TAGLIARSI I CAPELLI E ALTRE STORIE

Quand’ero piccola mia mamma mi costringeva a tenere i capelli corti (potete sincerarvi che non mento guardando il mio avatar). Io li odiavo, li volevo lunghi, non volevo assomigliare a un maschiaccio, accidenti.
Il motivo per cui la genitrice non voleva lasciarmeli crescere è molto semplice: pigrizia. In realtà lei diceva che i capelli lunghi erano impegnativi, bisognava star lì ore ad asciugarli e lei non aveva tempo.

Il tempo. Ecco, quando chiedevo qualcosa che non voleva concedermi, mia mamma trovava sempre la scusa del tempo. Eppure non lavorava, ovvero lavorava in ufficio con mio papà, con orario non flessibile, di più. In pratica faceva quel che voleva e mio papà non fiatava mai. Quando il discorso “lavoro” non reggeva, allora diceva che non aveva tempo perché doveva star dietro a mia nonna. Dunque, vediamo: quando avevo nove anni mia nonna ne aveva settantatré. Ora mia madre ne ha nove di più … se le dicessi che devo star dietro a lei si offenderebbe pure.

Mia nonna, di salute cagionevole, questo è vero, è sempre vissuta con mia mamma. Quando i miei si sposarono, lei, durante il viaggio di nozze, si trasferì in casa loro. Fu un viaggio più breve del previsto. I miei, essendosi sposati all’inizio di gennaio, scelsero come meta la Liguria perché, dicevano, lì c’era un microclima particolare che faceva sembrare l’inverno una primavera calda e accogliente. Trovarono nubifragi, freddissimo, mia madre si beccò l’influenza con 40 di febbre. Quando si dice il destino … Mia nonna al tempo aveva cinquantasette anni, un età in cui normalmente non si necessita dell’ospitalità di figlia e genero. Ma lei era così, lei senza la figlia non poteva vivere, era una povera vedova (povera, mica tanto) e aveva bisogno di compagnia. Evidentemente si portava appresso il retaggio della sua sicilianità per cui non stava bene che una donna vivesse da sola. Si fosse risposata, magari.

Torniamo ai capelli. Dunque, il braccio di ferro tra me e mia mamma durò qualche anno. Quando ne ebbi nove, raggiunta l’età della ragione, ovvero l’età in cui ero convinta di aver ragione io e non mia mamma, le dissi: “Ti prometto che non ti chiederò mai nulla, non avrò mai bisogno di aiuto per lavarmeli e asciugarmeli, ma fammeli crescere, ti prego”. Riuscii ad intenerire mamma con la complicità del morbillo.

A quei tempi le malattie infettive richiedevano riposo a letto per almeno quindici giorni. Ho semidistrutto il mangiadischi Geloso e un’intera collezione di fiabe sonore, quelle in cui ogni disco si chiudeva con la canzoncina:
A mille ce n’è
nel mio cuore di fiabe da narrar.
Venite con me
nel mio mondo fatato per sognar

Chi se le ricorda?
Vabbè, lasciamo perdere la nostalgia e andiamo avanti. Dopo due settimane di letto, dunque, mi alzai e notai che i capelli si erano notevolmente allungati. Oddio, il notevolmente deve essere interpretato a misura di bimba. In ogni caso, la convinsi. Ricordo che per controllare la crescita dei capelli mi specchiavo in tutte le vetrine e tenevo la testa reclinata da una parte per farli sembrare più lunghi. Ora come ora mi stupisco di essere stata così scema da piccola. Be’, l’importante è non esserlo ancora.

Una ballerina con i capelli corti non s’è mai vista. Questa era stata l’argomentazione con la quale avevo convinto mia mamma. A quel tempo, infatti, studiavo danza classica. Smisi a dodici anni, causa problemi ai piedi, e fino a quell’età non tagliai più i capelli. Ricordo la soddisfazione che mi dava essere scelta dalla mia mastra Crudelia (in realtà si chiamava Cornelia ma era una vera e propria Crudelia) come modella per acconciature da far vedere alle compagne.

C’è un episodio, risalente a quel periodo, che non dimenticherò mai. In classe avevo un compagno senza capelli. Non ho mai capito che malattia avesse e se fosse nato così, fatto sta che non aveva nemmeno le ciglia e le sopracciglia. Con grande stupore lo incontrai molti anni dopo all’università e aveva la barba. Fu proprio quell’incontro ad aver risvegliato un aneddoto che riguarda i miei capelli, la sua calvizie e la mia prof deficiente.
Io avevo i capelli lunghissimi, come è facilmente intuibile non avendoli tagliati per tre anni. Un giorno, di punto in bianco e senza alcuna spiegazione logica, la mia prof di Italiano, rivolgendosi al mio compagno, gli disse: “Coraggio, Angelo, che quando la Moles si taglia i capelli ti faremo un bel parrucchino”. Il gelo calò in aula. Oggi come oggi la prof come minimo si beccherebbe una bella lettera di richiamo e dovrebbe pubblicamente chiedere scusa ai genitori del povero Angelo. Ma erano altri tempi.
Quando lo incontrai all’università, dieci anni dopo, fu lui a notarmi per primo. Ricordo che stavo china sui libri (come sempre!) in sala di lettura. Lui arrivò da dietro e mi picchiettò sulla spalla. Mi voltai e prima ancora di salutarmi mi disse: “Ma lo sai che stai già perdendo i capelli?”. Ecco la vendetta consumata a freddo, attendendo il momento propizio. Avrebbe dovuto vendicarsi della prof, però.

Insomma, fino a dodici anni i miei capelli ignorarono la funzione delle forbici. Ma poi la mia compagna di banco si fece un taglio con un bel ciuffo davanti e io lo volli. Lei era una che, tanto per dire, se voleva un taglio particolare andava espressamente a Milano da Vergottini. Fui fortunata a non amare particolarmente i tagli del gran coiffeur ma quel taglio che volli imitare lei se lo fece fare da un anonimo parrucchiere triestino quindi potei facilmente sfogare il mio istinto di emulare in ogni cosa la mia compagna di banco.
Il risultato fu alquanto deludente: non avevo tenuto conto che lei in testa aveva quantomeno due milioni di capelli in più dei miei. Mentre il suo ciuffo svolazzava allegramente sulla sua fronte sbarazzina, il mio sembrava una specie di scopa in saggina, per giunta consunta dall’uso.

Di una cosa ero superconvinta: mai e poi mai mi sarei fatta tagliare i capelli corti. Non avevo messo in conto che il mio solito istinto di emulazione mi avrebbe spinta a dire alla parrucchiera (quella fissa da un po’ di anni): “taglia, taglia pure”. Lei aspettava quel momento da così tanto tempo … Ne uscii con un taglio tipo punk, con la parte superiore della capigliatura tutta sparata in alto. Mettendo via i fermagli che, seppur raramente usavo per raccogliere la lunga chioma, ripensai alla frase pronunciata dalla mia amica: “Li metto via per tempi migliori” e mi chiesi come mai la mia soddisfazione non fosse pari alla sua.

Io con i capelli lunghi mi sentivo più io. Non c’è nulla da fare. Non solo mantenni la promessa fatta a mia madre ma divenni anche un’esperta coiffeur. Me li lisciavo, li arricciavo, usavo i bigodini o la spazzola e il phon, a volte anche il ferro caldo. I miei capelli stavano come volevo io. Erano docili, decisamente. Ci fu un periodo in cui andavo persino a dormire con i bigodini di gommapiuma in testa. Al solo pensiero inorridisco. Soprattutto mi chiedo come facessi a dormire. Di certo è la giovinezza che fa fare queste cose.

Avevo, e ho tuttora, un talento unico. Ma fin da piccola, quando acconciavo i capelli delle bambole o giocavo a fare la parrucchiera con mia cugina. E la feci davvero, la parrucchiera, anche se solo per un mese. Fu un’esperienza unica che ancora ricordo con rimpianto.
Appena finito il liceo, visto che mi sarei iscritta a Lingue, chiesi ai miei, come regalo per la maturità, un viaggio in Inghilterra. A un patto, però: niente corsi di lingua, ne ho fatti così tanti, voglio lavorare perché così sono costretta a parlare l’inglese con persone vere e non con insegnanti che si sforzano di farsi capire perché sanno che non sei loro connazionale.
Arrivammo a un accordo: sì ma vai dove diciamo noi. Da notare che ero maggiorenne ma ugualmente dovetti assoggettarmi alla volontà dei miei. Si misero in contatto con dei conoscenti che mi trovarono un lavoro e mi ospitarono a casa loro per un mese.

La meta fu Reading, nel Berkshire. Il salone si chiamava Dorothy, come la titolare. Ma non era una cosa normale, era enorme. Giusto per dare l’idea, lo staff era costituito da una ventina di ragazze, forse più, e quando arrivava una cliente, la titolare che stava alla reception chiamava la lavorante di turno con l’altoparlante.
In un mese imparai a tagliare, fare la tinta e la permanente, oltre che a fare lo shampoo, naturalmente. Quello era il mio incarico principale, visto che non avevo esperienza, ma ogni lunedì nel salone si faceva scuola, così impari anch’io il mestiere che poi misi a frutto con le mie amiche che facevano la fila per taglio e permanente, cosa che allora andava fortissimo.
Anch’io non seppi resistere: tornai in Italia con i capelli alle spalle, ricci ricci. Ebbi anche dei problemi al controllo documenti: l’addetto guardò la foto del documento (capelli lunghi e lisci) , poi guardò me con aria dubbiosa. Gli spiegai il tutto e mi lasciò andare invitandomi a cambiare la foto sul documento. Poiché equivaleva a cambiare la carta d’identità, non gli diedi ascolto e attesi la scadenza naturale. In fondo lui era stato proprio ingenuo: ma come si fa, dico io, a chiedere a una donna di cambiare la fotografia, quando lo sanno tutti che a noi piace cambiare la tinta e il taglio a seconda dell’umore? A me più raramente ma, insomma, lui non poteva saperlo.

Taglio e permanente gratis me l’ero proprio guadagnati. Come facevo lo shampoo io! Ricordo che c’era la domanda di rito: “Have you greasy or dry hair?” (trad: Ha i capelli grassi o secchi?”). Ovviamente la risposta condizionava la scelta del tipo di shampoo. Una volta ero soprapensiero e chiesi a una signora piuttosto in età: “Have you greasy or dirty hair?” (trad: Ha i capelli grassi o sporchi?”). Al ché lei, con la solita flemma inglese, rispose: “If I had clean hair I wouldn’t need to wash them” (trad: “Se avessi i capelli puliti non avrei bisogno di lavarli”). Ogni volta che ci penso, rido.

Avevo un mestiere in mano e non lo sapevo. Quando Mrs Dorothy mi consegnò l’ultima busta paga mi chiese se volessi restare. Lì per lì le avrei anche detto di sì, ma prevalse la nostalgia del mio moroso, ora mio marito, e declinai l’offerta. Ogni tanto mi chiedo come sarebbe stata la mia vita in GB, paese in cui ho sempre sognato di vivere. Ma la mia fissazione per lo studio prevalse sul mestiere assicurato.

Qualcuno dice che un taglio di capelli significhi voglia di cambiamento, come quando si desidera voltare pagina e ricominciare. Visto che i capelli li faccio tagliare due volte l’anno, massimo cinque centimetri, non posso dire di essere una che ha voglia di cambiamenti. Forse anche sì ma so per certo che non voglio tagliare i capelli corti.
Una volta, doveva essere all’inizio degli anni Novanta, la titolare del negozio in cui acquistavo le scarpe per i bambini mi vide con un nuovo taglio di capelli e mi chiese: “Si è fatta l’amante?”. La guardai con gli occhi spalancati, inorridita. Ora che ci penso, se dovesse dirmelo adesso probabilmente la guarderei con lo sguardo afflitto che dice “magari …”. Tuttavia, allora ci rimasi male. Lei poi mi spiegò, quasi scusandosi, che altre clienti le avevano confidato di aver trovato un amante e, casualmente, avevano tagliato i capelli. Ma guarda un po’ se son cose da dire a una che vende scarpe!

A proposito di scarpe, anche se non c’entra nulla con i capelli, questa la devo raccontare. Mia suocera per gli onomastici dei miei figli regalava sempre le scarpe. Per dire la verità, le andavo a comprare io, anche perché l’acquisto non era dei più facili, e poi mi dava la quota spesa. Ad un certo punto, forse pensando che io spendessi un po’ troppo (la cifra si aggirava sulle 100mila lire a paio), iniziò a darmi la cifra che lei pensava fosse la più onesta per un paio di scarpe per bambini: 50mila lire. La prima volta che mi trovai in mano la busta con la quota tanto arbitrariamente stabilita, il mio secondogenito mi chiese se con quei soldi avrei comprato le scarpe per lui, visto che era ormai tradizione che la nonna facesse quel tipo di regalo. Incautamente mi lasciai sfuggire un “Con i soldi della nonna compriamo una scarpa sola” così lui, non appena rivide la nonna, mostrandole soddisfatto le scarpe nuove, esclamò: “Con i tuoi soldi abbiamo comprato una scarpa, l’altra l’ha pagata la mamma”. L’avrei ucciso seduta stante.

Insomma, dai capelli siamo finiti ai piedi. Be’, fino alle caviglie non li ho mai fatti crescere, come Lady Godiva, e devo dire che, finita l’estate, mi sforzo di convincermi che sia arrivato il momento di tagliare i capelli. Non che ne abbia voglia. Non c’è nessuna novità in arrivo, nessun cambiamento, tutto come prima o forse anche peggio. Ma è arrivato il momento perché, come diceva mia nonna, “Se non vuoi sembrare Maria Maddalena penitente, vatteli a tagliare”. Sento ancora la sua vocina … da lassù.