GLI ESAMI, PER FORTUNA, SONO FINITI

buttare i libriOggi hanno avuto inizio ufficialmente le mie vacanze. Dire che sono stanca è poco. “Esausta” è l’aggettivo che si adatta meglio al mio stato sia fisico che mentale. Il prolungamento dell’anno scolastico con gli esami di quinta ha messo a dura prova la mia salute. Se considero, poi, che la mia casa grida vendetta, dal momento che nelle ultime due settimane ho fatto un vero e proprio tour de force a scuola, posso affermare con assoluta certezza che il concetto di “vacanza” è soltanto un’immagine mentale che deve far i conti con la dura realtà: le vacanze, nel senso letterale del termine –dal verbo latino vacare, cioè “essere libero”- inizieranno forse ad agosto. Non voglio nemmeno pensare che le aule scolastiche, che ho abbandonato soltanto ieri sera, mi attendono già il primo settembre per i recuperi dei debiti.

Una cosa, però, la devo dire: sono fortunata. Insegno dal 1983 ed è la prima volta che ho fatto il commissario ad un esame di maturità. Quest’evento ha poi assunto un significato speciale perché è capitato esattamente a trent’anni dalla mia personale maturità. Non solo, ho avuto la possibilità di affacciarmi a quest’esperienza sconosciuta come insegnante, rivestendo il ruolo di commissario interno e portando all’esame i miei ragazzi di quinta che conosco da quattro anni, avendoli “presi” in seconda. Credo, quindi, di essere doppiamente fortunata.

Quando, mesi fa, pensavo all’esame, era un po’ come se lo dovessi fare io. Avevo iniziato ad essere ansiosa, a non dormire la notte –ma l’insonnia, purtroppo, continua anche dopo l’esame!-, pensando ai programmi da finire e alla preparazione dei ragazzi che, in alcuni casi, lasciava molto a desiderare. Poi loro hanno recuperato, nel senso che si sono dati da fare, ma io, invece di rassicurarmi, continuavo a vivere in uno stato ansioso costellato da mille interrogativi: saprò correggere i temi? Che domande farò all’orale? Chi avrò come colleghi esterni? E il presidente, sarà “umano”? Mi toccherà fare il verbale? Che griglie di valutazione mi faranno usare? Andranno bene? Potrò magari sceglierle io? Insomma, una paranoia completa.

Stranamente, man mano che si avvicinava il giorno fatidico, la mia ansia si attenuava. Ormai aveva preso sopravvento un altro stato d’animo: la curiosità. Le domande non me le facevo più ma attendevo gli eventi, prendendo tutto con quella filosofia che da studentessa non ho mai amato. Forse per questo, dunque, non ho mai preso la vita con filosofia.

Il giorno in cui si è insediata la commissione è stato felice: il presidente, che avevo già incontrato a maggio, sembrava una persona accomodante; i commissari esterni davano l’idea di essere persone tranquille, un po’ scocciate, forse, ma chi non lo sarebbe alla sola idea di dover fare esami. I colleghi interni ovviamente li conoscevo, quindi non avevo nulla da temere. Il clima appariva sereno e lasciava intendere che si poteva lavorare in pace. Il mio primo pensiero è stato quello di dimostrarmi disponibile nei confronti dei colleghi sconosciuti, non per opportunismo, certamente, piuttosto per dimostrare di essere una persona accogliente. Negli ultimi dieci anni, infatti, ho rivalutato la questione dell’accoglienza nei confronti degli allievi; perché mai dei docenti che per la prima volta varcano il portone della mia scuola non dovrebbero essere accolti come dio comanda?

Confesso, però, che il mio entusiasmo ha avuto breve durata. Già la mattina del primo scritto, il tema d’italiano, mi sono chiesta come mai dovessi stare tutto il tempo a fare la sorveglianza quando per tutti gli anni da docente non commissario è stata un’incombenza cui non mi sono mai potuta sottrarre. Insomma, non capivo per quale misteriosa ragione non mi fosse concesso di godere del privilegio di essere commissario all’esame, quel privilegio di cui altri commissari avevano goduto visto che io, da non commissario, avevo sempre sorvegliato gli allievi al posto loro. Sono arrivata, quindi, alla conclusione che dovevo fare sempre la sorveglianza, che fossi o non fossi in commissione d’esame. Il fatto è che essere là mi creava un notevole disagio, primo fra tutti quello di non poter rispondere alle domande degli allievi. D’altra parte, loro erano stati così bene istruiti sul fatto che non potevano chiedermi nulla, che poi effettivamente solo pochi mi hanno interpellata.

La prima giornata davvero stressante è stata sabato 27 giugno: venticinque compiti d’italiano corretti tutti d’un fiato, dalla mattina al pomeriggio inoltrato. Considerando che normalmente correggo i temi in due settimane, in pratica li “prendo a piccole dosi” come i medicinali, il mio è stato davvero un atto di coraggio, quasi d’eroismo. Ma la correzione in compagnia è senz’altro più gradevole; oddio, non che facessi i salti di gioia, e nemmeno i miei colleghi, ma tutto sommato leggendo gli elaborati ad alta voce e non dovendo apportare le correzioni ma solo segnalare gli errori, l’operazione si è rivelata non solo più veloce, ma anche meno noiosa e faticosa. La cosa che mi ha fatto più piacere è stato il constatare che il giudizio dei colleghi non si discostava molto dal mio, anzi confesso che alle volte se mi fossi ritrovata da sola, sarei stata più severa ancora. Quando poi la collega esterna di Storia dell’Arte mi ha detto che i suoi allievi non sarebbero stati in grado di scrivere così bene, ho intimamente gioito perché un po’ di merito me lo sono riconosciuto.

Mercoledì primo luglio hanno avuto inizio, finalmente, gli orali. Al mattino ero stata assalita da un’altra ondata di inquietudine. Mi sono svegliata alle 5 e mezza e, realizzando che non avrei potuto richiudere gli occhi perché nel dormiveglia avevo già iniziato a pensare agli esami, alle domande che avrei fatto, alle risposte che avrei sentito, mi sono rassegnata ad alzarmi.
Quando sono arrivata a scuola e ho visto i primi allievi pronti per l’esame, mi sono tranquillizzata. D’altra parte, che esempio sarei stato se li avessi accolti con ansia e nervosismo, quelle stesse che sprizzavano già loro da tutti i pori, insieme al sudore che, complice l’afa, aveva iniziato a macchiare camicie e magliette? No, proprio non potevo farmi vedere preoccupata. Poi, preoccupata di che? In fondo si trattava solo di un colloquio. Già, perché l’esame orale non ha più questa obsoleta denominazione, si chiama colloquio e tale, in effetti, è stato.

Ieri, quando avevo già in mente di scrivere questo post ma ero troppo esausta per farlo, ho letto l’articolo di un collega insegnante-blogger sull’esame orale: lo scorfano – così si chiama- asserisce nel suo scritto che il “colloquio … non assomiglia affatto a un colloquio”, poi aggiunge che “i commissari interni cercano di fare alla svelta. … Ma i commissari esterni, invece, a volte prendono la faccenda molto sul serio, con pignoleria. E partono con una vera e propria interrogazione.”.
Be’, è evidente che comunque lo si chiami, colloquio o interrogazione, l’esame orale è pur sempre un esame. Il termine “colloquio” fa pensare, però, ad una chiacchierata fra docenti e allievi. Tuttavia, se l’argomento principale del colloquio è “il sapere”, cioè quello che i ragazzi hanno imparato in tanti anni di studio sulle diverse discipline, non si può dire che assomigli ad una chiacchierata fra i soliti quattro amici al bar. Però io ho potuto constatare che gli allievi sono stati messi a loro agio dai docenti e dal presidente, hanno potuto esporre la loro “tesina” con tutta calma –alcuni prendendosi anche più dei quindici minuti stabiliti dalle direttive ministeriali- e i commissari si sono tutti sforzati di rivolgere delle domande che seguissero il filo logico degli argomenti discussi. Certo, a volte il collega di matematica e fisica ha fatto i salti mortali, visto che le tesine all’80% riguardavano l’ambito umanistico. E io non ho potuto far altro che chiedermi: perché, se questo è un liceo scientifico, si sono tutti buttati sulla storia, sulla filosofa, sull’italiano, il latino, l’inglese e sulla storia dell’arte? La risposta è semplice: sono le materie sulle quali è possibile impostare un discorso pluridisciplinare. È questo è esattamente il compito che gli allevi si sono rigorosamente dati. Quei pochi che hanno presentato un lavoro scientifico, sembravano quasi avviliti per non aver risposto alle direttive ministeriali. Ma che importa? Quando il lavoro è ben fatto, nessuno si offende se non è stata inserita la propria disciplina. Quello che, invece, non ho apprezzato è stata la scelta discutibile di proporre un’accozzaglia di argomenti che non seguivano affatto un filo logico.

Tornando al colloquio, quello che mi ha particolarmente colpita è stata la serietà con cui i ragazzi, tutti, avevano preso l’esame orale. Le tesine, salvo pochi casi, erano originali e per nulla copiate da internet, o almeno, con ogni probabilità, solo parzialmente alcuni testi erano stati scaricati. L’esposizione è stata per tutti un impegno, e non solo volto a fare bella figura, ma soprattutto a dimostrare che quei collegamenti che a detta dei docenti non erano in grado di fare, li avevano fatti, eccome. Chi più, chi meno è stato pure in grado di rielaborare personalmente, di prevedere possibili collegamenti con le discipline escluse dalla tesina o fare delle congetture sulle probabili domande che i docenti delle materie incluse avrebbero potuto rivolgere, per non impostare il colloquio sullo stesso argomento trattato nella tesina.

I commissari esterni, poi, sono stati davvero corretti. Non hanno mai messo in difficoltà gli studenti, non hanno insinuato che i colleghi di materia non li avevano preparati, anche se, in qualche caso, la conoscenza di determinati argomenti è risultata lacunosa. D’altra parte io stessa, in certi casi, ho valutato il colloquio nelle mie materie con un voto inferiore a quello della pagella. È vero, comunque, come dice anche lo scorfano, che una volta fatto un percorso con gli allievi, una volta concluso lo scrutinio e valutata la loro preparazione, l’esame diventa una pura e semplice formalità. È vero che quei cinque minuti non aggiungono nulla all’idea che un docente si è fatto di un allievo o di un’allieva, che non ha senso dare un giudizio, a volte affrettato, su una prestazione che è quasi insignificante se confrontata al numero di compiti, prove, interrogazioni e domande dal posto cui gli studenti sono stati sottoposti nel corso degli anni. Ma è anche vero che talvolta ci possono essere delle sorprese, e i miei ragazzi le avranno, nel bene e nel male. Io stessa mi sono stupita nel vedere i voti d’esame: alcuni ben maggiori rispetto alla media riportata dai singoli allo scrutinio di giugno, altri minori, pochi uguali.

Io non so se sia un bene o un male mantenere l’esame di maturità. Prima di fare quest’esperienza pensavo che, una volta fatto lo scrutinio finale, non ha senso obbligare gli studenti a questa specie di supplizio che toglie ore di sonno e fa venire ogni sorta di senso di colpa. Ora, però, devo ammettere che un esame ci vuole: essere messi alla prova, anche di fronte a persone sconosciute, è una tappa obbligata del percorso di crescita. Di fronte ai volti pallidi, agli atteggiamenti ansiosi, alle voci quasi rotte dall’emozione o dalla paura, ai sospiri di sollievo di chi, superata l’ora di terrore, poteva dire “è finita, comunque sia andata”, di fronte a questo spettacolo di tante debolezze tipicamente umane che sanno anche offrire grande emozione, mi sono convinta che tutto questo ci dev’essere nella vita di un ragazzo di diciotto-diciannove anni. Non solo, vedendo l’apprensione dei familiari presenti, degli amici, degli stessi compagni, anche quelli che l’esame l’avevano già fatto ma che erano lì, ancora una volta in quell’aula in cui non avrebbero mai più voluto metter piede, e assistendo ai sorrisi rilassati di tutti, dopo che oramai l’esame era finito, mi sono convinta che è un’emozione da vivere e da condividere.

Le strette di mano e i baci che sono seguiti ad ogni singolo colloquio mi hanno riportata al mio personale esame di trent’anni fa. Io ho provato solo una grande paura, anzi quasi terrore, e nessuno dei commissari, se non la docente interna che poi era alla sua prima esperienza di insegnamento, ha fatto un sorriso, né mi ha stretto la mano, tanto meno qualcuno mi ha baciata. Ripensando alla mia esperienza di allieva posso concludere che non sono stata così fortunata né il mio esame mi ha portato alcuna soddisfazione, a partire dal voto, di gran lunga inferiore a quello che avrei potuto meritarmi. Allora penso a chi sarà rimasto deluso, ora, e so che ci sarà. Spero riesca a voltare pagina con la stessa indifferenza con cui l’ho fatto io. Non è certo un esame, né tanto meno un voto, a definire il valore di una persona. Il cammino che i miei ragazzi dovranno ancora percorrere è lungo e forse pieno d’insidie. Incontreranno altri docenti, migliori o anche peggiori, non importa. Ma ricorderanno sempre quelle facce che li hanno osservati con attenzione, gli sguardi di ammirazione, le smorfie di disappunto dei commissari, persone che li hanno giudicati senza conoscerli, altre non sconosciute ma che forse non li hanno mai capiti fino in fondo.