LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ: NEGLI USA BOOM DI NASCITE GRAZIE A SANDY

rosa e celeste

Accolgo volentieri l’iniziativa proposta da Laurin42 che invita gli amici blogger a pubblicare, ogni venerdì, delle buone notizie. Spero di riuscire a mantenere questo piacevole impegno anche in futuro. Le buone notizie, infatti, ci sono, anche se troppo spesso vengono sommerse da quelle brutte o bruttissime che non vorremmo mai leggere sui giornali o apprendere dai notiziari tv.
Ovviamente estendo l’invito a tutti voi che leggete e avete un blog. Credo, infatti, che lo spirito dell’iniziativa sia contagiare il prossimo con un po’ di buonumore. Citando Laura stessa:

Possiamo come gruppo generare una forma pensiero che possa navigare nel web colorata come infiniti arcobaleni, vibrante di sensazioni ed emozioni, sonora come una orchestra perfettamente accordata…
Una forma pensiero attrae chi è in sintonia e diventa una energia positiva per molti, ma molti, molti di più…per tutti
.

Una volta si diceva che chi aveva tanti figli non possedeva un televisore. Ora come ora, visto il calo delle nascite, specie in Italia ma in genere in tutti i paesi più “ricchi”, si potrebbe pensare che le coppie guardino un po’ troppa tv. Ci sono, tuttavia, delle eccezioni: può succedere che si assista ad un boom di nascite grazie a … Sandy, l’uragano che, nel novembre scorso, ha colpito l’area fra il New Jersey, New York e il Connecticut.

Negli ospedali americani della zona colpita dalla calamità, stimata tra le più spaventose che il continente nordamericano abbia mai visto, tra luglio e agosto è atteso un aumento delle nascite del 20-30%. Galeotto fu l’uragano, dunque, o per meglio dire il black out che ne è seguito. Ma non è sempre stato così.

Questo tipo di calamità, infatti, è abbastanza frequente in quelle zone e anche l’interruzione dell’energia elettrica. La stessa città di New York è stata colpita da gravi black out nel 1965, nel 1977 e nel 2003. Anche allora si ipotizzò un aumento di natalità che, però, non si verificò. Invece un boom di nascite c’è stato in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001: fu la naturale reazione al dolore causato dal terrorismo, quasi si volesse cercare un conforto, riponendo la speranza di un futuro migliore nella vita e nell’amore.

Ma Sandy fu un evento particolare, come si è detto. Mentre i black out del passato erano durati al massimo un paio di giorni, l’uragano del novembre 2012 causò un’interruzione di energia elettrica molto più duratura che coinvolse decine di migliaia di persone: 600 mila a Manhattan, 500 mila nel New Jersey, 400 mila nel Connecticut. Se si pensa che moltissimi negli USA vivono in grattacieli altissimi in cui, senza elettricità e quindi senza la possibilità di usare l’ascensore, si è praticamente prigionieri, qualcosa da fare in casa si doveva per forza trovare. Senza contare che il riscaldamento in tilt costrinse le persone ad utilizzare il calore umano sicché …

Viva la vita, allora! E che tanti fiocchi azzurri e rosa colorino le strade di New York e le altre città colpite da Sandy. E dire che normalmente un uragano semina morte e distruzione.

[fonte: Il Gazzettino]

E ora un piccolo omaggio a chi come me, negli anni Ottanta, ha sognato i capelli ricci e i pantacollant effetto pelle di Olivia Newton Jones, la dolce e romantica (prima della trasformazione) Sandy di Grease

VOGLIA DI MARE E … DI CALDO

neve a maggio
La chiamano Ginevra ma nulla ha a che vedere con la regina, sposa di re Artù e amante di Lancillotto. Lontana dai romantici, seppur peccaminosi, versi che Dante dedica alla coppia fedifraga nel V canto dell’Inferno, assimilandola alla triste storia di Paolo e Francesca:

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse; […]
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante
.

Perfino quel basciato toscaneggiante ci ispira calore, quello buono, quello dell’amore. E invece qui fa freddo, un freddo insolito per la fine del mese di maggio. E Ginevra, regina focosa, che c’entra con questa perturbazione che dal nord Europa sta riportando la neve sulle montagne (la vedo dalla mia finestra) e tanta pioggia in pianura? Solo il vento che non dà pace alle anime dei lussuriosi nell’inferno dantesco ha qualche attinenza con il meteo di questi giorni.

Al Nordest dicono che era da 37 anni, dai tempi del terremoto del Friuli, che non si sentiva tanto freddo e non si vedeva tanta pioggia che ti entra dentro, ti penetra nelle ossa facendoti avere voglia di sole e mare. Ma pare che dovremo aspettare.

Mi sono goduta tre ore di sole in spiaggia il 1° maggio. Mai avrei pensato che fosse l’unica occasione per abbronzarmi e farmi scaldare dal sole di maggio che a volte sa essere generoso. Immaginavo di passare tutti i we al mare, come faccio sempre, magari portandomi dietro i compiti da correggere, che a fine anno non mancano mai e nemmeno durante gli altri nove mesi di scuola. E invece sono a casa, ho ripreso il piumino stamattina per uscire. Sul letto ho la termocoperta e rimpiango la trapunta tolta due settimane fa, in preda all’ottimismo, già lavata e riposta in armadio. Quasi quasi accendo la stufa per scaldarmi ché a stare fermi alla scrivania l’umidità e il freddo si sentono ancora di più.

Io sono decisamente stufa di questo tempo. Non ne posso più. E voi?

LE GAMBE DELLA PROF

camero diaz prof

Era stato staccato un pannello della cattedra per guardare le gambe della supplente. Eravamo una classe maschile, seconda liceo classico, sedicenni e diciassettenni del Sud, seduti d’inverno nei banchi con i cappotti addosso. La supplente era brava, anche bella e questo era un avvenimento. Aveva suscitato l’intero repertorio dell’ammirazione possibile in giovani acerbi: dal rossore al gesto sconcio. Portava gonne quasi corte per l’anno scolastico 1966-1967.
Si era accorta della manomissione solo dopo essersi seduta accavallando le gambe: aveva guardato la classe, la mira di molti occhi, era arrossita e poi fuggita via sbattendo la porta.

Il brano è tratto da In alto a sinistra, una raccolta di racconti di Erri De Luca (Feltrinelli, 2007. Per leggere l’intero racconto CLICCA QUI), un autore che amo molto, anche se l’ho scoperto da poco.

Siamo in prima, ora di Narrativa. Gli studenti dovevano leggere il racconto come compito a casa. Io l’ho letto solo un’ora prima, mentre quelli di quarta scrivevano il tema.
Una lettura gradevole che mi ha riportato alla mente “antichi” ricordi. Caso strano, ne parlo con quelli di prima. Sono curiosi, mi ascoltano sempre con attenzione (be’, non sempre e non tutti 😦 ), quando spiego l’epica pendono praticamente dalle mie labbra. Insomma, meritano che io parli un po’ di me, ci conosciamo poco, in fondo. Solo quattro ore alla settimana, solo Italiano, troppo poco per conoscerci bene.

L’episodio risale a vent’anni fa. Non ero supplente, ero di ruolo già da qualche anno. Giovane e carina sì, non lo posso negare. Ma io non ho mai avuto la percezione di me come realmente sono, mi vedo diversa da come mi vedono gli altri, penso sempre di essere più brutta di quanto mi si faccia credere. Mi sento pirandelliana stasera. Avete mai letto Uno nessuno e centomila? Oggi mi sento Moscarda, anzi, mi sono sempre sentita un po’ Moscarda.

Insomma, ai tempi mettevo la minigonna (anche ora, di tanto in tanto, ma un po’ meno corta di allora). Un giorno ero al bar con una collega, ragazza alquanto graziosa. Arriva il segretario, uomo detestabile e detestato molto dalla sottoscritta, in compagnia di un impiegato, persona gentile e amabile. Il segretario guarda me e la mia collega (dovrei dire: guarda le gambe mie e della mia collega) ed esclama, rivolto all’impiegato ma con un tono di voce decisamente alto per essere uno scambio privato di battute: “Ecco le gambe più belle del liceo“. Io e la mia collega ci siamo guardate e con la coda dell’occhio ho visto il povero impiegato che arrossiva. L’altro se la rideva che era un piacere … solo per lui, naturalmente.
Ma che c’entra tutto questo con il pannello della cattedra di cui parla De Luca? Nulla, ma volevo fosse chiaro che, se pensavo che nessuno si curasse di me, mi sbagliavo. Le mie gambe non passavano inosservate, evidentemente.

Ma arriviamo alla cattedra, anzi no, c’è un preambolo e una precisazione da fare. Quanto a quest’ultima, le cattedre (che erano sempre quelle dall’anno di fondazione della scuola, quindi avevano una settantina d’anni) erano proprio quelle di cui parla de Luca, quelle con il pannello davanti che aveva la funzione di impedire ai ragazzi la visuale della parte inferiore del corpo di chi vi stava seduto. Il pannello, tuttavia, non copriva interamente il davanti della cattedra, lasciava uno spazio sotto di circa 20 cm, forse 30. Non ho la percezione delle misure.

Arriviamo al preambolo che poi, in pratica, ci porta dritti dritti all’episodio in questione, si fonde con esso.
Ricevimento genitori. Arriva una mamma, mi squadra da capo a pie’, mormora appena un cenno di saluto, si siede davanti a me ed esordisce: “Ecco perché vuole sempre venire mio marito a parlare con Lei! Ma mio figlio mi ha avvertito, sa? Sono venuta io, oggi!”. Io rivolgo alla signora uno sguardo perplesso, non ci capisco nulla, che c’entra il marito e che le ha detto il figlio? La signora, nonostante mi si legga in faccia che non so di cosa stia parlando, prosegue il discorso assolutamente noncurante ed evidentemente fiduciosa nella mia perspicacia. Insomma, dovevo capirlo da me perché il marito non l’aveva mai mandata a colloquio.
“Non si è mai chiesta – continua la mamma – perché a mio figlio cada continuamente l’astuccio con le penne?“. Il figlio è in primo banco ed effettivamente l’astuccio gli cade almeno tre volte in un’ora. Mi viene da rispondere “se ha un figlio scemo, signora …” ma non è nel mio stile. Preferisco giustificare il fatto attribuendo ogni responsabilità al banco troppo piccolo e poco profondo. Quei banchi di una volta, in formica verde, quelli che avevano ancora il posto per il calamaio. Lo Stato, si sa, non ha mai soldi da destinare alla scuola e le suppellettili, almeno 20 anni fa, lasciavano a desiderare.
“Nossignora! – replica la genitrice – Non ha mai fatto caso che gli cade solo quando porta la gonna?”.
Ok, ho capito. Che stupida! Perché non l’avevo mai capito prima? Forse perché non ho mai pensato che le mie gambe potessero destare interesse a dei ragazzini di 15 anni. Avrò pure avuto vent’anni in meno, ma non credevo si potesse arrivare a tanto solo per vedere le gambe della prof seduta in cattedra.

Termino il racconto. I miei ragazzi di prima sono divertiti. Ma soprattutto mi chiedono cosa sia successo al figlio di quella mamma. Nulla, perché? In fondo non ha fatto niente di male, non ha mica smontato il pannello della cattedra!
Faccio fatica a tenerli buoni ed è cosa rara visto che basta poco per zittirli.
Inizia la lezione vera. Accavallo le gambe, tanto c’è il pannello. Tanto indosso i jeans, che stupida!
Tanto ho vent’anni in più. Ancora più stupida.

UNA POESIA PER LA MAMMA

con mamma nonna a firenze
Mamma! Mammina mia!

Sei bella come una stella,

sei la più buona, sorridi sempre

e il tuo sorriso va nei miei occhi.

Hai una voce dolce che io sempre sento.

Io ti amo molto mamma

e non ti lascerò mai!

Questa poesia devo averla scritta quand’ero in prima o seconda elementare. L’ho riscoperta di recente grazie a mia mamma che ha ritrovato, nel tipico scatolone dei ricordi, un mio vecchio quaderno con la raccolta di poesie che amavo scrivere da bimba.

Vabbè, non è che sia un capolavoro poetico, ma almeno ci provavo. Poi devo aver smesso quando, raggiunta l’età della ragione, ho capito di non avere talento con i versi. Però da ragazzina scrivevo canzoni, accompagnandomi con la chitarra.

La fotografia sotto il titolo ritrae le femmine di casa Moles: mia mamma, la nonna ed io, con gli immancabili capelli corti e con il caschetto da fare invidia a Caterina Caselli. Sarà per quello che ho il broncio?

Siccome, però, mia mamma era bellissima davvero, e lo è tuttora, ma nella fotografia (scattata in occasione di un viaggio a Firenze) non è venuta bene, ne posto un’altra qua sotto che rende maggiormente merito alla sua bellezza.

mamma firenze

Ed ora, anche se la domenica della Mamma sta passando in fretta (e inosservata, almeno a casa mia … i figli latitano!), faccio gli AUGURI A TUTTE LE MAMME, TUTTE BELLISSIME, BUONISSIME, SORRIDENTI E CON LA VOCE DOLCE!

ADDIO OTTAVIO, RE DEI COLORI

rosita-missoni-ottavio
Ottavio Missoni, scomparso oggi all’età di 92 anni, era nato a Ragusa nel 1921, anche se aveva passato tutta la sua infanzia e giovinezza a Zara. Diceva che, quando ci nasci, la terra dalmata non si può mai scordare così come lo stilista non aveva mai dimenticato la “sua” Trieste, in cui aveva vissuto la prima età adulta, aperto “bottega” (un semplice laboratorio di maglieria in società con l’amico Giorgio Oberweger) e conosciuto Rosita Jelmini che sposerà nel 1953, dopo cinque anni di fidanzamento.

Ma Ottavio Missoni non è stato solo un creativo al telaio, dal quale sono usciti gli splendidi e unici capi di maglieria, quasi arazzi, conosciuti in tutto il mondo. Ottavio era anche uno sportivo e per anni si dedicò all’atletica leggera, specialità in cui ottenne prestigiosi riconoscimenti.
Durante la seconda guerra mondiale combatté nella battaglia di El Alamein e venne fatto prigioniero dagli alleati. Dopo avere passato 4 anni in un campo di prigionia in Egitto, nel 1946 fece ritorno in Italia, a Trieste, dove si iscrisse al Liceo Scientifico intitolato all’irredentiscta Guglielmo Oberdan.

La moglie di Missoni, Rosita, apparteneva ad una famiglia agiata che possedeva una fabbrica di scialli e tessuti ricamati a Golasecca, in provincia di Varese. Fu così che i due sposi ben presto lasciarono Trieste spostando l’intera produzione artigianale a Sumirago, che diventò il quartier generale della Maison.

Come non aveva mai dimenticato la Dalmazia, sua terra d’origine, Ottavio non aveva mai scordato Trieste, la città adottiva che l’aveva accolto esule e dove aveva mosso i primi passi nell’attività in cui, più tardi, avrebbe espresso al meglio tutto il suo talento creativo.
Nel 1983 la città giuliana gli conferì il premio San Giusto d’Oro, riconoscimento per quei “triestini” (naturali o adottivi!) che portano alto il nome di Trieste nel mondo. Missoni non smise mai di ritornare nella città della bora e non mancava ai raduni degli esuli dalmati. Nel 2008 l’allora sindaco Di Piazza lo insignì della cittadinanza onoraria.

Una vita, quella di Missoni, dedita alla famiglia e al lavoro. Per questo fin dal suo primo trasferimento a Sumirago aveva deciso di stabilire nel paese in provincia di Varese l’azienda e la residenza. Un matrimonio felice e duraturo, quello con Rosita, rallegrato dalla nascita di tre figli: Vittorio, nato nel 1954, Luca nel 1956 e Angela nel 1958. Lo sorso gennaio Ottavio dovette affrontare con forza la scomparsa del primogenito: l’aereo da turismo su cui viaggiavano Vittorio Missoni e la moglie scomparve presso Los Roques, in Venezuela. Una tragedia che ha portato con sé tanto dolore e speranza ma che non ha restituito i corpi degli sventurati.

Un dolore dal quale forse Ottavio non si era mai ripreso.
Ora spero che padre e figlio si siano riuniti in un altro mondo, forse meno colorato. Ma i colori di Missoni, assieme al suo sorriso buono, rimarranno sempre nei cuori di chi l’ha amato e stimato nella lunga carriera. Un successo che non gli ha mai fatto perdere l’umiltà che caratterizza la gente dalmata e giuliana, gente che ha dovuto combattere per la propria terra e che la porta per sempre nel cuore, anche quando vive lontana dalle sponde blu dell’Adriatico.

Addio, Ottavio. Possa un soffio della “tua” bora portarti questo saluto.

Ottavio Missoni

KEIRA E VALERIA, SPOSE DI MAGGIO

99-237644-000007Lei è Keira Knightley, attrice inglese, classe 1985, con alle spalle una carriera di tutto rispetto. Una persona semplice, alquanto schiva, ricca e famosa ma non per questo si è montata la testa. Ricordo la polemica scoppiata nel 2004 quando nella locandina di King Arthur (pellicola che non ebbe molto successo di pubblico ma che consacrò definitivamente Keira, nelle vesti della regina Ginevra) le ritoccarono il seno, poco generoso, e lei si infuriò. Da allora sono passati nove anni e la sua spontaneità emerge anche dalle fotografie del suo matrimonio.
Il 4 maggio l’attrice ha sposato, in Provenza, James Righton, tastierista della rock band Klaxons. Il rito civile è stato celebrato nel municipio di Mazon alla presenza di soli 11 persone. Poi la coppia ha festeggiato le nozze con una cinquantina di invitati, fra amici e parenti, nel casale di famiglia.
La sposa indossava un abito semplice – dicono riciclato – e delle graziose ballerine ai piedi. Un semplice completo blue per lui che sembra poco più che adolescente.

marini sposaQuest’altra sposa di maggio non credo abbia bisogno di presentazioni. Ieri la quarantaseienne show girl italiana, la Valeriona nazionale, ha sposato l’imprenditore Giovanni Cottone nella basilica dell’Ara Pacis Coeli di Roma. Fasciata da un abito, ovviamente bianco, stile sirena tutto pizzo e velo con strascico, è arrivata davanti alla chiesa e subito protetta, grazie a qualche decina di bodyguard, dall’assalto dei paparazzi (uno dei quali pare abbia bestemmiato al suo arrivo) ansiosi di riprenderla. Per coprire la sposa sono stati utilizzati degli ombrelli bianchi perché l’esclusiva delle fotografie era già stata concessa a qualche rivista. Senza contare la diretta Tv della cerimonia, mandata in onda su Rai 1 all’interno della rubrica “Così è la vita”, condotta da Lorella Cuccarini.
Otto testimoni per gli sposi, quattro a testa, fra cui celebrità come la Cucinotta, la Trump e Bertinotti. A seguire un ricevimento a Villa Piccolomini con 700 invitati a cui la Marini ha chiesto «un tocco d’oro nel proprio look».

Dicono che la classe non sia acqua. Personalmente credo che l’eleganza, la sobrietà, il bon ton siano insiti nel codice genetico di una persona. C’è che ci nasce e chi no.

[foto Keira da questo sito; foto Valeria da questo sito]

REGGISENO MON AMOUR … ADIEU?

jessica_rabbit
Ha da poco festeggiato il suo primo secolo eppure il reggiseno pare destinato a finire in qualche cassettone assieme ad altri “cimeli d’abbigliamento”.

Una recente indagine, infatti, ha rivelato che portare il reggiseno sarebbe addirittura controproducente. Pare che il suo uso indebolisca i muscoli pettorali e impedisca al seno di reggersi da solo. In altre parole: una volta tolto, se portato per molti anni, il seno cadrebbe inesorabilmente. Al contrario, non portandolo affatto, i muscoli si allenerebbero da soli e sarebbero in grado di sostenere … l’impalcatura!

La ricerca, curata dal professor Jean-Denis Rouillon, specialista di medicina sportiva del Centre Hospitalier Universitaire di Besancon, in Francia, ha coinvolto 130 volontarie, d’età compresa tra i 15 e i 35 anni, alcune delle quali hanno accettato di rinunciare al reggipetto. Tutte si sono sottoposte ad una regolare misurazione del seno e i risultati hanno dimostrato una maggior resistenza del seno a cadere in quelle donne che hanno rinunciato al push-up e simili.

Nell’articolo francese in cui vengono riportati i risultati della ricerca, si legge una cosa alquanto inquietante: A l’âge de 25 ans, les seins d’une femme sur deux présente des signes de relâchement (All’età di 25 anni il seno di una donna su due inizia a presentare dei segni di cedimento).
Posso assicurare che per me non è stato così, appartenendo alla generazione di ragazzine che negli anni ’70 se ne andava in giro tranquillamente senza reggiseno. Allora si usava e non vi dico che spettacolo offrivamo noi giovanette quando era necessario correre per prendere al volo l’autobus alla fermata!
Fatto sta che dopo due allattamenti, protratti per 7 mesi ciascuno, e alla mia non più giovanissima età del reggiseno non avrei proprio bisogno, anche se lo indosso per non sentirmi a disagio e poi, grazie al mio secondogenito, ho guadagnato addirittura una misura! Per questo credo che il risultato della ricerca francese possa essere attendibile.

Tuttavia ora al reggiseno non rinuncio: ne ho una trentina di tutti i colori e forme, con pizzo e senza pizzo, sexy e sbarazzini …. insomma, sono troppo belli per buttarli via.

IN UFFICIO: IL VICINO DI SCRIVANIA INVIA E-MAIL INVECE DI PARLARE. SI RISPARMIA TEMPO

e-mailLe comunicazioni interpersonali stanno cambiando. Ce ne eravamo accorti.
Nell’era delle telecomunicazioni, il vis-à-vis è passato di moda. La chiacchierata al bar è sostituita dallo scambio veloce di sms. Internet è alla portata di tutti (o quasi) in qualsiasi momento della giornata, basta avere iPhone. Una e-mail non fa male a nessuno e si risparmia tempo.
Ma in ufficio ha senso che per comunicare tra vicini di scrivania si utilizzi la posta elettronica?

Me ne parlava tempo fa un amico, uomo vecchio stampo che, alle prese con un nuovo lavoro, trovava decisamente insopportabile l’utilizzo delle e-mail per comunicare con il collega la cui scrivania si trovava proprio di fronte alla sua. L’azienda, però, voleva così. Meno perdite di tempo e poi … scripta manent. Così nessuno poteva trovare scuse, dire “l’avevo detto”. Eh già, verba volant.

Non tutti, però, gradiscono questo genere di comunicazione. Il Daily Mail ha appena pubblicato i risultati di una ricerca dell’Institute of Leadership & Management su 2.165 manager inglesi. Al secondo posto, dopo il ritardo con cui ci si presenta alle riunioni, fra le cose più sgradite c’è proprio l’utilizzo della posta elettronica per comunicare con il vicino di scrivania.

Certamente le nuove tecnologie migliorano la vita. Non sempre è possibile, infatti, comunicare in tempo reale con persone distanti. Anche per chi lavora presso la stessa azienda può essere un disagio, oltreché una perdita di tempo, spostarsi da una stanza all’altra, quando non addirittura da un piano all’altro o raggiungere una sede staccata. Ma ha senso scriversi se si lavora fianco a fianco o comunque nella stessa stanza?

Il mio lavoro richiede decisamente relazioni diverse tra colleghi. Per la maggior parte, poi, i contatti avvengono in orario extrascolastico, visto che durante la mattinata si sta ognuno nella propria classe seguendo il proprio orario. Tutt’al più ci si può relazionare nelle ore libere in sala professori o al bar. Però abbiamo anche noi delle esigenze che richiedono comunicazioni veloci e in grado di raggiungere più persone contemporaneamente.
Ad esempio, lo scambio di materiali didattici oppure gli accordi da prendere riguardo ad una riunione richiedono lo scambio di e-mail. Senza contare che, una volta scritto il verbale di un consiglio o di altra riunione, lo si può spedire in visione alle persone interessate prima della stampa e della consegna agli atti. Visto che nessuno è infallibile, magari qualche occhio in più può scovare l’errore o l’imprecisione che nella stesura erano sfuggiti.

L’unica cosa che, sinceramente, non mi piace è l’invio a più destinatari contemporaneamente. In primo luogo è fastidioso che tutti sappiano l’indirizzo di posta elettronica di persone estranee (parlo, evidentemente, di comunicazioni personali che non riguardino esclusivamente i colleghi di lavoro) e poi capita pure di essere “interpellati” su questioni di nessuna importanza solo perché il mittente non si è dato pena di selezionare i destinatari. Questa disattenzione, diciamo pure menefreghismo, porta alla perdita di tempo prezioso. Non tanto per la lettura della mail in sé, quanto perché, non capendo assolutamente nulla della comunicazione ma vedendosela recapitare, ci si sforza di capire e per farlo si legge il messaggio cento volte prima di rendersi conto che non era destinato a noi.

Verrebbe da pensare che a noi italiani (non solo agli inglesi) troppe cose diano fastidio. Effettivamente non sono troppi i comportamenti fastidiosi ma hanno una caratteristica comune: la mancanza di rispetto. Osserva Pier Luigi Celli, studioso di fenomenologia aziendale e direttore generale dell’università Luiss Guido Carli di Roma: «Il tratto distintivo degli italiani è la mancanza di rispetto. Lo facciamo senza rendercene nemmeno conto perché siamo di un individualismo notevole».

Ma sarà vero?

[fonte: Il Corriere]