LA GENERAZIONE DEI NÉ NÉ

scansafaticheHo letto qualche giorno fa un interessante articolo su business online. in cui si parla di 270 mila giovani che in Italia non studiano e non lavorano. Questi giovani di età compresa tra i 15 e i 19 anni, la cui percentuale non è affatto trascurabile (il 9%) appartengono alla cosiddetta “generazione dei né né”.

Invece di parlare di una scuola che non insegna e che, quindi, è da bocciare, di una scuola in cui docenti incompetenti fanno dei danni notevoli ai giovani che poi affrontano l’università impreparati, invece di attribuire la sconfitta alla scuola anche quando un ragazzo viene bocciato all’esame di maturità, dovremmo riflettere su questa “generazione del né né” che alla fine della scuola superiore nemmeno ci arriva. Per colpa di chi? Davvero non lo so.

Sarebbe semplice dire che questi giovani sono degli indolenti, che non sanno attribuire il giusto valore all’istruzione, non dico cultura perché questi della cultura si fanno un baffo. Sarebbe semplice puntare il dito sulle famiglie che non sono in grado di trasmettere loro questo tipo di valore e che accettano, la maggior parte delle volte loro malgrado, una situazione degna di essere chiamata parassitismo. Sarebbe scontato e banale dire che se non hanno voglia di studiare, non li si può costringere; quante volte di fronte ai figli che non s’impegnano a scuola, i genitori tuonano con la solita frase trita e ritrita “allora vai a lavorare”. Magari trovassero lavoro, questi “inetti”! A parte il fatto che la disoccupazione è un problema attuale e serio, visto che anche persone adulte, madri e padri, con famiglia a carico e mutuo da pagare, si possono trovare senza lavoro da un momento all’altro, ma per i giovani che non hanno “né arte né parte” che lavoro c’è? A parte, s’intende, i classici lavoretti del tipo volantinaggio e i mini contratti a termine per lo più estivi. Ma quelli di solito sono appannaggio degli studenti che, non stanchi di studiare tutto l’anno, pensano bene di ammazzarsi di fatica anche durante le vacanze, per togliersi qualche sfizio e per non pesare troppo sul bilancio familiare. Altro che “generazione dei né né”!

Affrontando il problema seriamente, con i mezzi a mia disposizione, cioè l’esperienza di docente nonché di operatrice dello sportello d’ascolto, i numerosi corsi di psicologia frequentati e la passione personale coltivata attraverso la lettura di testi specifici, cercherò di far comprendere che chiamare questi giovani semplicemente “fannulloni”, come se con questa caratteristica ci nascessero, è sbagliato.

Vorrei partire dalla cause che portano all’insuccesso scolastico, perché è da questo che prende le mosse una sorta di reazione a catena.
Dire che uno studente, arrivato alle superiori senza grosse difficoltà pur non ammazzandosi di fatica, non ha “voglia di fare” è il modo più semplice per evitare il problema, anziché affrontarlo. Di solito gli insegnanti, di fronte a casi problematici, se ne lavano le mani. Certo, uno se la voglia non ce l’ha, non se la può far venire da solo, quindi ha bisogno di un aiutino. Purtroppo, però, le cause e le concause sono tante e molteplici che arriviamo alla classica situazione del gatto che si morde la coda, situazione alla quale pare non ci sia via d’uscita.

L’insuccesso scolastico, quindi, è determinato da fattori diversi: l’ambiente scolastico che il ragazzo non trova confacente, la famiglia che non ha gli strumenti per aiutarlo, le amicizie che rappresentano sempre più l’unico modello da seguire, soprattutto perché più comodo, essendo libero da obblighi che condizionano il comportamento. Mi spiego meglio: frequentando gli amici, un giovane innanzitutto non è giudicato, non ha regole da rispettare se non quelle condivise all’interno del gruppo, quasi mai impegnative a livello culturale e formativo, poi è libero di esprimere il suo disagio senza incorrere in rimproveri che addossino la responsabilità a lui solo, infine non ha bisogno di comportarsi in modo non spontaneo con il timore di essere censurato.
Il ruolo della famiglia è fondamentale, è vero, ma non è l’unica forza in ambito educativo. Spesso il “gruppo” funge da punto di riferimento e, guarda caso, non sono mai i modelli positivi ad essere trainanti. I ragazzi che studiano, s’impegnano, guardano al futuro con aspettative che gratifichino i loro sforzi sono per lo più derisi e catalogati come “secchioni”. Alla fine, o rimangono da soli, isolati ed evitati come la peste, o si aggregano con quelle quattro persone con cui hanno più affinità o con quelle due che, aspirando a migliorarsi, li seguono per farsi aiutare. In quest’ultimo caso, però, gioca un ruolo fondamentale il non voler essere “inferiore” agli altri e questo è tipico di chi è perfettamente cosciente tanto delle sue potenzialità quanto delle sue debolezze e, quindi, nulla a che vedere con gli studenti che non vogliono affrontare l’insuccesso scolastico e lo accettano come inevitabile e immodificabile.

Al di là degli stimoli che possono arrivare dalla famiglia, e talvolta anche dalla scuola, non si può escludere che il ragazzo che si trova in difficoltà alla fine segua istintivamente quelli come lui, arrendendosi alla conclusione semplicistica, ma assai condivisa tra “simili”, che  «la scuola non fa per me». Per superare l’impasse è indispensabile la collaborazione scuola-famiglia, ma spesso si rivela un’utopia. Da una parte la famiglia addossa alla scuola la responsabilità dell’insuccesso negli studi del proprio figlio, dall’altra gli insegnanti sostengono che la famiglia non si occupi del figlio e che se il ragazzo è un testone, non si applica, non segue i consigli, non c’è nulla da fare: somaro è, somaro rimarrà.
Quello di cui si tiene poco conto, sia in ambito familiare che scolastico, è l’autostima del ragazzo. Al di là di un atteggiamento strafottente, tipico di chi sfida gli adulti facendo credere che «lui sa quello che fa e non ha bisogno che qualcun altro glielo dica», spesso dietro questa ostentata sicurezza si cela una scarsissima autostima. Ovvero, facendo credere che l’insuccesso scolastico nemmeno lo sfiori, lo studente nasconde la sfiducia che ha dentro di sé e, non accettando per orgoglio nessun consiglio, non riesce ad uscire da questo impasse. È ovvio che compito della scuola sarebbe comprendere questo tipo di situazione e trovare, assieme alla famiglia, un modo per guidare il ragazzo in un percorso di crescita che lo porti a superare la sfiducia in sé. Certo, per un adolescente è più facile gettare la spugna, rinunciare a modificare una situazione è più comodo; tuttavia, se gli adulti lo aiutassero a comprendere la causa del suo insuccesso e lo guidassero ad un miglioramento personale, quindi non solo relativo allo studio ma soprattutto relativo al suo rapporto con se stesso, ci potrebbe essere una speranza.

Quali sono, dunque, gli ostacoli ad un percorso di crescita? Prima di tutto il fatto che gli adolescenti sono poco disposti ad ascoltare i genitori e ritengono, in modo scontato e rassegnato, di non essere ascoltati all’interno del nucleo familiare. Poniamo il caso che si convincano ad accettare il supporto della scuola (lo sportello d’ascolto che, per legge, dev’esserci in ogni istituto): nel momento in cui viene loro consigliata una maggior collaborazione con la famiglia, escludono a priori questa eventualità. Spesso accade, infatti, che le famiglie si rivolgano allo sportello per cercare aiuto e non di rado chiedono degli strumenti per affrontare la situazione problematica, partendo dal presupposto che «i figli mai e poi mai usufruiranno del servizio». Qualche volta, però, si sbagliano e, inaspettatamente, alla fine i ragazzi allo sportello arrivano, parlano, ascoltano, si lasciano consigliare ma poi continuano a comportarsi come prima. Insomma, la scuola ha gli strumenti per venire incontro a questi ragazzi in difficoltà, ma sono loro a non mettere in pratica i suggerimenti e i consigli.

Un altro ostacolo è costituito dalla convinzione di aver scelto la scuola sbagliata. Spesso, però, questa convinzione si basa su presupposti errati: l’essere disposti ad impegnarsi il minimo e credere di poter ottenere risultati migliori in una scuola più “facile”. Ogni tentativo per convincerli che non ci sono scuole facili e difficili per chi non si impegna nello studio, perché anche in un istituto professionale, pur ammettendo che le richieste siano differenti a livello di curriculum, l’impegno e la buona volontà sono prerequisiti indispensabili, si rivela un fallimento. Succede, quindi, che anche cambiando scuola la situazione rimanga tale con un’alta probabilità di abbandono degli studi.

La convinzione che il mondo del lavoro si possa affrontare con meno impegno –solo perché non ci sono interrogazioni e compiti in classe- è la molla che porta, poi, a lasciare la scuola per cercare un impiego. Ma anche quando trovano un posto, ben presto questi ragazzi si rendono conto che in qualsiasi mestiere sono richieste delle competenze che, se non ci sono, bisogna apprendere, l’impegno e la volontà sono imprescindibili e il rispetto delle regole, che saranno pure diverse rispetto a quelle che vengono imposte dall’istituzione scolastica, è assolutamente dovuto. In breve, di fronte a questi ulteriori ostacoli, i ragazzi che appartengono alla “generazione dei né né” pensano di poter mollare il lavoro come hanno fatto con la scuola e di cercare altro. Peccato, però, che non ci sia questa grande offerta, che passino mesi prima di trovare un altro impiego e che, se non si cambia atteggiamento, ci si ritrova punto e a capo. Da qui nasce la frustrazione personale e l’avvilimento delle famiglie che di figli del genere non “sanno cosa fare”. Anche il tentativo di farli ritornare a scuola, consigliando loro la frequenza di un corso serale, si rivela spesso inutile.

Così vanno le cose, più o meno. C’è un rimedio a tutto ciò? La situazione descritta pare non avere sbocchi. Bisognerebbe prima di tutto che la scelta della scuola superiore sia ben ponderata, poi che l’istituzione abbia i mezzi per affrontarla efficacemente, infine che la famiglia serva da sprone e non si arrenda.

A proposito di mezzi, che purtroppo dal MIUR arrivano sempre in minor quantità a livello pecuniario, mi viene in mente il sistema scolastico finlandese, che l’Ocse qualche anno fa ha decretato il migliore in Europa. Ricordo che quando lessi su Panorama un articolo su questo tema, fui colpita soprattutto da un fatto: gli insegnanti, pagati profumatamente, sono altamente specializzati. Proprio perché a nessuno è concesso di rimanere indietro nel rendimento, dei docenti specialisti, formati all’interno dei master postuniversitari, sono utilizzati in veste di tutor per seguire da vicino i ragazzi più fragili, svogliati o meno dotati.

Dati alla mano (relativi, però, al 2006), si spiega facilmente il successo della Finlandia in ambito scolastico. Prima di tutto oltre l’11 per cento del bilancio statale è destinato alla scuola, cioè 3 miliardi 360 milioni di euro. Gli insegnanti, che sono circa 43 mila, hanno uno stipendio base di 2.500 euro all’inizio della carriera, però sono obbligati a frequentare, dopo la laurea, un master di pedagogia e hanno un orario di servizio di 37 ore settimanali.
A questo punto saltano all’occhio le differenze con l’Italia, a partire dallo scarso investimento che lo Stato è disposto a fare sulla scuola; la legge 133, infatti, con l’articolo 64, ha legittimato dei“tagli” che dovrebbero servire anche, come più volte ribadito dal ministro Gelmini, alla valorizzazione di una scuola di qualità. Ma non è ancora stato stabilito chi premiare e perché.
Un’altra differenza con i colleghi finlandesi riguarda l’orario: i docenti italiani della scuola secondaria di I e II grado hanno un orario di cattedra di 18 ore (nella secondaria di I e II grado) e solo in alcuni casi può essere aumentato fino ad un massimo di 24 ore settimanali. Ovviamente il dato si riferisce alla funzione docente che, però, al di là della didattica in classe, ha altri oneri: la partecipazione alle riunioni di vario tipo e tutto quel lavoro “sommerso” che consiste nella preparazione delle lezioni, nell’elaborazione e correzione dei compiti, sia scolastici sia domestici, e tutte le altre attività connesse all’insegnamento che ognuno svolge liberamente, seguendo la propria coscienza.

Chiedere al docente italiano di passare a scuola 37 ore alla settimana credo sia improponibile. Io stessa sarei spaventata da un orario che rappresenta più del doppio del mio attuale. Ma se mi fermo a pensare al lavoro che svolgo a casa e al tempo “perso” tra le mura domestiche, mi rendo conto che a conti fatti io lavoro di già 37 ore a settimana, pur passandone “solo” 18 a scuola, però immagino che nessuno ci creda, tranne i miei familiari. Tuttavia, a fronte di un impegno quasi identico in termini di “ore lavorate”, io percepisco uno stipendio che è la metà del collega finlandese e sarebbe onesto se poi a casa non perdessi nemmeno un minuto dedicandomi al lavoro. Quindi, sarei ben lieta di lavorare a scuola per 37 ore piuttosto che impegnare le 19 residue a casa senza poterlo dimostrare.

Mi sento, quindi, di dire che se lo Stato investisse di più nella scuola, aumentando anche il monte ore delle cattedre, e di conseguenza gli stipendi, nonché creando delle figure altamente specializzate che, proprio perché ben formate, ben pagate e ben selezionate, siano in grado di combattere efficacemente la dispersione e l’abbandono degli studi, probabilmente la scuola sarebbe meno bistrattata e gli insegnanti godrebbero nuovamente di un po’ di considerazione, come avveniva qualche decennio fa. Forse così i vari Veronesi e Ricolfi non avrebbero nulla da ridire. Forse la “generazione dei né né” non esisterebbe più.

Infine, il mio motto è: DOCENTI MEGLIO PAGATI E PIÙ EFFICIENTI
STUDENTI MEGLIO SEGUITI E PIÙ COMPETENTI

E ho fatto pure la rima.