piedi sandali dai tacchi vertiginosi, i capelli variamente acconciati, quelle con i capelli più lunghi hanno rinunciato alle antiestetiche code di cavallo che, saranno pure comode, ma le rendono così tristi; i ragazzi in completo, per lo più scuro, camicia e cravatta, ben pettinati e rasati, a parte qualcuno che vuole atteggiarsi a “bel tenebroso”. Tutti sorridenti, felici di stare con gli insegnanti, quei pochi presenti, come mai, o quasi, succede nelle aule scolastiche, specie se in programma c’è un compito o un’interrogazione. Sono questi i momenti in cui ci si dimentica degli impegni scolastici –gli allievi dei “buchi” che ancora devono rimediare, i docenti delle verifiche da correggere, delle ultime interrogazioni e del programma da portare a termine- e si riesce finalmente a stare insieme per il piacere di farlo. Tutti uniti da una gioiosa condivisione, tanto da far pensare che ci vorrebbe davvero una scuola senza scuola, degli amici non compagni, dei docenti non tali ma solo adulti che accompagnano i ragazzi nelle esperienze della vita. Persone che condividono solo molti obblighi non sanno apprezzare il senso della condivisione vera, quella fatta di cose semplici, di risate o di chiacchiere inutili. Che c’è da dire, infatti, quando si parla di Pascoli o D’annunzio? Anche se chiedi loro un parere personale, non lo diranno mai perché non si azzarderebbero a dire “mi fa schifo” per timore di mettersi in cattiva luce con l’insegnante. Ecco quello che manca, in un’aula scolastica: la spontaneità. Certo ci sono alcuni momenti in cui ci si lascia andare da entrambe le parti, ma per lo più ogni atteggiamento è costruito: se dico questo faccio bene? Se faccio questo si arrabbia? Ecc. ecc.

Ma non c’è cena di matura senza omaggio-ironico per l’insegnante. Io, davvero, non avevo fatto alcuna congettura ma anche se avessi tentato di indovinare non ci sarei mai arrivata. So che di solito prendono di mira i punti deboli dei docenti, ma non mi aspettavo che rispolverassero la mia confessata attività poetica dei tempi della scuola elementare. Allora, infatti, mi dilettavo a scrivere versi e, in questi anni, ho avuto l’infelice idea di “recitare” una delle mie creazioni alla classe. Beh, quella poesia me la sono ritrovata trascritta su una “pergamena” –ottimo lavoro di Valentina- accompagnata dalla fascia, tipo quella del sindaco o di miss Italia, con la scritta: “Simply the best poeta vate”. Mi veniva da ridere pensando che in quest’ultimo periodo non faccio altro che stressarli con il “poeta vate”, specialmente trattando la poesia d’avanguardia che ne dissacra la figura. Ma la ciliegina sulla torta è stata una corona d’alloro, di quelle vere e non finte come ha insinuato una collega, la stessa corona che non ho avuto l’onore di indossare alla mia laurea perché a quei tempi non si usava. Loro lo sapevano che avevo questo rimpianto e così mi hanno formalmente nominata “poeta laureato” –il femminile evidentemente stonava, anche perché non si è mai sentita la dicitura “poetessa vate”- e mi hanno pure costretta a salire in piedi sulla sedia per declamare i versi scritti all’età di sette o otto anni. In quel momento ho rivolto il pensiero al mio “vate” preferito, Dante Alighieri, e gli ho detto: Tiè! Firenze non ti ha onorato della laurea poetica come volevi, un po’ presuntuosamente, mentre i miei allievi mi hanno fatto questo onore … alla fine la modestia premia!”.
Non poteva mancare, poi, l’omaggio floreale, questa volta “sintetico”, offertomi da un galante Giovanni che ha pure accennato un inchino … mi aspettavo anche il baciamano, ma sta ancora imparando l’arte del perfetto gentiluomo, diamogli tempo.

La cena è terminata quasi a mezzanotte e mentre per me la serata si avviava verso la fine, per loro il bello doveva ancora incominciare: tutti sul pullman e via in discoteca fino all’alba. Confesso che è stata tanta la gioia di stare insieme a loro che, se non fossi stata costretta a prendere servizio alle otto di mattina, ci sarei andata anch’io in discoteca. Hanno pure tentato di convincermi, inutilmente. Una volta arrivata a casa non avevo nemmeno sonno, io che di solito alle nove di sera dormo davanti alla TV. Mi sono decisa ad andare a letto alle due ma nelle mie orecchie risuonava l’allegro chiacchierio della serata, gli occhi, seppur chiusi, continuavano a vedersi scorrere davanti le immagini di quei ragazzi, con le neo acquisite fattezze di giovani donne e giovani uomini. Di dormire proprio non ne avevo voglia, complice anche un caffé bevuto alle undici di sera, ma pensando agli impegni mattutini alla fine ho ceduto al sonno.

Ora sono qui, senza la mia quinta e con i pacchi di compiti che attendono di essere corretti. Ma non ho saputo resistere alla tentazione di scrivere queste righe che rimarranno il perpetuo ricordo di questa serata, per me e per le giovani donne e i giovani uomini che, dopo questa specie di rito di iniziazione, guarderanno al futuro senza mai dimenticare la loro “cena di matura”. Non importa se gli anni del liceo sono stati allegri e spensierati o una vera tortura, non importa se i compagni di scuola non si sono rivelati quegli amici che tutti vorrebbero trovare, pur consapevoli che nel microcosmo racchiuso in un’aula scolastica è davvero difficile che accada, non importa se i docenti sono stati dei buoni o dei cattivi maestri … alla fine quest’esperienza, qualsiasi sia il posto che occupa nel cuore di tutti noi che l’abbiamo provata, grande, piccolo o insignificante, resterà sempre un ricordo indelebile nella nostra mente.

GRAZIE RAGAZZI! VI VOGLIO BENE. 😀

[nell’immagine “Apollo e Dafne” di Bernini]