I DOCENTI PROTESTANO: NIENTE TEST INVALSI

Ho già avuto modo di esprimere il mio parere sull’utilità o meno dei test InValsi. Tuttavia, la mia contrarietà era rivolta, in particolare, alla proposta avanzata dal ministro del MIUR, Mariastella Gelmini, di utilizzate i risultati dei test InValsi per la promozione del merito degli istituti scolastici.

Allora mi ero allineata all’opinione espressa dal professor Giorgio Israel, secondo il quale l’Invalsi deve restare rigorosamente fuori dalla valutazione dei docenti e anche l’ipotesi di fare degli utenti, cioè studenti e famiglie, i principali attori della valutazione della scuola e dei docenti, è una “scorciatoia illusoria” anche perché esposta a gravi errori. (LEGGI L’ARTICOLO)

Ora vengo a sapere che i Cobas propongono una specie di sciopero bianco, invitando i Collegi dei Docenti delle varie scuole a rifiutare la somministrazione dei test in questione. (QUI IL FAC SIMILE DELLA DELIBERA)
Fra le motivazioni si legge:

I test sono uno strumento solo apparentemente oggettivo (se decontestualizzati non possono che rilevare parzialità inficianti);
•veicolano una cultura frantumata e nozionistica (tutto il contrario di quanto si è andato affermando nella scuola: approfondimento, collaborazione, progettazione, verifiche mirate e articolate);
provocano ansia e agevolano solo alcuni, tagliando fuori i più abituati a contestualizzare, chiarire e approfondire;
•non tengono conto delle varie e diverse intelligenze;
•risultano avulsi rispetto alle progettazioni interne alle varie scuole (il modello uguale per tutto il territorio nazionale non può prevedere percorsi particolari);
•sono del tutto estranei alla nostra cultura e vengono, senza alcuna mediazione né contesto, importati dai paesi anglosassoni (che stanno cercando di liberarsene) e implementati forzosamente;
•diventano motivo discriminante tra classi e insegnanti;
•rischiano di fornire un quadro distorto della realtà “scuola”, nel momento in cui vanno ad influire sulla carriera e sulla dignità professionale degli insegnanti e mirano a valutare il merito degli studenti;
•il sistema nazionale di valutazione spinge a standardizzare l’insegnamento, uniformando le scelte didattiche alle richieste dei test, senza più tener conto delle caratteristiche del territorio, delle singole classi e dei singoli alunni, riducendo drasticamente il pluralismo nella scuola;
•Spingono i docenti a modificare la propria programmazione, elaborata sulla realtà concreta della classe, piegandola invece all’addestramento ai quiz

Ho già evidenziato in grassetto le parti sulle quali mi sento di concordare. Tuttavia, al di là della validità delle motivazioni che spingerebbero al rifiuto di questo tipo di strumento di valutazione, che certamente ha i suoi limiti, non mi sento di esprimere la condivisione del rifiuto della somministrazione dei test. Questo perché, a parte il fatto che non hanno mai fatto male a nessuno, la presa di posizione dei Cobas assume dei contorni che possono venir letti, specie da chi non ha delle specifiche competenze sul mondo della scuola, come l’ennesimo rifiuto dei docenti di farsi valutare. Perché, è innegabile, dai risultati del test InValsi si è sempre letta, tra le righe, l’efficacia o meno della didattica. Fatto questo che parte da presupposti errati in quanto, come già sottolineato nelle motivazioni espresse dai Cobas contro la somministrazione dei test, non è possibile prestar fede ai risultati scarsamente oggettivi e, soprattutto, difficilmente adattabili alle molteplicita dei contesti.

Detto questo, anche a costo di sottoporre i nostri studenti all’ansia da prestazione, di costringere i docenti ad allenare i discenti a superare i test, perdendo di vista le peculiarità dei singoli programmi e delle diverse azioni didattiche, sempre adattate ai singoli contesti, manifesto la mia decisa contrarietà alla mozione dei Cobas proprio perché non si pensi che la scuola italiana, e i docenti in particolare, ha il terrore di essere valutata.

Piuttosto, mi auspico che vengano elaborate, prima o poi, delle prove nazionali che si adattino alla specifica realtà della scuola italiana, anche se sarebbe in ogni caso assai difficile trovare uno strumento di valutazione che sia adattabile ad ogni singola scuola e regione.

12 pensieri riguardo “I DOCENTI PROTESTANO: NIENTE TEST INVALSI

  1. Condivido in toto quello che lei dice e la preoccupazione che un rigetto totale assomigli a un rigetto della valutazione in quanto tale. L’unico punto su cui non sono d’accordo è che i test non possano far male. Se la necessità di prepararsi al superamento dei test diventa invadente allora il risultato sarà che in classe non si svolgerà più alcun programma, bensì ci si rivolgerà esclusivamente all’addestramento per superare i test. È il cosiddetto “teaching to the test”, che sta facendo tanto discutere negli USA dove si stanno rendendo conto dei disastri cui conduce. Quando vedrà arrivare gli opuscoli di preparazione ai test Invalsi si renderà conto che invece di insegnare Dante o le proporzioni sarà costretta a occuparsi prevalentemente dell’addestramento ai test. Il problema esiste e non si vede perché non si debba proporre una linea diversa da quella dei Cobas. La soluzione è chiedere un diverso sistema di valutazione. Io l’avevo proposto e avrei potuto dettagliarlo ulteriormente, ma è prevalsa la linea aziendalista. Di passaggio, noto che, proprio a causa di questa scelta da cui dissento radicalmente, non mi si può definire un “collaboratore stretto”, quantomeno su questo tema.

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  2. Grazie, prof. Israel, per il Suo intervento. Mi fa piacere che condivida il parere che ho espresso sulla proposta dei Cobas. Purtroppo, grazie alle discussioni che spesso affronto su queste pagine con persone che non fanno parte del mondo della scuola, ho compreso che l’immagine che abbiamo è quella di docenti terrorizzati dall’idea di farsi valutare. Non è così, o per lo meno non lo è per la maggior parte di noi. Credo, tuttavia, che fare ostruzionismo serva a ben poco. Però è anche vero che il ministero va un po’ per conto suo e non ascolta la voce di noi docenti. Ritengo sia necessaria, a questo punto, un’apertura da parte del MIUR e spero vivamente che, nel caso fallisse la sperimentazione del merito, si trovi al più presto un’altra strada percorribile senza scontentare le parti interessate.

    Quanto ai test InValsi, quando ho detto che non hanno mai fatto male a nessuno, volevo sdrammatizzare un po’. Secondo me si possono accettare a patto di non farsi condizionare, senza addestrare gli allievi a superarli e, soprattutto, senza barare e aiutarli suggerendo, com’è successo in alcune scuole. Il problema esiste, certamente, ma non so quanto ci vorrà per ottenere un sistema di valutazione diverso, visto che alla fine a prevalere è sempre, come Lei dice, la linea aziendalistica. 😦

    Mi scuso se l’ho definita “stretto collaboratore” della Gelmini ma mi sono rifatta alle notizie che ho trovato su di Lei. Mi fa piacere, comunque, che ci siano persone come Lei che collaborano senza sentirsi obbligate a dire sempre di sì. D’altra parte un confronto fra pareri diversi è molto più costruttivo. L’importante è che le voci siano ascoltate, tutte, non solo quelle in linea con le intenzioni programmatiche del ministero.

    Buona giornata.

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  3. Mi ero ripromesso di non commentare più i tuoi post sul tema dei test Invalsi, ma devo fare un’eccezione per quest’ultimo, per confermarti che è proprio così: leggo la posizione dei Cobas esattamente come l’ennesimo rifiuto dei docenti di farsi valutare. Loro, quel che la scuola insegna e come lo si insegna.
    Continuo a pensare che tutte le motivazioni addotte siano pretestuose e costituiscano un semplice rifiuto:
    a) Ad introdurre strumenti che premiano la meritocrazia
    b) Ad accettare confronti sul piano internazionale.
    Non capisco le motivazioni contrarie (oggettività solo apparente, solo nozionismo, eccessi d’ansia, estraneità alla nostra cultura, etc., etc.) e, nonostante l’autorevolezza del prof Giorgio Israeli, ritengo del tutto infondata l’affermazione per la quale si andrebbe a finire più con l’ insegnare a rispondere ai test che a studiare Dante.
    Sarò pure uno di quelli che parla senza avere “delle specifiche competenze sul mondo della scuola”, ma qualcuno forse un giorno mi spiegherà perché mai dopo tanti anni:
    – Nessuna proposta è mai stata fatta, da coloro che le specifiche competenze dovrebbero avere, per legare le retribuzioni e le carriere ai risultati conseguiti;
    – I confronti internazionali vedono la nostra scuola perdente e chi può manda a studiare i propri ragazzi all’estero.
    Mi scuso per l’intervento, che so a priori che non gradirai. Non volermene.

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  4. Intervengo per condividere in pieno quanto detto dal professor Israel, che ha compiuto e compie un lavoro enorme per difendere la scuola italiana da una deriva perniciosa. Le recenti posizioni manifestate da Roger Abravanel su Il Sussidiario, esposte con una superbia apodittica pari solo alla loro insensatezza, rappresentano l’esemplificazione massima di quale terrificante prospettiva si stia aprendo per la libertà di insegnamento in Italia. Credo che stavolta i Cobas, dei quali non ho mai condiviso nessuna iniziativa, stiano facendo qualcosa di giusto.
    Grazie per l’ospitalità

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  5. @ frz

    Immaginavo che rompessi il silenzio e, comunque, non è vero che non gradisco il tuo commento, mi dispiace solo che non riesci a capire quello che ho spiegato più volte e in modo chiaro. se poi non ti fidi nemmeno del parere autorevole del prof. Israel, allora non so che altro dire. Non ho nulla da aggiungere rispetto a ciò che ho detto qui e altrove.

    In ogni caso, avrai notato che questa volta non mi allineo con il pensiero dei Cobas, a dimostrazione che so pensare con la mia testa e non mi lascio facilmente influenzare.

    Perché in tanti anni nessuna proposta è mai stata fatta, da coloro che le specifiche competenze dovrebbero avere, per legare le retribuzioni e le carriere ai risultati conseguiti, dovresti chiederlo al prof. Israel o a qualche altro esperto. E non è vero che chi può manda a studiare i propri ragazzi all’estero, perché la scuola italiana, al di là delle classifiche, è una delle migliori nel mondo a livello di preparazione. Prova ne sia che quando tornano quegli studenti che passano un anno (o un semestre) all’estero – più per fare un’esperienza diversa che per migrare verso lidi migliori – c’è da mettersi le mani nei capelli. Dimenticano anche quello che negli anni precedenti hanno imparato e si trovano in difficoltà per mettersi al passo con il programma che i compagni nel frattempo hanno studiato.
    Mi è venuto in mente un articolo di Luca Cavalli Sforza (datato, però, 1993) in cui, parlando della scuola secondaria americana, la definisce intellettualmente assai poco stimolante (QUI trovi l’articolo). E dopo aver provato l’esperienza di studio all’estero, si è convinto che quella italiana è la scuola migliore. (nell’articolo, tuttavia, parla in particolar modo dell’utilità dello studio del Latino)
    Comunque, non dimentichiamo che la panoramica dell’istruzione secondaria di II grado in Italia è talmente variegata che non si può fare un discorso troppo generalizzato.

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  6. @ Giotto

    Io ringrazio Lei per il suo intervento. Ho letto l’intervista ad Abravanel e non ne condivido una sola riga. Anche lui si muove nel mondo della scuola con la forma mentis tipica di chi pensa ad una azienda. Propone cose assurde; ad esempio, secondo lui il Dirigente deve valutare i suoi docenti perché solo lui li conosce: ma come fa a conoscerli e a valutare il loro operato se sta sempre rinchiuso nel suo studio, sommerso dalle carte a fare il burocrate, terrorizzato dalla responsabilità penale che grava su di lui e sta sospesa sul suo capo come la spada di Damocle? Se quando deve assegnare i docenti alle classi la cosa che più lo preoccupa è quella di far quadrare i conti a scapito della didattica …

    Insomma, Abravanel a parte, la scuola italiana , se dovesse ridursi ad un luogo dove somministrare test, sacrificherebbe la peculiarità che ha sempre avuto: quella di sviluppare lo spirito critico attraverso la rielaborazione dell’appreso e la sua riapplicazione in contesti diversi. Il cosiddetto “teaching to the test”, come sostiene il prof. Israel, non fa al caso nostro e ciò non significa non voler cambiare, ma se vogliamo la qualità non è questa la strada da percorrere.

    Infine, come ho spiegato al prof. Israel, non appoggio l’iniziativa dei Cobas perché fare ostruzionismo a questo modo significa alimentare ancor di più le voci che sostengono che la scuola non vuole essere giudicata.

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  7. Scusami, ma ti devo rubare ancora un po’ di spazio per chiarire il mio pensiero.

    Prima di tutto non è vero che non fido di quel che dici in merito ai test. Lo capisco benissimo: sono uno strumento impreciso e criticabile di non semplice impiego per valutare una realtà complessa come la scuola. E fin qui concordo. Dove le nostre posizioni divergono è quando tu dici che non servono e dichiari di accettarli solo “proprio perché non si pensi che la scuola italiana, e i docenti in particolare, ha il terrore di essere valutata.”

    Io penso invece che siano uno strumento utile purché, come accade per tutti gli strumenti, li si usi per quel che sono stati pensati. E lo dico guardando ai risultati che forniscono, nonché alla loro credibilità. I test sono fotografie istantanee delle realtà che intendono rappresentare; come in tutte le fotografie di gruppo c’è chi appare con gli occhi chiusi e chi con la bocca storta. Se questo accade per qualcuno dei soggetti ritratti è normale, se accade per tutti c’è qualcosa ce non funziona.

    Ora, che cosa dicono questi test? Ad esempio:
    – Che in certe aree, del Nord in particolare, i risultati sono a livello Europeo, mentre in certe altre zone ne sono molto lontani.
    – Che le competenze in lettura degli studenti Italiani sono mediamente più vicine a quelle degli studenti europei, ma che sono influenzate negativamente dalla presenza di immigrati.
    – Che le competenze in lettura dei nostri maschi è inferiore a quella delle femmine, così some accade in tutto il mondo.
    – Che le competenze in matematica dei nostri studenti sono largamente inferiori rispetto a quelle degli studenti degli altri Paesi Europei e lontanissime da quelle degli asiatici.
    – Che le nostre ragazze sono più preparate dei maschi nelle competenze in lettura mentre lo sono meno in quelle matematiche.
    – Che le competenze dei ragazzi iscritti ai licei classici e scientifici sono di gran lunga superiori a quelle degli iscritti a Istituti tecnici e professionali.

    E che cosa c’è di sbagliato in queste affermazioni? Non varrebbe veramente la pena utilizzarle per premiare le aree di eccellenza e prendere seri provvedimenti per quelle di carenza?

    I test supportano queste affermazioni con dati quantitativi che permettono di apprezzare le distanze. Ne pubblicherò alcuni sul mio blog appena ho un po’ di tempo.

    Sono inaffidabili? Non lo credo. Tutte le rilevazioni effettuate in anni diversi dicono le stesse cose e si confermano nel tempo. I bravi sono sempre quelli, i cattivi sempre gli stessi.

    Sono forse più affidabili i voti di certe maturità o di certe lauree che si squagliano come neve al sole al primo impatto con l’università o con il mondo del mondo del lavoro?

    Ne esistono di migliori?

    Perché allora non prendere sul serio i risultati dei test e lavorare per migliorarli. E mi fa specie che si pensi che i professori sarebbero indotti a lavorarci su istruendo i ragazzi su come si affronta un test, piuttosto che “insegnando Dante”. Io mi offenderei se fossi uno al posto loro. E poi c’è già anche chi ci ha pensato “all’italiana” suggerendo direttamente le risposte ai ragazzi, e non sono pochi. Bari. Se ne vergognino!

    Certo che se partiamo dal presupposto che la scuola italiana “è una delle migliori nel mondo”, di strada se ne fa poca. Non vale certo l’esempio di quegli studenti che passano un anno all’estero . Immersi in contesti diversi per cultura e didattica non possono che, lingua a parte, che poi è il vero scopo di questi stages, mettersi nella condizione di perdere un anno per poi trovarsi in difficoltà con il programma che i compagni nel frattempo hanno studiato.

    E poi anche se la scuola italiana fosse la migliore, perché non migliorarla? E per migliorarla servono i dati, i numeri, non le parole e i giudizi qualitativi.

    I test forniscono questi dati. Certo sono imprecisi, a volte contradditori, sono da capire, da interpretare, da affinare, ma sono gli unici che sono a portata di mano.

    E se li si vuol cancellare è solo perché non ci si vuol misurare. Questo è il mio pensiero.

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  8. @ frz

    Le tue osservazioni sono legittime e in parte condivisibili. In ogni caso io non sono d’accordo sull’eliminazione dei test, dissento sul loro utilizzo ai fini della valutazione degli istituti, come proposto dal ministro in fase sperimentale.

    Tutto si può migliorare e perfezionare, anche i test.

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