LA BUONA NOTIZIA DEL VENERDÌ (IN RITARDO!): SI VIVE (BENE) ANCHE DI STRESS

terza etàA Venezia si è parlato di stress, ma non solo dei suoi effetti negativi, anche di quelli positivi. Avete mai pensato che possano esserci degli effetti positivi dello stress? Be’, in fondo la classificazione dello stress ne comprende due tipi: eustress (eu: in greco, buono, bello) o distress (dis: cattivo, morboso). L’eustress, o stress buono, è quello indispensabile alla vita, che si manifesta sotto forma di stimolazioni ambientali costruttive ed interessanti. Un esempio può essere una promozione lavorativa, la quale attribuisce maggiori responsabilità ma anche maggiori soddisfazioni. Il distress è invece lo stress cattivo, quello che provoca grossi scompensi emotivi e fisici difficilmente risolvibili. Un esempio può essere un licenziamento inaspettato, oppure un intervento chirurgico. (LINK)

Un esempio, tra i tanti, emerge dalla relazione del Nobel Elisabeth Blackburn che sottolinea come una gestante stressata (un lutto o una perdita di lavoro legata alla maternità, per esempio) mette al mondo un figlio con un’aspettativa di vita più bassa. I telomeri dei cromosomi – il patrimonio genetico che si trasmette nella replicazione cellulare – del nascituro sono più corti e oggi è noto che la lunghezza di questa componente cellulare è sinonimo di una vita più o meno lunga. Il telomero ripara i danni cellulari: se i danni sono riparati non ci sono malattie. E il 20% degli ultracentenari muore di «vecchiaia», non di malattia.

La vera scoperta consiste, dunque, nel fatto che i telomeri dipendono anche dalla psiche, anche se i modi in cui quest’ultima agisce sono ancora misteriosi.
Secondo gli studiosi i 125 anni di vita media «scritti» nei geni si potrebbero raggiungere se non si odia (e si ama), si vive in stress positivo (per esempio fare un lavoro che piace o che gratifica, con vacanze regolari e senza vivere sempre connessi ai gadget tecnologici), se si pratica una religione con convinzione e senza sentirsi obbligati. Ma non solo, mangiare ciò che piace realmente e non cosa è indotto consumisticamente. Ecco il punto: lo stress negativo, e invecchiante, è quando si fa ciò che non piace ma è richiesto da altri. Dal datore di lavoro alla cosiddetta società civile, dalla religione ai genitori.

Secondo Howard Friedman, psicologo dell’università della California a Riverside, «la longevità dipende dall’essere coscienti in positivo di ciò che si fa».

E voi, di che stress siete?

[fonte Il Corriere; immagine da questo sito]

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L’ISTAT FOTOGRAFA L’ITALIA: UN PAESE DI VECCHI

Già lo sapevamo. Dov’è la novità?
Che l’Italia sia ormai un paese di vecchi non è affatto una novità.
L’Istat ce lo conferma, ancora una volta: ogni 144,5 anziani ci sono 100 giovani. Una cifra che incute non poco timore. Eh sì, perché se è vero che i bambini continuano a nascere (pochi e prevalentemente figli di immigrati: il numero medio di figli per donna si attesta a 1,41, con valori pari a 2,23 per le straniere e a 1,31 per le italiane), è anche vero che la popolazione invecchia anche per effetto della maggior longevità che si registra tra la popolazione adulta. Quindi, a meno che non ci sia un’impennata delle nascite (cosa da escludere a priori per questioni economiche: solo nel primo anno di vita un bambino costa migliaia di euro, figuriamoci mantenere un figlio fino a trent’anni, età in cui perlopiù avviene il “taglio del cordone ombelicale”), in Italia ci saranno sempre più nonni che nipoti. La prospettiva non è consolante: 256 vecchi ogni 100 giovani nel 2050.

Un altro dato che deve far riflettere, sempre reso noto dall’Istat, è quello relativo all’occupazione. Non ce lo doveva dire Mario Monti che il posto fisso è ormai è un’utopia, lo sapevamo già. Dallo studio Istat emerge che nel primo semestre 2011 sono stati attivati oltre 5,325 milioni di rapporti di lavoro dipendente o parasubordinato: il 67,7% delle assunzioni è stato formalizzato con contratti a tempo determinato, il 19% con contratti a tempo indeterminato e l’8,6% con contratti di collaborazione.

Non è dato sapere, dall’indagine pubblicata, a che livello si attesti la disoccupazione giovanile ma è risaputo che in Italia ci sono milioni di giovani che non lavorano né studiano (quella che viene chiamata la generazione né né). Senza contare che ci sono persone di cinquant’anni che si sono trovate di punto in bianco senza lavoro e, per sopravvivere, sono costrette ad accettare contratti capestro (i famigerati co co pro, senza ferie, senza malattia, senza contributi …) attraverso i quali è ben difficile arrivare all’età pensionabile, sempre più lontana.

Al di là dei dati diffusi dall’Istat, non va sottovalutato il rovescio della medaglia della superelogiata riforma pensionistica voluta dal governo tecnico capitanato dal premier Monti. Io non sono molto brava a fare i conti, ma semplicemente ragionando mi viene spontaneo concludere che: se è già difficile per i giovani trovare lavoro, la situazione non può che peggiorare con l’allungamento dell’età pensionabile perché i “lavori forzati”, cui saremo costretti noi che avremmo potuto andare in pensione fra otto anni e invece dovremo lavorare ancora 15 anni, precluderà ai giovani la possibilità di trovare un impiego in tempi ragionevoli.

E come sarà, in futuro, la vita di questi vecchi italiani? Con il calcolo della pensione sul contributivo anziché sul retributivo sicuramente misera. Quindi, non solo siamo costretti a lavorare più anni ma dovremo anche accontentarci di una mensilità che, nella maggior parte dei casi, ci permetterà di sbarcare il lunario.

Secondo il mio modesto parere, la riforma delle pensioni sarebbe stata anche accettabile se avesse interessato le nuove generazioni che, visti i tempi di crisi e le oggettive difficoltà di trovare un’occupazione, sono destinate ad attendere i trent’anni per entrare nel mondo lavorativo, anche senza garanzie per il futuro. Ma perché io, che ho iniziato a lavorare a 23 anni, devo continuare fino a 67?

Infine, tornando all’indagine pubblicata su Il Corriere, i dati che emergono relativamente al lavoro femminile sono sconfortanti: gli uomini guadagnano circa il 20% in più delle donne che, in aggiunta, sono gravate dal lavoro domestico per il 71,3%. Ma anche questa non è una novità (leggi QUI).

[immagine da questo sito]