RAOUL BOVA: “NON SONO GAY MA ANCHE SE FOSSE …”

raul bova
Tranquilli: non è un articolo di gossip. A me della separazione di uno dei divi più belli del Bel Paese non me ne può fregar de meno. Però, a pensarci, un po’ mi dispiace. Mi dava l’idea di essere un matrimonio solido il suo, di quelli che sembrano mosche rare nel mondo dello spettacolo.

No, non è della separazione dalla moglie Chiara Giordano (raro esempio di figlia meno nota della madre, l’avvocato Annamaria Bernardini De Pace) che voglio parlare. Vorrei piuttosto soffermarmi sulle illazioni che sono piovute addosso al povero Raoul dal momento in cui la crisi del suo matrimonio è diventata di dominio pubblico. E delle voci, sempre più insistenti, della vera causa del naufragio dell’unione fra i due: Bova è gay. Ma quale sarebbe il motivo di tali sussurri che nel tempo hanno smesso di essere tali per divenire voci insistenti che neanche la Fama, rea di aver portato alle orecchie di tutti il “connubio” tra Enea e Didone? Le battaglie dell’attore per i diritti delle coppie omosessuali e un’intervista rilasciata nel 2010 in cui affermava che prima di incontrare quella che sarebbe diventata sua moglie, tredici anni fa, era abbastanza aperto a persone e situazioni nuove.
Perché basta che uno pronunci le parole magiche persone e situazioni nuove per scatenare un putiferio.

Ma come? Uno come Bova, il sex symbol per antonomasia? Insomma, proprio gay, lui che non è un Cecchi Paone qualunque!
E dopo mesi di silenzio, a sentir lui molto sofferto, il bel Raoul smentisce pubblicamente. Lo fa in un’intervista a Vanity Fair, nel numero in edicola oggi.
Nell’edizione on line, incuriosita, ho letto il suo sfogo e ciò che mi ha colpito in particolare è la sua affermazione:

«Lo dico apertamente, mi piacciono le donne. Se fossi omosessuale, credo che non avrei nessun problema a riconoscerlo. O forse non lo direi: perché questo obbligo di dichiararsi, di giustificarsi? Nessuno va in giro a dire: piacere, sono etero. […]»

Ecco, quella evidenziata dal grassetto (mio) è la cosa più sensata che abbia mai letto su questo argomento.
Continuo a pensare che fino a quando insinuazioni del genere continueranno a correre di bocca in bocca, la condizione degli omosessuali sarà sempre sentita, considerata e vissuta come “diversa”. Non è questo che vogliono i gay, certamente. Ma nemmeno è giusto pensare che l’outing, o come si chiama, debba essere considerata una condizione essenziale per essere “accettati”. Lo virgoletto perché proprio l'”accettazione” – che a mio parere non ha ragion d’essere – continuerà a farli apparire “diversi”.

[immagine da questo sito]

LA VITA BUIA

Mario-Fontana__disperazione
Quante volte diciamo, senza averne affatto i sintomi, che ci sentiamo depressi. Spesso usiamo quell’esclamazione , “che stress”, solo perché ci sentiamo un po’ stanchi o abbiamo a noia la solita routine. Ma chi ha provato cosa sia davvero la depressione e chi si è sentito veramente stressato ha una visione della vita completamente diversa: la vita buia, senza luce, un tunnel che a fatica si attraversa, giorno dopo giorno, senza riuscire mai a vederne la fine, senza speranza d’uscita.

Racconterò tre storie di donne, solo casualmente tutte e tre insegnanti, donne che vivono una vita buia, o l’hanno vissuta fino a poco tempo fa. Uscire dal tunnel non è impossibile ma spesso proprio quella che è considerata la cura ideale, porta con sé uno strascico di sofferenza. Gli antidepressivi sono come la droga: più se ne prende e più si pensa di non poterne fare a meno. E smettere è davvero difficile.
Chiamerò queste tre donne Laura, Sonia e Giorgia, nomi di fantasia, nomi che non rientrano nella mia cerchia di amicizie.

Laura è una donna spiritosa, vivace, apparentemente spensierata. Fa il suo mestiere con grande passione, i suoi studenti l’adorano. Ha un marito che l’ama e che lei ama profondamente. C’è qualcosa che manca, però, nella sua vita: un figlio. Gli anni passano, lei ne ha già quaranta, e quel dono non arriva. Un dono, sì, perché un figlio non è qualcosa che si acquista, non è nemmeno qualcosa che ci si deve meritare, è un dono che la vita può farci oppure no. Qualcuna questo dono lo butta via, qualcun’altra lo rifiuta proprio, come concetto. Per la maternità non bisogna essere portate, come qualcuna pensa, la maternità completa la vita di una donna, è una vera e propria missione che spesso si porta avanti senza nemmeno pensare che la vocazione non è insita nell’animo umano, la maternità è qualcosa che arriva e solo in quel momento si può essere consapevoli che non è necessario esserci portate, si fa e basta. Nel migliore dei modi ma anche no.
Il tempo passa. Laura si avvicina ai cinquanta e perde definitivamente ogni speranza. Non cerca soluzioni alternative, non chiede aiuto alla scienza, pensa solo di non meritarsi quel dono, pensa di non essere degna nemmeno di essere chiamata donna. Piano piano la sua vita si oscura, la luce si spegne, entra nel tunnel. Inizia a chiudersi in casa, non va più a scuola, non si alza dal letto, non prepara da mangiare, non va a fare la spesa, non si lava, non si pettina, non si veste, rimane tutto il giorno in camicia da notte, nel buio della sua stanza.
Inizia così la cura con gli antidepressivi. La fanno sentire meglio, le danno la forza di uscire da quella camera, mese dopo mese riacquista le forze perdute. Ma il suo dramma, la mancata maternità, rimane dentro di lei. Non si rassegnerà mai.
Ritorna a scuola ma non ha la forza di stare in aula. Il preside, che è una persona intelligente, capisce e la dichiara inidonea. Non le fa del male, anzi, la nomina responsabile della biblioteca d’istituto, le affida un compito di responsabilità che la porta comunque a rapportarsi con gli studenti che lei non ha mai smesso di amare e che considera un po’ come i figli che non ha avuto.
Ora Laura è in pensione. Si gode un periodo della vita che è spesso agognato e che molti, oggi, vedono come un miraggio lontano.
La sua vita è meno buia ma la mancanza di un figlio, causa delle sue pene passate, la proietta in un futuro monco: non è stata madre, non sarà mai nonna.

Sonia è una cinquantenne. Se dovesse pubblicare un annuncio matrimoniale, potrebbe essere: cinquantenne, colta, bella presenza cerca coetaneo con le stesse caratteristiche.
Non è sempre stata sola. Ha alle spalle un matrimonio naufragato un decina di anni fa. In quell’unione aveva investito molto, aveva dato senza ricevere. Aveva rinunciato alla maternità per far piacere al suo uomo che, però, non aveva rinunciato ad un’altra vita, con un’altra donna.
Il marito di Sonia vive altrove per motivi di lavoro. Torna a casa il sabato e la domenica e lei lo aspetta, devota, una vestale impegnata a tenere acceso il fuoco sacro di un’unione a distanza.
Poi lei scopre l’altra famiglia di lui e il mondo le crolla addosso. Ma non vuole chiedere il divorzio, in quel matrimonio ha creduto e crede ancora. Lui, invece, non ci ha mai creduto e non sa che farsene. Chiede il divorzio e la caccia di casa, tanto è intestata a lui e senza figli lei non ha alcun diritto di rimanerci.
Dieci anni di tristezza, rimpianti, rancore e incapacità di ricominciare. Il fisico si appesantisce, il sorriso si spegne, Sonia non riesce nemmeno a guardarsi allo specchio. Non dorme la notte e fa uso regolare di sonniferi. Va da una psicoterapeuta che le consiglia gli antidepressivi. Entra in un circolo vizioso e non vede uno spiraglio, una via di uscita.
Poi, all’improvviso, decide che può tornare ad essere bella, affascinante. Colta lo è ancora, anzi di più; presa da una frenesia inspiegabile frequenta corsi su corsi, prende un master, si iscrive a diverse associazioni, tiene conferenze. Gli antidepressivi li ha buttati, si è messa a dieta e ha ritrovato il fisico di dieci anni prima, complice anche la palestra in cui si reca regolarmente.
Ora ha una missione da compiere: cercare un uomo. E qui le cose si complicano. Ne conosce molti, alcuni le cadono ai piedi ma o sono troppo vecchi o troppo poco colti oppure non particolarmente attraenti. Quelli che le piacciono o sono già impegnati o non se la filano per nulla.
La depressione, quella vera, è un ricordo lontano, ormai. Ma nella vita di Sonia ci sono ancora troppe nuvole e il sole splende solo per brevi periodi. Ma la sua mission impossibile la aiuta ad affrontare la vita in modo diverso. Prima o poi troverà l’uomo che fa per lei. Ne è sicura.

Giorgia ha cinquant’anni o poco più. Un figlio ormai grande avuto da un matrimonio finito molti anni fa.
Il suo male di vivere inizia subito dopo il divorzio. Ci mette un po’ di tempo per riprendersi e per dare un calcio al passato. L’aiuta una nuova relazione: lui è molto più giovane di lei, bello come il sole, è come una ventata d’aria fresca che si sprigiona da una finestra tenuta chiusa per troppo tempo e improvvisamente riaperta.
Passano i mesi, passano gli anni e la relazione va a gonfie vele. Così almeno sembra.
Un giorno, però, lei scopre l’esistenza di un’altra donna, più giovane di lei, bella, ragazza madre di un’adolescente e incinta del suo uomo. Il compagno di Giorgia aspetta un figlio da un’altra. Non solo, la storia con l’altra va avanti da anni, il progetto di famiglia c’è da parecchio, visto che lei, prima di questa gravidanza, ha avuto due aborti spontanei.
Non è lui a dirglielo. L’amante va da lei e glielo spiattella senza risparmiare ogni particolare. L’antica ferita si riapre, Giorgia ricade nella vita buia di un tempo. Fa fatica a riprendersi, dopo due anni gli antidepressivi sono i suoi unici compagni. Ma esce, lavora, cerca di vivere al meglio.
L’incontro con Giorgia è casuale. Mi stupisco di come questa donna mai vista prima mi racconti la sua storia. Poi capisco: non conoscevo lei ma conosco bene l’altra. La storia no, mi era del tutto ignota.

[immagine: “Disperazione” di Mario Fontana, olio su tela, da questo sito]

COSA FAREI CON 100MILA EURO AL GIORNO …

veronica-lario
… io proprio non lo so (anche perché mi accontenterei di guadagnarli, e dico guadagnarli, in un anno …) però credo che per la signora Miriam Raffaella Bartolini (in arte Veronica Lario) sia come cadere in disgrazia da un momento all’altro.

Poveretta, che brutta fine dell’anno, senza nemmeno più una casacoraggio, la vita è dura, lo dice anche la signora Elsa Fornero.

AGGIORNAMENTO DEL POST, 9 GENNAIO 2013

Silvio Berlusconi è stato ieri ospite di Lilli Gruber nel salotto di Otto e mezzo, in cui, tra l’altro, ha annunciato in esclusiva la nascita del settimo nipote, Riccardo, 3 chili e 200 grammi per 51 cm di lunghezza, figlio di Eleonora, una dei tre figli avuti dall’ex Veronica Lario.

A proposito degli alimenti riconosciuti alla ex moglie, Berlusconi corregge la cifra: «Non sono 100 mila euro al giorno, sono 200 mila al giorno». Una cifra decisa, a suo dire, da «3 giudichesse femministe e comuniste. «È una cosa che sta nella realtà: 36 milioni con un arretrato di 76 milioni. Questi sono i giudici di Milano che mi perseguitano dal ’94» dice ancora Berlusconi.

Ah, però.

[fonte: Il Corriere]

MARITO GELOSO SI FINGE DONNA E ADESCA L’AMANTE DELLA MOGLIE SU FACEBOOK: DENUNCIATO


Un quarantasettenne triestino, in via di separazione dalla moglie, scoperta la tresca di lei con un altro uomo, si finge donna e adesca il rivale su Facebook. A questo punto vien da chiedersi: perché? Facile: voleva screditare l’amante agli occhi della moglie, sperando che lei ritornasse sui suoi passi. L’intento era senz’altro nobile, peccato che ora sia stato scoperto e denunciato per sostituzione di persona. Il che, trattandosi di Facebook, fa riflettere non poco, visto il pullulare di account falsi, specie se di personaggi famosi.

Il pover’uomo è, dunque, la testimonianza vivente che il fine non può giustificare i mezzi. Almeno secondo l’opinione del pm Federico Frezza il quale, coordinando le indagini, ha scoperto che il marito tradito aveva acquisito l’identità di due donne e si era messo in contatto con l’amante della moglie. Quest’ultimo non aveva affatto disdegnato la corrispondenza hot e aveva accettato di far parte di una sorta di performance erotica via web.

Soddisfatto dei risultati, il marito ancora innamorato della moglie e non rassegnato a perderla, le ha fatto vedere le prove della tresca internautica tra il nuovo compagno e le due sedicenti ragazze. Lei, però, non ha mangiato la foglia e, scoperto l’inganno, l’ha denunciato.

La notizia è riportata dal quotidiano locale Il Piccolo. L’autore dell’articolo, Corrado Barbacini, conclude il pezzo ricordando un vivace episodio accaduto in Gran Bretagna qualche anno fa. Allora un marito geloso, come vendetta del presunto tradimento da parte della consorte, aveva addirittura messo in vendita la fedifraga su e-Bay. L’annuncio d’asta, “Offro un rifiuto di moglie traditrice, adultera”, aveva fatto scalpore e le quotazioni della signora hanno quasi raggiunto la soglia di 500mila sterline.

Evidentemente mettere in vendita la moglie su e-Bay per i britannici non ha conseguenze legali (ricordo il caso di una bimbetta che voleva vendere la nonna brontolona … ne ho parlato QUI). Il marito italiano, invece, dovrà rispondere davanti ai giudici di una vendetta non consumata a freddo, anzi, troppo hot.

[nell’immagine: “Amanti” di Franco Murer, matita, cm 16,5×22,5, da questo sito]

PER DIVORZIARE NON È MAI TROPPO TARDI. ANCHE DOPO 77 ANNI DI MATRIMONIO

A proposito di “divorzi d’argento”, come vengono chiamati quelli che vengono siglati da coppie sposate da trent’anni e più, questo è davvero incredibile perché, più che d’argento, è di platino. Questo metallo prezioso, infatti, contraddistingue il 75° anniversario di matrimonio e la coppia in questione, lui sardo e lei napoletana, è stata sposata per ben 77 anni. Eppure, dopo che lui scoprì il tradimento della moglie, consumato più di sessant’anni prima e da lei confessato, la vita di coppia non è stata più quella.

I protagonisti di questa vicenda alquanto bizzarra sono Antonio, novantanove anni, e Rosa, novantasei.
Nel 2002 lo sposo scoprì una lettera che la moglie aveva spedito, qualche anno dopo le nozze, all’amante. Lì per lì, ritenne la cosa migliore da farsi chiedere “asilo” al figlio maggiore ma poi, evidentemente, la prole, costituita da ben cinque figli, avrà cercato di farlo ragionare, convincendolo a tornare nel “nido”. Ma lui ha continuato a serbar rancore nei confronti della consorte ed il rapporto coniugale si dev’essere irrimediabilmente incrinato: continui pretesti di lite hanno portato la coppia davanti ai legali per formalizzare l’atto di separazione.

È proprio vero che, come diceva Carlo Verdone in un suo noto film, l’amore è eterno finché dura. Quei settantasette anni devono essere sembrati davvero un’eternità se alla fine la coppia quasi centenaria ha messo la parola fine ad un matrimonio record, per durata e longevità dei coniugi.

E poi si dice che sono più propensi gli uomini a perdonare un tradimento …

[fonte: Il Corriere]

MATRIMONIO O CONVIVENZA: QUAL È LA SCELTA GIUSTA?


Era da un po’ che ne volevo parlare, ma non avevo mai tempo: ora dirò la mia sulla questione matrimonio o convivenza. Se dovessi scegliere ora, essendo “in età da marito”, o se dovessi scegliere per i miei figli, non ho dubbi: convivenza.

Premetto che sono cattolica, credente (anche se, onestamente, da un paio d’anni la mia fede vacilla, per motivi troppo privati per poter essere spiegati qui), per il momento non praticante ma lo sono stata per lunghissimi anni. Anni in cui, lo ammetto, più di un dubbio ha attanagliato la mia mente, anni in cui il mio rapporto con la Chiesa è stato oscillante, un po’ come l’ossimoro catulliano: odi et amo. Ma, nonostante i miei dilemmi interiori, mi sono spostata in Chiesa. Non perché andasse di moda (più di venticinque anni fa, infatti, matrimoni civili e convivenza erano sicuramente in minoranza), non perché il mio sogno era l’abito bianco con il velo lungo, addobbi floreali, bomboniere, cena di gala … No. È stata una scelta responsabile, meditata, condivisa, anche se mio marito, in verità, con la fede e la Chiesa ha avuto nella sua vita un rapporto molto più oscillante del mio. Ora non ha rapporti del tutto. E qui sta la differenza: io non ho chiuso le porte al Signore, lui sì. Eppure, è lecito osservare, anche lui, come me, ha fatto una promessa davanti a Lui e l’ha rinnovata in occasione delle Nozze d’Argento, sempre davanti allo stesso altare. Ma l’ha fatto, credo, più per far felice me che per soddisfare un suo intimo desiderio.

Detto questo, probabilmente qualcuno si starà chiedendo come mai, allora, io sia contraria al matrimonio e favorevole alla convivenza. Be’, non c’è un motivo soltanto. Tenterò, quindi, di essere sintetica (sempre nei limiti delle mie scarse capacità di sintesi) ma sufficientemente chiara.

Intanto vediamo com’è la situazione attuale, in Italia, circa il matrimonio e la convivenza. Siccome non ho molto tempo per andare alla caccia dei dati, mi affiderò a quelli che il mio amico frz40 ha recentemente pubblicato sul suo blog (LINK)

«[…] nel 2009 sono state celebrate 230.613 nozze, e ancor meno sono state quelle, secondo dati provvisori, stimate per il 2010: poco più di 217mila. Il 30 % in meno rispetto al 1991.
Crescono, è vero, le convivenze pre-matrimoniali, ma meno, e i giovani tendono a sposarsi sempre più tardi prolungando spesso fino ai 35 anni la permanenza in famiglia, dieci anni più tardi di quando convolarono a nozze i propri genitori. Inoltre sia i matrimoni che le convivenze hanno sempre minor durata. La diminuzione ha interessato tutte le aree del Paese. Tra le regioni, quelle in cui il calo è stato più marcato sono Lazio (-9,4%), Lombardia (-8), Toscana (-6,7), Piemonte e Campania (-6,4 in entrambi i casi).»

Fin qui i dati riportati da frz40. In questo contesto non si fa distinzione tra matrimoni religiosi e civili, ma è un dato inequivocabile che i matrimoni, in generale, sono in drastico calo. Come se ciò non bastasse, la “convivenza”, consacrata e legalizzata o meno, non è affatto “per sempre”. Ormai il “per sempre” si è perso per strada e i divorzi avvengono anche tra coppie sposate da trent’anni e più.

Non ho intenzione, in questa sede, di trattare le cause che portano alla rottura delle unioni, anche quelle collaudate da tempo. Mi limito a fare un discorso generale sul perché la convivenza sia preferibile al matrimonio, almeno per un periodo. Nulla vieta, infatti, alle coppie di rimandare il matrimonio di qualche anno. Ma, in questo caso, la decisione non deve essere presa per il semplice fatto che non si vogliono avere obblighi e responsabilità. Convivere può portare ad una maggior coscienza di ciò che significhi essere una coppia ma non deve essere un escamotage, un modo per prendere alla leggera l’unione, tanto poi ci si separa, amici come prima, e si risparmiano anche i soldi del divorzio. Se queste sono le premesse, è chiaro che la scelta di non sposarsi sarebbe di comodo e dettata da una certa superficialità.

Quando dico che sono favorevole alla convivenza, voglio intendere, infatti, che la decisone debba essere presa con la stessa maturità e il medesimo grado di coscienza che porta un uomo e una donna a sposarsi. Il matrimonio di per sé non è un vaccino contro il divorzio e anche se davanti all’altare si recita “finché morte non ci separi”, non è detto che poi si rispetti tale promessa. Il matrimonio non ha il potere di tenere unite due persone più di quanto non l’abbia una scelta di convivenza ponderata e basata sull’amore e sul rispetto reciproco.

Partire dal presupposto che andare a convivere sia una scelta di comodo, così poi se le cose non funzionano ci si lascia, è la cosa più sbagliata che esista. Perché, tranne rari casi, la decisione è seria ed è preferita al “pezzo di carta” anche per questioni economiche. Sposarsi, oggi come oggi, è un investimento economico non indifferente che spesso le coppie devono sostenere con le sole proprie forze. Una volta, molto più di adesso, le spese venivano affrontate dalle famiglie e gli sposi andavano tranquillamente a vivere nel loro nido d’amore senza subire salassi. Certo, ci sono ancora coppie fortunate che non devono staccare assegni a sei cifre o dar fondo al credito della Mastercard, ma credo siano una minoranza. Per questo motivo penso che le famiglie non debbano opporsi alla decisione dei figli quando essi manifestano l’intenzione di convivere piuttosto che sposarsi. Ma di questo parlerò dopo.

A questo punto bisogna aprire una parentesi sulla cosiddetta “questione morale”.
Il matrimonio religioso è l’unica unione convalidata dalla Chiesa e per questo l’unica che Essa approvi. Ne consegue che c’è, da parte dell’istituzione ecclesiastica, la presunzione che il matrimonio religioso, supportato dalla fede e coerente con le scelte dettate da Essa, sia il solo degno di tale nome. E non lo dico a caso: la parola “matrimonio”, infatti, contiene in sé la radice “mater”, quindi è concepito come un vincolo il cui unico scopo, o quasi, è quello di procreare. Questo è il motivo per cui la Chiesa non si è mai aperta, nel corso dei secoli, sulla legittimità di una convivenza more uxorio e sulla possibilità che i coniugi dovrebbero avere di scegliere se mettere al mondo dei figli o no. Prova ne sia il fatto che, tutt’oggi, la Rota Romana ha il potere di annullare i matrimoni contratti in chiesa qualora uno dei coniugi “accusi” l’altro di non volere dei figli.

Per non parlare dei rapporti prematrimoniali, proibiti dalla Chiesa proprio perché non finalizzati, in genere, allo scopo di procreare. Il che equivale a dire che il vero amore, tra un uomo e una donna, è quello che li unisce nel comune intento di “metter su famiglia”, tutelati da un “contratto” che sancisce la legittimità della famiglia stessa.

Ora, non è mia intenzione discutere sui precetti religiosi, ma sfido chiunque a trovare chi si è adeguato ad essi magari durante un fidanzamento durato anni e anni e chi, pur essendo sposato, anche con rito religioso, non rinunci a metter su famiglia subito e, quindi, non abbia mai fatto uso dei contraccettivi più svariati. Queste coppie si amano meno? Sono meno coppie di quelle che si adeguano ai precetti della Chiesa?
Stesso discorso vale per i figli: quelli nati al di fuori del matrimonio o da coniugi sposati con rito civile sono figli di serie B? Hanno dei genitori meno amorevoli e meno bravi?

Io sono del parere che un’unione per essere solida debba essere basata sull’amore e che l’amore, anche quando non è rivolto a Dio, sia l’elemento indispensabile per le famiglie felici. Ma che il cammino di due coniugi debba essere ispirato dalla Grazie di Dio o cose del genere a me pare una cosa senza senso, visto che non viviamo nel Medioevo da qualche secolo.

A questo proposito, ho letto un bell’articolo di Costanza Miriano (LINK), apparso su La Bussola Quotidiana e pubblicato ora sul blog della giornalista. Dico che è un bell’articolo perché è scritto bene, con uno stile fresco e di sicuro impatto. Ma la forma non deve nascondere quella che è la sostanza.
Scrive la Miriano:

«Tra matrimonio e convivenza la differenza non è affatto nella durata. Conosco convivenze decennali e matrimoni, purtroppo, durati mesi. La differenza è una vera e propria rivoluzione copernicana. Chi sta al centro.
Nella convivenza io, noi due nella migliore delle ipotesi, siamo il metro di noi stessi. Cerchiamo, spesso con impegno, serietà, onestà e lealtà di far andare le cose, ma se non vanno niente ci obbliga.
Il matrimonio è un trascendere se stessi, è affidare a un vincolo la propria vita, decidendo di spenderla tutta senza calcolare, senza risparmiare. In modo imprudente anche.»

Sul primo punto sono d’accordo: un vincolo sacro come quello del matrimonio non è garanzia di quel “per sempre” cui accennavo poc’anzi.
Quello su cui non concordo affatto è il ritenere il matrimonio un dono gratuito dell’uno nei confronti dell’altro, senza calcolare nulla né risparmiare nulla. Se ho capito bene. Però, poche righe prima, la giornalista ammette che anche nella convivenza ci sia una profusione di impegno, serietà, onestà e lealtà per far sì che l’unione funzioni, anche se … ed ecco qui il solito luogo comune: niente ci obbliga.

Più avanti la Miriano aggiunge: «Senza l’aiuto di Dio non siamo capaci di un’impresa come imparare ad amare un’altra persona, diversa da noi, e per di più dell’altro sesso.». E qui mi pare che si rasenti l’illogico: sarebbe come dire che un ateo o un agnostico non siano in grado di amare e, quindi, di impegnarsi in un’impresa non facile, quella di convivere con una persona diversa da noi e pure dell’altro sesso.

Conosco coppie più che collaudate che convivono da vent’anni e oltre; altre sposate civilmente da più di trent’anni. Mi chiedo come possano aver compiuto questa difficile impresa senza alcun aiuto dall’alto.

Più avanti prosegue con lo stesso ragionamento: «In questo la grazia di Dio agisce abbondante, copiosa, fluisce come un fiume a chi la chiede, perché questa è la Sua specialità: amare. Come si possa fare un progetto di amore senza metter Dio al centro, è incomprensibile
Con tutto il rispetto, cara Costanza, sarà incomprensibile per te ma comprensibilissimo per milioni di persone nel mondo che scelgono di non seguire Dio, a prescindere dal matrimonio o dalla convivenza.

Sarà che per esperienza personale ho coltivato un certo scetticismo riguardo al tema in questione, ma per me a volte un sacramento conta ben poco nella riuscita del matrimonio, mentre altre la mancanza dell’illuminazione divina non ha compromesso un’unione felice.

Faccio un esempio: i miei suoceri, sposati da quasi sessant’anni. Lei religiosissima, lui molto meno. La loro unione non è stata felice come appariva dall’esterno perché era basata soprattutto sull’ipocrisia. Tutto doveva sembrare perfetto perché in ogni caso una sacra unione non poteva finire. La parola “divorzio” in casa loro suonava come una bestemmia. In questo caso mi sembra che Dio abbia fatto ben poco per la loro felicità ma molto per l’infelicità. Il “per sempre”, come dicevo, è certamente sincero quando ci si ama, che Dio sia al centro della vita della coppia o meno. Ma quando quel “per sempre” diventa un obbligo morale da non trasgredire, si limita ad essere fonte d’infelicità e rimpianto.


Un altro esempio, sempre dalla mia esperienza, serve a dimostrare che l’ipocrisia non è solo prerogativa di certi coniugi che non vogliono infrangere la promessa fatta sull’altare, ma è anche prerogativa della Chiesa stessa. Mia nipote, figlia di mio fratello, è nata da un’unione solo civile. Per questo, in un primo tempo, le era stato negato il battesimo. Sotto accusa era mia cognata, al suo secondo matrimonio dopo il divorzio dal precedente marito. Secondo il parroco lei era una peccatrice quindi … la colpa della madre doveva per forza ricadere sulla figlia. Ma una soluzione c’era: chiedere l’annullamento del precedente matrimonio alla Rota Romana. Questo avrebbe cancellato la sua terribile colpa, lei avrebbe potuto risposarsi in chiesa e la figlia sarebbe stata degna del battesimo. Un colpo di spugna e via il peccato.
A parte il fatto che se mia cognata avesse seguito il consiglio, mia nipote sarebbe stata battezzata a otto anni, la cosa più grave è pensare che la Rota Romana avrebbe incassato qualche milione di lire per annullare un sacramento senza che ci fossero nemmeno i presupposti.

A questo punto, affronto l’ultimo problema: le famiglie. Può una famiglia religiosissima, come quella di Costanza Miriano, ad esempio, garantire che i figli, una volta diventati adulti, siano disposti ad assecondare i precetti divini? Io dico di no. Ma non lo dico facendo una semplice supposizione e tenendo conto del fatto che i figli, molte volte, sono una specie di bastian contrario e che del buon esempio se ne fregano altamente. Lo dico perché anche in questo caso ne ho avuto esperienza diretta.

Una ragazza a me molto cara, poco più che ventenne, decide di andare a convivere con il fidanzato. Fin qui, nulla di tanto eccezionale. Ma la famiglia è una di quelle tutte casa e chiesa, la figlia stessa ha fatto la catechista per un periodo; rispettosa e ubbidiente, non ha mai trasgredito alle regole. Ma, ad un certo punto, inizia a pensare con la propria testa e decide che vuole andare a convivere, che il matrimonio comporta una spesa che la giovane coppia non può o non vuole sostenere, che se i genitori le vogliono bene non possono non desiderare la sua felicità. Sbagliato!
In casa scoppia il dramma: alla notizia, le viene detto chiaramente: “se te ne vai, per noi sei morta”. A quel punto la ragazza deve scegliere la strada verso la felicità e quella strada la porta dal suo amore. I genitori? Capiranno. Sbagliato anche questo! La poveretta non solo viene bandita dalla casa dei genitori ma anche i parenti tutti, o quasi, le sbattono la porta in faccia. Chi le sta vicino è un’unica zia che per oltre un anno tenta di far da paciere. Con scarsi risultati, purtroppo. Finché succede quel miracolo che da solo mette a posto le cose: un bimbo in arrivo. Di fronte a ciò la famiglia capitola ed è pronta ad accogliere quel bambino perché, sarà pure figlio del peccato, ma è sempre una creatura di Dio, un dono del Signore.

Tutto l’odio, il rancore, l’incapacità di perdonare, tutta quella carità cristiana che è rimasta sepolta chissà dove, per più di un anno, ma comunque lontano dal cuore di quella famiglia, ecco che all’improvviso rimangono un lontano ricordo.

Alla fine i due innamorati si sono sposati civilmente ( ma solo per la creatura in arrivo) e non hanno invitato nessuno, ma proprio nessuno, alle nozze. Quei genitori si sono persi un momento speciale, come può essere un matrimonio, religioso o civile che sia. Per che cosa? Per la solita questione di principio che ben poco ha a che vedere con la religione e il buon senso.

Concludendo, sono favorevole alla convivenza purché sia un impegno preso seriamente e con lo stesso senso di responsabilità che un matrimonio comporta. Perché, poi, in fondo è l’amore che conta, è il legame che si instaura tra due persone che, amandosi, hanno fatto la scelta di proseguire insieme il cammino. Perché è l’amore una “prigione dorata”, non il matrimonio. Così come recita un canto egiziano:

Mi ha legato coi suoi capelli,
Mi ha trafitto con i suoi occhi,
l’arco delle sue braccia è la mia dolce prigione
.

[l’ultima immagine da questo sito]

LA MOGLIE DI COSSIGA

In queste ore di trepidazione, in cui si attendono delle novità sullo stato di salute del Presidente Emerito della Repubblica Italiana Francesco Cossiga, ricoverato da ieri in terapia intensiva al Policlinico Gemelli di Roma, la curiosità dei miei lettori, anzi di quelli che capitano sul mio blog cercando una notizia che non troveranno, sembra essere rivolta alla moglie del Senatore a vita.
Il mio articolo, cui rimanda Google, non tratta della moglie di Cossiga, ma di un’altra consorte, anzi ex: Veronica Lario. Allora mi aveva colpito un’intervista che il Presidente Emerito aveva rilasciato e in cui aveva rivelato in anteprima il “costo” del divorzio del nostro premier.

Della moglie di Cossiga, in verità, non mi sono mai occupata. Fin dai tempi in cui era presidente in carica non ne avevo mai sentito parlare, né avevo visto alcuna donna al suo fianco, tanto da ritenere che fosse scapolo. Poi, però, ho sentito parlare dei suoi figli e ne ho dedotto che, moglie ex o convivente, una donna nella vita del noto “picconatore” ci doveva essere.
Oggi mi sono documentata e ho scoperto che Francesco Cossiga nel 1960 aveva sposato Giuseppa Sigurani, detta “Peppa”, da cui ha avuto due figli: Annamaria (secondo alcune fonti, tuttavia, la figlia si chiamerebbe Francesca) e Giuseppe.
Effettivamente la signora, un po’ schiva come si conviene alla maggior parte dei sardi, non ha mai condotto una vita pubblica da first lady, emulando la signora Voltolina, allora moglie dell’ex presidente Sandro Pertini, predecessore del marito.

Il matrimonio tra Francesco e Giuseppa si concluse nel 1993 con la separazione, seguita dal divorzio siglato cinque anni dopo. Nel 2007, ben 47 anni dopo la celebrazione delle nozze, la Rota Romana (nuovo nome della più conosciuta Sacra Rota) ha annullato il matrimonio. Allora ne parlò Bruno Vespa nel libro L’amore e il potere. Da Rachele a Veronica in secolo di storia d’Italia, suscitando molte perplessità. Perché mai la Rota annulli con facilità le “sacre” unioni, anche in presenza di figli nati all’interno del matrimonio, rimarrà sempre un mistero. Anzi, la cosa può essere spiegata con gli interessi economici: l’istruttoria dura a lungo, mi pare sette anni dalla richiesta, i processi si susseguono e, quindi, anche il conto del Vaticano ne trae beneficio. Proprio su questo tema è più volte intervenuto il papa Benedetto XVI che ha scagliato un severo monito contro questi annullamenti facili. Non conosco, tuttavia, il risultato.

In queste ore, al capezzale del padre ci sono i due figli; nulla si sa della signora Sigurani (né, onestamente, so se è ancora in vita). Quello che è certo, al di là del divorzio e dell’annullamento, Cossiga amò molto la moglie. In un’intervista rilasciata in occasione dei suoi ottant’anni, alla domanda “È stato il matrimonio il più grande dolore della su vita?”, il senatore a vita rispose: «Non amo parlare delle mie cose private. Posso solo dire che la madre dei miei figli era bellissima, intelligentissima, bravissima, molto colta. Che ha educato benissimo i ragazzi. E che io l’ho amata molto». (Intervista de Il Corriere a questo Link)

AGGIORNAMENTO DEL POST, 17 AGOSTO 2010

Il Presidente Emerito della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga, è spirato oggi alle 13 e 18. Ottantadue anni, da lunedì 9 agosto era ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma per dei problemi respiratori. L’ultimo bollettino medico, emesso oggi alle 12, parlava di condizioni disperate, nonostante la ripresa dei giorni scorsi.

Esprimo il mio dispiacere per la scomparsa di un uomo che ho sempre ammirato e rispettato, prima di tutto come uomo. La politica è tutta un’altra cosa. Per questo dico a chi ha pregato per la sua morte: MI FATE SCHIFO!

ADDIO PRESIDENTE: ORA IO PREGO PER LA SUA PACE.

TI SPOSO MA POI SCAPPO … CON L’AUTISTA

sposa,in fugaSembra la trama di un film. Un po’ ci ricorda “Se scappi ti sposo” con Hugh Grant Richard Gere e Julia Roberts, solo che lei, la sposa, scappa prima del matrimonio. Sara, invece, è scappata subito dopo il rito civile e con chi? Con l’autista dell’auto nuziale. Evidentemente suo amico o forse, anzi sicuro, qualcosa di più. Certo ci vuole coraggio ma ce ne vuole ancora di più a rimanere con un uomo che non si ama. O no?

La storia incredibile è accaduta a Trieste più di una settimana fa ma è stata resa nota solo oggi. Veramente mi chiedo perché la notizia sia stata data alla stampa, pur con l’omissione dei cognomi degli sposi. Penso che mai un matrimonio sia naufragato in un tempo da record come questo: giusto qualche ora, presumo, per scattare le foto di rito per un album che, temo, non ci sarà mai. Anche se il costo, sempre alquanto esoso in questi casi, dovrà pur essere affrontato. Da chi? Probabilmente dallo sposo visto che la sposa attualmente è latitante in qualche isola greca, impegnata a passare la luna di miele più strana che possa esistere: quella con un altro.

Il povero Andrea e la fedifraga Sara stavano insieme da poco, dieci mesi soltanto. Lui triestino lei goriziana, convivevano già da qualche tempo a Trieste. Sembrava un colpo di fulmine, e invece … Succede, a volte, di credere in un amore anche se ne hai in testa un altro. Ma qualcosa deve essere scattato nella testa di lei proprio all’uscita dalla sala comunale dove era appena stato celebrato il matrimonio. Posso supporre che l’amico-autista, che magari era stato dolorosamente spettatore muto dell’amore lampo tra i due sposi, abbia dichiarato i suoi sentimenti alla donna chiedendole di fuggire con lui. Peccato che non l’abbia fatto prima, che non le abbia chiesto di rinunciare alle nozze. Anche perché, come dice Andrea nell’intervista, le spese per un matrimonio sono tante, avrebbe potuto fare marcia indietro e amen. Per risparmiare avevano anche rinunciato al viaggio di nozze; come faceva a sapere il poveretto che la “moglie” stava per farlo con un altro a poche ore dal sì? Insomma, la storia è davvero incredibile.

Ora della “sposa lampo” non si sa nulla. Ma Andrea è tornato al lavoro in anticipo, nonostante il permesso di matrimonio che, evidentemente, sapeva più di presa in giro che di altro. Non è difficile immaginare che nessuno abbia osato prenderlo in giro; su queste cose non c’è nulla da ridere e anche se le disgrazie vere sono altre, anche questa situazione assume i contorni di un dramma per chi la vive. Anche perché, pur volendo associarla al mondo di celluloide, di solito le spose scappano prima, come succede, ad esempio, nel film “Il laureato”. Mi viene in mente un solo film, di cui non ricordo il titolo, dove lo sposo viene abbandonato dalla novella moglie che rimane in un’isola caraibica in compagnia dell’istruttore di vela. Ma almeno la luna di miele quel poverino era riuscito a farsela …

Andrea adesso chiederà il divorzio, ovviamente per colpa, ma ha intenzione di far pagare alla moglie anche un risarcimento per danni morali e materiali. Non so se l’otterrà ma credo che il risarcimento più grande possa essere un bel cazzottone sul naso dell’amico. In genere sono contro la violenza ma quando ci vuole, ci vuole. Magari la vendetta lui la sta già covando: i due prima o poi dovranno tornare a casa e Trieste non è certo una metropoli.

[fonte: il piccolo.it, articolo firmato da Laura Tonero, 27 maggio 2009]

AGGIORNAMENTO DEL POST: 29 MAGGIO 2009

Mi viene in mente un solo film, di cui non ricordo il titolo, dove lo sposo viene abbandonato dalla novella moglie che rimane in un’isola caraibica in compagnia dell’istruttore di vela. Ma almeno la luna di miele quel poverino era riuscito a farsela … ”

Ho ricordato il titolo del film in questione: E alla fine arriva Polly, del 2004, con Ben Stiller e Jennifer Aniston. E’ la storia di un assicuratore che viene lasciato dalla neosposa alla fine della luna di miele. Più tardi, però, incontra Polly, ragazza simapatica e un po’ pasticciona, che riesce a farlo innamorare di nuovo. Auguro anche ad Andrea, protagonista di questa incredibile vicenda triestina, una fine lieta come questa!

ANCHE GERRY SCOTTI DIVORZIATO PENTITO

scotti_milionarioPubblico la lettera che Gerry Scotti, famoso presentatore mediast, ha inviato a Il Corriere della Sera dopo la prospettata apertura della Chiesa nei confronti dei divorziati.

«Il mio divorzio come secondo peccato originale»

Caro direttore,

sono un uomo divorziato. E nella mia posizione di cattolico progressista attendevo che la Chiesa si pronunciasse sul tema dei sacramenti per chi ha un matrimonio alle spalle. Ti garantisco che questa sorta di secondo peccato originale che il divorziato deve sentirsi addosso è un peso. E se frequenti una comunità, arrivi a vergognarti nel fare la comunione. In quelle più piccole, addirittura, vieni additato, e non è bello. Per mille motivi, anche di riservatezza, non sono così presente in chiesa come mi piacerebbe. Ma lo faccio tutte le volte che ne sento un bisogno profondo, intimo, davanti al quale non mi fermo. Da poco mi è successo a un funerale e a una cresima, che non mi riguardavano direttamente: prendendo l’eucarestia, però, volevo far capire che partecipavo profondamente.

Di questo mio tormento ho parlato con diversi preti, più amici che consulenti spirituali, e loro, conoscendomi, sapendo qual è la mia storia di cristiano, mi hanno dispensato dal sentire la sofferenza. Devo confessarti, direttore, che non mi ero sposato in chiesa la prima volta, ma in Comune, per rispettare le esigenze della mia ex moglie. E adesso con la mia compagna voglio ponderare bene l’idea del matrimonio in chiesa. Soprattutto per rispetto ai figli delle nostre unioni precedenti, che vanno tutelati e protetti. Il prete e la comunità possono essere benevoli verso di me, ma cosa diranno i nostri figli? E poi se ho sbagliato una volta e il buon Dio mi ha perdonato, non posso rischiare di sbagliare ancora. Non ho mai voluto parlare dei miei fatti privati. Se adesso ho scelto di intervenire è perché questo tema mi sta davvero a cuore. Perché l’apertura nei confronti dei divorziati auspicata dal cardinale Martini mi sembra fondamentale. Arrivare a questo è un traguardo fino a pochi anni fa inimmaginabile. E non oso andare più avanti, a una sorta di benedizione sulle unioni di fatto, perché capisco che è un concetto troppo moderno. Ma accogliere nella Chiesa quanti come me hanno sbagliato è un vero atto di carità cristiana.

Gerry Scotti
21 maggio 2009

Non aggiungo nulla di mio. Sono le parole di un “pentito”, anche se mai sposato in chiesa, che accoglie la notizia di un possibile ripensamento del Vaticano sul veto imposto ai divorziati di aver accesso ai sacramenti.
A uno come Gerry che conclude ogni puntata de Il Milionario dicendo “Che Dio ci perdoni” o cose simili, non si può proprio dir di no.

ARTICOLO CORRELATO: LINK

APERTURA DELLA CHIESA AI DIVORZIATI

Riporto dal corriere.it questo bell’articolo di Isabella Bossi Fedrigotti, scrittrice e giornalista, che collabora da anni con Il Corriere della Sera.

Liberiamo i divorziati dall’ultima catena

Il cardinale Martini, don Verzé e l’accoglienza nella Chiesa dei risposati

di ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

fedrigottiFa bene al cuore legge­re le parole del cardi­nal Carlo Maria Martini e di don Luigi Verzé tratte dal libro che hanno scrit­to insieme, «Siamo tutti nella stessa barca»: paro­le di comprensione, di apertura e di carità cri­stiana di cui da tempo si sentiva un grande biso­gno.

E il pensiero che sono entrambi anzianissimi e uno dei due anche molto malato dovrebbe in un certo senso rassicurare i fedeli più tradi­zionalisti e, perciò, magari, turbati se non proprio scandalizzati dalle lo­ro teorie: tra tutti gli uomini di chie­sa non sono ormai forse quelli più vicini a Dio e dunque in grado, chis­sà, di intenderne meglio la voce?

Doppiamente possono essere ras­sicurati questi fedeli, in quanto, sia pure forse più nell’immaginario co­mune un po’ stereotipato che non nella realtà dei loro cuori, uno è sem­pre stato considerato piuttosto di si­nistra e l’altro piuttosto di destra: due uomini, perciò, che si sarebbero ritenuti di idee contrastanti su tutto o quasi tutto.

L’avesse detto soltanto il cardinal Martini, qualcuno avrebbe pensato: il solito prete comunista; l’avesse in­vece detto soltanto don Verzè, qual­che altro avrebbe ragionato: cosa non si fa pur di venire incontro al Presidente del Consiglio. Invece si sono trovati entrambi d’accordo nel­l’auspicare che la Chiesa si decida in­fine a concedere i sacramenti anche ai divorziati risposati. Ecco, è tutta qui la pietra dello scandalo, la picco­la grande rivoluzione che numerosis­simi in tutto il mondo si aspettano da tempo, spesso anche nella soffe­renza più profonda e quel che è peg­gio, irrisolvibile. Abituati ad ascolta­re confessori che, come condizione per accostarsi all’eucaristia, propon­go loro di vivere in castità se non, addirittura, di tornare con il primo marito o la prima moglie, magari a loro volta ampiamente risposati, è con comprensibile sollievo e gratitu­dine che accoglieranno le parole dei due illustri, anziani sacerdoti.

Il pensiero va in particolare a quei credenti che, abbandonati dal part­ner malgrado loro, per poter conti­nuare a ricevere i sacramenti — una consolazione, si sa, nello sconforto del fallimento sentimentale — si ve­dono costretti a una prospettiva di perenne solitudine, esclusi dalla fe­sta e condannati per un divorzio su­bito, per una colpa, cioè, che non hanno commesso, secondo una giu­stizia che si fa fatica a riconoscere co­me divina.

Don Verzé e il cardinale Martini hanno, con questo loro pronuncia­mento, affrontato una questione de­licata sulla quale in genere le gerar­chie ecclesiastiche non si mostrano molto possibiliste: semplificando al massimo, se, cioè, l’uomo è fatto per la religione oppure la religione per l’uomo; e hanno optato, così sem­bra, per la seconda ipotesi.

Visto il gran numero di abbando­ni della pratica ecclesiastica e viste anche, per esempio in Brasile, le mol­te conversioni ad altre fedi con rego­le meno rigide della nostra cattolica, la si potrebbe a prima vista conside­rare una scelta suggerita da una nu­da e cruda realpolitik. Tuttavia, pen­sando alla storia dei due uomini, leg­gendo i brani della loro conversazio­ne e ascoltando il tono accorato del­le loro voci, si ha piuttosto l’impres­sione che l’istanza comune sia il frut­to di una riflessione basata sulla ne­cessità urgente che la Chiesa, non soltanto in teoria ma anche nella pra­tica, sia davvero vicina ai bisogni dei fedeli.

Una scelta di umana comprensio­ne, di indulgenza e di carità, dun­que: non l’uomo per la religione, ma la religione per l’uomo. Con un’at­tenzione intelligente all’evoluzione della storia e al mutare dei tempi e del costume: da non considerare ne­cessariamente — come a volte si ha l’impressione che la Chiesa conside­ri — opera del diavolo.

20 maggio 2009

L’annosa questione della chiusura della Chiesa nei confronti dei divorziati, e risposati, pare avviarsi verso una felice conclusione. Leggere le parole di Isabella Bossi Fedrigotti rincuora me, che non ho questo tipo di problema, e sicuramente molte persone che, pur avendo “peccato” divorziando e magari risposandosi, ha la fede e vorrebbe essere liberato dall’ingiusta “scomunica” che grava su tale categoria di peccatori.

Tuttavia, nella mia esperienza, ho visto sia un’eccessiva chiusura sia un’inspiegabile apertura nei confronti dei divorziati.
Inizio dalla chiusura: mio fratello, sposato con una divorziata, si è visto negare il battesimo alla figlia in quanto frutto dell’amore nato nell’ambito del “concubinaggio”. Inutile dire, infatti, che per il Vaticano un matrimonio civile, fosse anche il primo per entrambi gli sposi, non ha nessun valore. Ricordo che allora il rifiuto del parroco di celebrare il battesimo aveva fatto infuriare mio fratello ma anche mio padre. Quest’ultimo, giusto per capirne il carattere e la considerazione che ha nei confronti di preti, chiesa e vaticano (li scrivo minuscolo per ribadire il suo pensiero), è sposato in Chiesa pur non essendo cresimato. Il motivo? Il giorno della Cresima, concordato con il vescovo, quest’ultimo non si è presentato. Quindi niente sacramento. Ma mio padre, ritenendo di essere dalla parte della ragione -lui c’era, è stato il vescovo ad ignorare l’appuntamento- si è presentato in chiesa per le nozze nel giorno e all’ora stabilita … ma ha trovato la porta, anzi il portone principale, per la cui apertura aveva pagato un bel po’, chiuso. Tralascio tutti i risvolti della vicenda ma vi assicuro che a nulla sono valse le proteste del parroco … il matrimonio “s’aveva da fare” ed è stato celebrato! Altro che bravi di don Rodrigo.
Tornando al battesimo di mia nipote, inutile dire, fatte le dovute premesse, che la coalizione tra mio padre e mio fratello ha portato alla soluzione sperata: il vescovo in persona ha redarguito il parroco insolvente -più o meno come don Abbondio!- e il battesimo s’è fatto.

L’altro caso che la lettura dell’articolo della Fedrigotti mi ha fatto tornare alla mente è quello della catechista di mio figlio: sposata, divorziata ma responsabile dell’educazione religiosa dei comunicandi e ammessa alla comunione! Beh, la cosa non poteva che farmi piacere soprattutto considerata la stima che avevo nei confronti della “povera” donna che, sposata ad un uomo indegno, era stata abbandonata dal vile e lasciata praticamente con due figli a carico. La pietà nei confronti dell’infelice mi era sembrato il minimo che, considerata la sua devozione, la Chiesa le potesse attribuire. Rimase per me sempre un mistero che fosse ammessa ai sacramenti: come, mia cognata, anch’essa abbandonata dal marito con due figlie piccole da crescere, era scomunicata e a momenti le veniva impedito di metter piede in chiesa, e la catechista godeva di tali privilegi. Insomma, i due casi simili nella sostanza, tranne il fatto che la catechista non aveva un altro marito o altri figli, mi sembrava avessero avuto due trattamenti diversi da parte delle istutzioni religiose. Ma dove sono allora le tanto proclamate “fratellanza” e “uguaglianza“?

Un altro fatto riguarda il battesimo di mio figlio. Ho fortemente voluto che mio fratello fosse il padrino e mia cognata la madrina. Allora non mi aveva sfiorato il dubbio che per la Chiesa due “concubini” non potessero rappresentare una buona guida per un neo battezzato. Ma nessuno mi aveva chiesto nulla e quindi tutto è filato liscio. Da ciò si evince che ci sono preti e preti … per fortuna. Recentemente, però un fatto simile è accaduto ad una mia amica. Essendo convivente, in un primo tempo le era stato negato il ruolo di madrina per la nipotina. Ma attenzione: non a lei in particolare, ma alla coppia “peccatrice” perché lei avrebbe potuto essere la madrina ma non in coppia con il suo compagno. Per farla breve, alla fine l’hanno spuntata ma c’è voluta una pazienza infinita per convincere che, al di là della convivenza, i due erano proprio dei buoni “diavoli“.

Sperando che l’apertura nei confronti dei divorziati sia davvero tale, non ci resta che attendere di conoscere il parere del Papa. Conoscendolo come un conservatore trovo difficile immaginare una sua approvazione. Tuttavia c’è da dire che la Chiesa, in quanto a credenti e praticanti, se la passa maluccio, quindi è plausibile che l’apertura ci sia davvero in futuro. D’altra parte se i matrimoni finiscono sempre più presto, ci si sposa più volte, nascono bambini al di fuori del matrimonio … mi sembra che per ripopolare le chiese ci sia bisogno anche dei divorziati!