SAPRI E LA SPIGOLATRICE OSÉ

Da giorni sul web si discute sulla statua che l’artista Emanuele Stifano ha dedicato alla spigolatrice della città campana resa famosa dalla poesia di Luigi Mercantini, una delle più significative nell’ambito della produzione dedicata al Risorgimento italiano.

Immagine da questo sito: newsonline.it h

Quelli della mia generazione hanno sicuramente studiato a memoria La spigolatrice di Sapri, probabilmente senza nemmeno conoscere il significato del termine “spigolatrice” e forse senza capire il messaggio che il poeta Mercantini ha voluto trasmettere con i suoi versi (per leggere il mio commento alla poesia CLICCA QUI).

Come ha ben spiegato il prof. Francesco Sabatini stamattina nel suo intervento a “Uno mattina in famiglia” (Rai1) all’interno della rubrica “Pronto soccorso linguistico”, le spigolatrici erano delle donne che andavano nei campi a raccogliere le spighe rimaste sul terreno dopo la mietitura. Si trattava di donne povere, a volte anche bambine, che non svolgevano un mestiere vero e proprio quanto piuttosto un’attività che garantiva loro e alle famiglie un minimo di sopravvivenza. Non era nemmeno un atto di rapina in quanto le povere donne chiedevano ai proprietari terrieri il permesso di “spigolare”. Non tutti i proprietari, tuttavia, erano così benevoli: alcuni, infatti, proprio per evitare che le spigolatrici procedessero alla loro raccolta “illecita”, facevano bruciare le stoppie nei campi in cui era già avvenuta la mietitura, misura che talvolta veniva ignorata dalle donne che si avventuravano nei campi fumanti sperando che qualche spiga fosse scampata al rogo.

Come si evince dal ritratto di Jean-François Millet, le spigolatrici indossavano calzature comode, gonne ampie e lunghe e un grembiule provvisto di una grande tasca in cui riponevano le spighe raccolte.

“Le spigolatrici” di Jean-François Millet (Musée d’Orsay di Parigi)

Spostiamo, quindi, l’attenzione sulla statua che da pochi giorni fa bella mostra di sé nella piazza della cittadina in provincia di Salerno (vedi foto in alto). Una ragazza giovane e bella, dalle forme provocanti, con lo sguardo rivolto verso il mare a rappresentare la spigolatrice di Sapri che effettivamente interruppe il suo “lavoro” non appena vide i “trecento” (numero certamente iperbolico) sbarcare sulla spiaggia tirrenica, rimanendo folgorata dal capo della spedizione Carlo Pisacane.

Nelle fotografie apparse su tutti i giornali vediamo in primo piano il retro della statua: sotto un abito sottile e trasparente viene messo in evidenza un lato B degno di una ragazza che dedica il suo tempo a “scolpire” il corpo con ore e ore di palestra. Ora, senza voler condannare l’opera artistica, è abbastanza evidente che il quel monumento non c’è nulla di realistico (specie se facciamo il confronto con la celebre opera di Millet). Come ha osservato il prof. Sabatini stamattina in trasmissione, non c’è nulla che richiami il suo “lavoro”. A dire il vero, se osserviamo la statua dalla parte anteriore, possiamo notare un’esile spiga che la fanciulla trattiene leggiadramente con il braccio destro. Una sola spiga: o Stifano immagina che la ragazza fosse particolarmente sfortunata oppure la presenza dello scarsissimo frutto del suo lavoro è dovuto al fatto che l’arrivo dei “trecento giovani e forti” l’avesse distolta dalla spigolatura. Propenderei per la seconda.

I piedi nudi della spigolatrice poggiano lievemente su un sasso. Nulla di più inappropriato considerando che camminare senza protezione sui campi che hanno subito la mietitura non è come trovarsi a passeggiare su dei petali di rose. Dettaglio in pieno contrasto con l’utilizzo di scarpe robuste da parte delle donne che andavano a spigolare, attività che, protraendosi fino agli anni Sessanta del Novecento, è stata immortalata anche nelle fotografie.

Foto di Enzo Di Giorgio (LINK)

Al di là delle polemiche sorte pure in ambito politico (l’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha definito l’opera offensiva e sessista), a me sembra che la statua sia semplicemente fuori luogo. C’è chi ha apprezzato la scelta di Stifano nel riprodurre una delle caratteristiche tipiche delle statue della dea Venere (“callipigia”, epiteto che significa “dalle belle natiche”), ma stiamo pur sempre parlando di una povera donna mortale, che conduceva una vita di stenti. Insomma, mi pare che la spigolatrice abbia poco in comune con una dea e poi, volendo essere pignoli, la Venere di Botticelli che nasce dalla schiuma del mare non ha proprio delle belle forme e nemmeno sprizza sensualità da tutti i pori. Essendo poi ritratta di fronte, non ci è dato sapere come Botticelli immaginasse il suo lato B…

Immagine da questo sito: glistatigenerali.com

Lascio comunque la parola all’autore che descrive così il prodotto della sua arte:

«La statua rappresenta una donna giovane e fiera, ho curato ogni minimo dettaglio perché la mia spigolatrice vuole essere una ragazza sicura di sé che è attratta dalla forza del mare alle sue spalle e si innamora di un giovane (Carlo Pisacane, ndr) e di un ideale. Tanto da lasciare il lavoro nei campi…Insomma è molto più di una contadinella stanca e sfatta come qualcuno avrebbe voluto, è un risveglio di coscienza il suo, la fisicità quindi è parte del pathos del momento che raccontato». (LINK della fonte)

Apprezzo il tentativo di difendere la sua “creatura” ma posso dire che le parole di Stifano non mi hanno convinta. A me la statua non piace, la trovo poco realistica, come ho già detto, e inopportuna. Non la ritengo, invece, offensiva nei confronti delle donne perché il punto non è la sua rappresentazione artistica ma il suo essere nella vita reale. Forse potrebbero sentirsi offese le eredi della vere spigolatrici, se ce ne sono e se conoscono i dettagli della dura vita delle loro nonne e bisnonne.

Come brutalmente si chiede Eduardo Cicelyn nell’incipit di un suo commento apparso sul Corriere (LINK):

«È davvero una questione di culo?»

Io direi di no. E voi cosa ne pensate?  

STORIA DEL GHETTO DI VENEZIA

Avrei voluto pubblicare questo post ieri, 2 settembre, in concomitanza con la ricorrenza della Giornata europea della cultura ebraica, ma non ho fatto in tempo. Credo, comunque, che conoscere la storia del ghetto di Venezia, il più antico d’Europa, sia d’interesse per tutti e che non ci sia bisogno di una giornata in particolare per ricordare il popolo ebraico e le sue vicissitudini, oltre che la sua cultura.
Un piccolo contributo che spero sia gradito e un invito a visitare, se possibile, questo luogo che ha un fascino particolare anche se non rientra tra i più battuti itinerari turistici.


Li Giudei debbano tutti abitar unidi in la Corte de Case, che sono in Ghetto apresso San Girolamo, ed acciocchè non vadino tutta la notte attorno: Sia preso che dalla banda del Ghetto Vecchio dov’è un Ponteselo piccolo, e similmente all’altra banda del Ponte siano fatte due Porte, qual Porte se debbino aprir la Mattina alla Marangona (campana di San Marco che scandiva il lavoro all’Arsenale);, e la Sera siano serrate a ore 24 per quattro Custodi Cristiani a ciò deputati e pagati da loro Giudei a quel prezzo che parerà conveniente al Collegio Nostro

Con queste parole il Senato della Serenissima ordinò, il 29 marzo 1516, l’istituzione del ghetto dove il popolo ebraico residente a Venezia rimase segregato per quasi tre secoli, fino all’arrivo di Napoleone che l’abolì nel 1797.

Passando attraverso uno dei sottoportici caratteristici della città lagunare si possono notare ancora oggi nel marmo i buchi in cui venivano infilate le sbarre dei cancelli che di notte chiudevano il ghetto lasciando i suoi abitanti isolati dal resto della città. Solo ai medici era permesso di uscire, in quanto i medici ebrei non erano condizionati dalla religione cattolica ed erano consultati di preferenza per la loro preparazione considerata all’avanguardia.

Prima del confino degli ebrei nel ghetto, una piccola comunità di circa 1300 individui era presente in città fin dal XII secolo e documentata nel 1152. Dal XIII secolo ebbero residenza stabile presso l’Isola di Spinalonga, che da allora, avendo molti abitanti Giudei, cambiò il proprio nome in Giudecca.
Con il passare del tempo agli Ebrei fu vietata la residenza in città e furono costretti a stabilirsi nelle vicinanze, specie a Mestre, mantenendo tuttavia il diritto di commerciare all’interno della città lagunare.


Nel 1516, come si è detto, il governo della Serenissima decretò l’obbligo di risiedere all’interno del ghetto, senza poterne uscire la notte. Nacque così il Ghetto Vecchio che, con l’aumento della popolazione, divenne ben presto insufficiente per contenere tutti gli abitanti. Nel 1541 si decise, quindi, di ampliare la zona dando origine al Ghetto Nuovo, cui seguirà un ulteriore ampliamento nel 1663, con la nascita del Ghetto Nuovissimo.

Il Ghetto Nuovo (o Novo), che si trova sull’isolotto di Cannaregio, sorse nel luogo in cui si trovava una fonderia di cannoni. Pare che il nome derivi appunto dal verbo getàr, cioè “fondere”. Ma questa non è l’unica etimologia: la parola potrebbe derivare dal tedesco gitter (inferriata), dall’ebraico get (divorzio) o ancora dal tedesco gasse (vicolo). Fatto sta che da allora la parola ghetto ha assunto il significato che tutti conoscono e ha dato origine al verbo ghettizzare che significa escludere, emarginare.

Gli Ebrei di Venezia dovevano provvedere a loro spese alla sorveglianza sostenendo il costo delle barche che di notte facevano la ronda attorno all’isolotto. Cosa questa che non gravava particolarmente sulla comunità perché, grazie all’abilità degli abitanti in ambito mercantile, il ghetto godeva di una florida economia. Al commercio si affiancava il prestito su pegno. La comunità stessa si ingrossava sempre più: dapprima con l’arrivo dei todeschi, poi del levantini, provenienti da Istanbul, che divennero davvero indispensabili alla sopravvivenza dei commerci di Venezia. Sa ultimi arrivarono i ponentini e i tre gruppi, denominati nazioni, si riunirono nella Università all’interno del ghetto.


Dal punto di vista culturale fin dal XVI secolo il ghetto di Venezia conobbe una vivacità rara. Da parte dei vari gruppi etnici vennero fatte costruire le sinagoghe, o “Schole”. Sorsero così le Schole ashkenazite Tedesca e Canton, la Schola Italiana, le Schole sefardite Levantina e Spagnola. Nonostante alcuni interventi successivi, le sinagoghe sono rimaste intatte nel tempo, testimoniando il valore del ghetto di Venezia.
Delle nove sinagoghe costruite a partire dal 1719 solo cinque sono rimaste in piedi. La più grande è quella Levantina, edificio di gran pregio architettonico.
L’aumento demografico è, inoltre, testimoniato dalle altissime case, cosa rara a quei tempi, divise in piani più bassi della norma. Quando ci si avvicina al sestriere di Cannaregio saltano all’occhio quasi fossero delle torri che si stagliano verso il cielo.

Nonostante lo sviluppo economico e demografico, con l’andar del tempo, a causa dell’ingerenza del governo della Serenissima, che imponeva che l’attività di prestito fosse un’esclusiva degli ebrei perché maggiormente controllabili, si diffuse malumore fra gli abitanti del ghetto che non ottenevano dal prestito i guadagni sperati e mal digerivano quella sorta di schiavitù in cui caddero. Questo fatto, assieme a una diffusa crisi economica, fece temere una fuga di massa, verso gli inizi del Settecento. Ma naturalmente il senato giocò d’anticipo: decretò che l’autorizzazione a lasciare il ghetto fosse concessa solo a coloro che fossero in regola con il pagamento delle tasse e della quota di debiti contratti fissata dai capi dell’Università.

Dalla situazione di crisi e di diffuso disagio gli ebrei veneziani furono salvati dalle truppe napoleoniche che aprirono definitivamente le porte il 7 luglio 1797. Da quel momento gli ebrei iniziarono ad integrarsi con i veneziani e a inserirsi nel tessuto cittadino.


[fonti: alcune informazioni sono state tratte dal mensile Meridiani. n° 75; tra i siti consultati, museoebraico.it, innvenice.com; immagini: panoramica da questo sito, piazza con monumento Olocausto da questo sito, ingresso sinagoga da questo sito, interno sinagoga da questo sito]

PADOVA: NETTURBINI TROPPO SOLERTI RIMUOVONO OPERA D’ARTE

Le immagini di una Napoli semicoperta dall’immondizia sono, purtroppo, cosa nota. C’è da chiedersi come mai nelle nostre città le aziende municipali o private non lasciano i rifiuti sulle strade e diligentemente svuotano i cassonetti, mentre a Napoli no.

Certo che a Padova i netturbini sono anche troppo solerti: loro la spazzatura non la lasciano per strada o sui marciapiedi, svuotano i cassonetti e si prodigano per far sì che l’immondizia e i rifiuti, specie se particolarmente voluminosi, non rimangano ben in vista, a deturpare il paesaggio e ad ostacolare il transito dei cittadini. Non si lamentano nemmeno, evidentemente, se qualche incivile abbandona sul pubblico suolo rifiuti ingombranti, quelli che in teoria sarebbero da portare nelle piazzole ecologiche, sempre a voler essere civili.

I netturbini di Padova sono dei gran lavoratori ma non sono, tuttavia, particolarmente sensibili nei confronti delle opere d’arte. Anche se siamo d’accordo sul fatto che c’è arte e arte, e che qualche opera artistica pare proprio robaccia, degna dell’inceneritore. E così, ignorando che in questi giorni in città, in occasione della rassegna «Artisti al Muro», erano state installate opere d’arte a cielo aperto, gli incauti operatori hanno caricato sul camion e mandato all’inceneritore un’opera dell’artista Isabella Facco, Legg-io.

Al danno, però, è stato posto rimedio: una copia di Legg-io è stata subito riportata in via Zabarella, da dove era stata rimossa. Onde evitare altre rimozioni, l’opera è stata posizionata ad alcuni centimetri di altezza da terra e, accanto ad essa, è stata anche installata una targhetta (più visibile della prima) che «certifica» che si tratta di un’opera d’arte.

Ah, questi artisti incompresi! Meno male che non era un esemplare unico. 🙂

[notizia e foto da Il Corriere]