IL MIO MARTEDI’ MAGRO. ALMENO I RICORDI NON INGRASSANO


Ed eccoci arrivati all’ultimo di Carnevale: il martedì grasso che invita agli eccessi, soprattutto culinari, in vista del periodo di “magra”, cioè la Quaresima, che ci accompagnerà fino a Pasqua. Ma perché l’aggettivo “grasso” è scelto per identificare le due giornate più importanti della settimana di Carnevale, ovvero il giovedì e il martedì?

L’etimologia della parola sembra aver origine da carnem levare, locuzione latina che indica l’assenza della carne nell’alimentazione a partire dal mercoledì delle Ceneri, primo giorno di Quaresima. In origine, infatti, per tutto questo periodo si usava togliere dalla mensa (parola latina che indica la tavola imbandita) la carne, tutta. Poi, però, tale limitazione è stata ridotta ai soli venerdì di Quaresima, anche se qualcuno tende quantomeno ad astenersi dal consumo di carne di maiale per tutto il periodo. Dipende da quanto si è ligi nel rispettare la tradizione cattolica. Ricordo, ad esempio, lo sguardo inorridito di mia suocera quando, ad un pranzo domenicale in periodo quaresimale, si trovò di fronte un piatto a base di carne suina. Lo rifiutò, con la cortesia che la contraddistingueva, adducendo non so quale pretesto, ma io compresi subito la gaffe fatta in assoluta buona fede. Non era, insomma, mia volontà mancarle di rispetto.

Se pensiamo alle prescrizioni alimentari “imposte” (sarebbe meglio dire “suggerite” perché poi ognuno fa un po’ come gli pare) dalla Chiesa, siamo portati a credere che il Carnevale abbia origini cristiane. In realtà pare abbia visto la luce in età ben più antiche, risalendo alle feste pagane come le dionisiache greche e i saturnali romani. Lo scopo di tali riti era quello di sovvertire l’ordine lasciandosi andare al caos e agli eccessi (non solo a tavola, per altro…). Non a caso i culti antichi erano legati alla primavera, periodo di rinascita, e il Carnevale stesso acquisisce, in un certo senso, una dimensione metafisica, in cui l’uomo si trova quasi sospeso tra cielo e terra, in stretto contatto con il sovrannaturale. Le stesse maschere, in fondo, rappresentano la volontà di trovare un contatto tra il mondo dei vivi e quello dei morti, basti pensare all’origine di una delle maschere più note, quella di Arlecchino, che è in realtà legata all’oltretomba, una sorte di demone di cui si conservano i tratti nella maschera seicentesca con quel ghigno nero nel quale pare riconoscibile il resto di un corno perso dal diavolo nel suo aspetto più umanizzato.

Nonostante la Chiesa non vedesse di buon occhio la tendenza ai bagordi per tutto il periodo di Carnevale, questa tradizione su molto seguita fin dal Rinascimento. Nella Firenze medicea, ad esempio, si organizzavano sfilate mascherate su grandi carri chiamati “trionfi” (da cui deriva tutt’oggi la tradizione dei carri in molte località della nostra penisola, anche se forse la più nota è Viareggio, ma non è l’unica), accompagnate da canti e balli. Lo stesso Lorenzo de’ Medici, detto Il Magnifico, fu autore della Canzone di Bacco e Arianna, un vero inno alla giovinezza e al piacere che da essa deriva:

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Quest’è Bacco ed Arïanna,
belli, e l’un de l’altro ardenti:
perché ‘l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza
. (QUI potete leggere l’intero testo)

Tornando alle tradizioni culinarie, il Carnevale è soprattutto caratterizzato dalla preparazione dei dolci: credo che in tutte le regioni si preparino i crostoli (però ci sono nomi diversi per indicare queste sfoglie sottili e dorate: cenci, frappe, galani, chiacchiere …) e vari tipi di frittelle (a Trieste le chiamiamo fritole). A casa mia, quando il livello di colesterolo nel sangue era ancora nei limiti, si usava consumare un dolce tipico napoletano: gli struffoli. Buonissimi! Al solo ricordo mi lecco i baffi … si fa per dire.
Essendo io una golosa glucosiodipendente, non prendo nemmeno in considerazione i piatti salati ma presumo che ce ne siano di tipici. Se qualcuno vuole postare qualche ricetta, faccia pure. Anzi, mi farebbe molto piacere anche se, ahimè, non potrò gustare alcun piatto. Per me la Quaresima è iniziata subito dopo l’Epifania (guarda caso in concomitanza con le prime esposizioni in vetrina dei crostoli e delle frittelle, da parte dei fornai che, nemmeno finite le feste natalizie già pensano a Carnevale. D’altronde, i panettoni iniziano a venderli a settembre …). L’ipercolesterolemia (dovuta, secondo me, alla mia stupidità che mi ha suggerito di andare a fare le analisi il 7 gennaio perché dopo ricominciava la scuola …) mi ha imposto la dieta rigida che mi porterà alla rinuncia delle classiche scorpacciate di dolci. Non solo, visto che la dieta normalmente fa diventare egoisti (non compero più, infatti, i dolci nemmeno per gli altri … si arrangino e se li comprino da soli!), non preparerò, come ero solita fare, né crostoli né fritole. Perché mai dovrei fare tanta fatica senza poter nemmeno assaggiare il prodotto del sudore della mia fronte? Insomma, stare a dieta significa anche rinunciare a farsi del male.
Ecco, quindi, spiegato il titolo del post.

E ora veniamo alle maschere. Io, per la verità, non ho mai amato vestirmi in maschera. Nemmeno nella mia famiglia era sentita questa tradizione, visto che per il mio primo Carnevale a scuola, in prima elementare, mia madre pensò bene di spedirmi in grembiulino come tutti gli altri giorni. Non vi posso nemmeno dire come mi sentii vedendo tutte le altre bambine (la mia era una classe solo femminile!) vestite con abiti meravigliosi in perfetta sintonia con il reddito pro capite familiare. Ero in una classe di gente decisamente benestante. Io e un’altra scolara (me la ricordo bene, nome e cognome che celerò nel rispetto della privacy) eravamo le uniche senza costume. La maestra, quindi, pensò bene di non farci sentire diverse in occasione della foto di gruppo e ci impose di indossare delle maschere. Le uniche disponibili erano quelle dei sette nani, creature che, guarda un po’, non mi erano troppo simpatiche se non altro perché avevano schiavizzato quella poveretta di Biancaneve. Già da piccola, evidentemente, ritenevo che le mansioni domestiche spettassero a uomini e donne in ugual misura, forse perché mio padre, con la sua disponibilità, mi aveva fatto credere che tutti i mariti dovessero essere come lui. Ah, che brutto esempio! Non sono sicura di aver subito un trauma più grosso quando fui costretta dalla maestra ad indossare la maschera di Cucciolo, per la famosa foto, (d’altra parte la mia compagna di sventura fu obbligata a mascherarsi da Brontolo il che mi portò a considerare che almeno in quella occasione potessi ritenermi fortunata), oppure quando, crescendo, mi resi conto che il mio adorato e disponibilissimo papà non era la norma bensì l’eccezione.

Uscii indenne da quel primo Carnevale, con l’intima speranza di non essere costretta a mascherarmi negli anni a venire. Non avevo fatto i conti con l’orgoglio ferito di mia madre: non sia mai che mia figlia si presenti un’altra volta a scuola senza costume! Fu così che l’anno successivo scelsi, senza troppo entusiasmo, la maschera di damina. Avete presente quegli abiti con gonna a diciotto strati, che impediva una camminata decente, parrucca bianca con boccoli e neo posticcio vicino alle labbra? Ecco, proprio quel tipo di costume. Lo odiai nel momento stesso in cui quel simpaticone di mio fratello, visto che allora ero leggermente sovrappeso, mi ribattezzò damona (che poi a Trieste è ai limiti dell’insulto!). Roba da non uscire di casa ma siccome ero una bambina docile e ubbidiente, uscii e andai mesta alla festa di Carnevale organizzata dalla zelante maestra che fu ben contenta di non dover procurare alle scolare “povere” le maschere dei nani di Biancaneve.

Andò meglio l’anno successivo: spinta dalla precoce – anche se imposta – passione per la lirica, chiesi a mia mamma, sarta provetta, la confezione di un costume alquanto insolito: volevo travestirmi da Mimì de La Boheme. Non avevo a mia disposizione una fata come Cenerentola ma mia mamma, che le mani di fata le aveva allora e le ha tutt’oggi, confezionò un abito meraviglioso, in velluto blu con una bordura in finto pelo bianco, manicotto compreso. Dalla tradizionale cuffia uscivano, in bella mostra i boccoli naturali perché nel frattempo ero riuscita a convincere la genitrice a lasciarmi crescere i capelli. Il mio fisico si era assottigliato e anche mio fratello non ebbe nulla da eccepire. L’orgoglio di mia madre fu salvo, mio fratello si salvò da uno schiaffone -nel frattempo ero anche cresciuta e a mio fratello non riconoscevo più alcun diritto della primogenitura, tanto meno quello d’insultarmi – ed io presi gusto a travestirmi per Carnevale.

Vi risparmio l’elenco delle maschere scelte negli anni successivi. Alle medie, tuttavia, non c’era l’insana abitudine di presentarsi a scuola in maschera, così potei rifarmi alle feste del sabato che venivano organizzate negli ambienti della Società Ginnastica Triestina dove studiavo danza classica.
Ricordo, in particolare, una volta in cui mi vestii da hippy, con tanto di parrucca alla Minnie Minoprio e pantaloni viola a zampa, anzi, zampissima. Poco originale, tuttavia, visto che correvano gli anni Settanta …

Al liceo un anno volli emulare Anna Oxa, famosa allora per il recente debutto al Festival di Sanremo con l’abbigliamento punk. Cantava Un’emozione da poco, una delle sue canzoni più belle in assoluto. Io quell’anno indossai un completo nero da uomo, giacca e pantaloni, stile Blues Brothers, con camicia bianca e cravattino nero. ma la cosa che più mi esaltò fu il trucco, pesantissimo, e le unghie dipinte di nero. Indossai questa mise in un’occasione importante: una festa a casa del sindaco – suo figlio era mio compagno al liceo -, anzi nella villa del Comune che costituiva la sua residenza. Un’emozione non da poco, tutto sommato.

Sempre all’epoca del liceo risale un’altra maschera che sembrava preannunciare il destino da futura prof di storia antica: mi travestii da Poppea, discussa moglie di Nerone. Diciamo che madre natura non mi aveva dotato dell’attributo fondamentale, riconducibile al nome Poppea (per quello devo ringraziare i miei due figli che, magicamente, hanno involontariamente provocato una mastoplastica additiva naturale e soprattutto gratuita), ma il vestito, sempre confezionato da mia mamma, era fantastico. Certamente poco adatto al clima invernale, tipico del Carnevale nel nostro emisfero, soprattutto i calzari infradito che costrinsero mia mamma a modificare il piede dei collant in modo da evitare di indossarli senza calze.
Si potrebbe pensare che la mia scelta fosse dettata da un amore incondizionato nei confronti degli antichi Romani, di quel popolo la cui lingua avrei poi insegnato. Nossignori. In realtà, l’idea mi venne leggendo un fotoromanzo – sì, avete letto bene – imprestatomi dalla mia compagna di classe Nilla, grande appassionata del genere. In un episodio, infatti, di uno dei mitici numeri della Lancio, la protagonista era travestita da Poppea, proprio in occasione di una festa di Carnevale. Per chi pensa che la lettura dei fotoromanzi sia prerogativa delle femmine stupide e incolte, vi informo che la mia compagna di liceo era in assoluto la più brava della classe. Fu solo questo il motivo per cui mia madre non ebbe nulla da obiettare sulla mia lettura appassionata dei fotoromanzi, prima di allora assolutamente criminalizzati a casa mia.


Quando conobbi mio marito, appena finito il liceo, lo portai sulla cattiva strada … della maschera carnevalesca. Lui non sentiva poi tanto trasporto per le carnevalate ma per amor mio si sottopose a varie torture, trucco compreso. Come la volta in cui scegliemmo – ma dovrei dire scelsi, in tutta onestà – di travestirci da Pierrot e Pierrette. Mia madre, ancora una volta, fu l’artefice di un travestimento meraviglioso (quello di mio marito, più modesto, per par condicio fu opera di mia suocera): seguendo il mio consiglio, riutilizzò un vecchio tutù da danza, quello romantico (il che significa lungo) bianco, confezionando la parte superiore con del raso nero, con tanto di bottoni-pon pon bianchi. Il tradizionale cappello a cono in testa, mentre mio marito – allora fidanzato – portava la cuffia nera, il trucco bianco con lacrima finta e la maschera fu pronta. In assoluto la migliore che abbia mai indossato.

Per finire, ricordo anche quella volta in cui ci travestimmo da Charleston: lui con lo smoking di mio fratello (vistosamente corto, dato che tra i due vi sono circa venti centimetri di differenza), mantella, cilindro e bastone; io con abito nero frangiato, originale anni Venti -imprestatomi da un’amica di mamma -, parrucca a caschetto bionda, con tanto di pennacchio incorporato, bocchino e sigaretta, calze nere con cucitura dietro e mantellina in marabù. L’unico problema fu la temperatura rigidissima e la bora che soffiò per giorni, tanto che per aver osato fare una passeggiata in centro (cosa che allora si faceva di rito), mi buscai una bella infreddatura per iniziare degnamente la Quaresima pentendomi amaramente per aver troppo osato.

Ora dovrei passare ad illustrare gli innumerevoli carnevali dei miei figli. Credo, però, di avervi tediato abbastanza, per cui rimando l’argomento al post carnevalesco del prossimo anno.
Mi dispiace non poter postare alcune delle foto “di famiglia” ma il mio pc è rotto e quindi non posso usare lo scanner. Penso che la cosa faccia felice mio marito-Pierrot.

Buon ultimo di Carnevale a tutti e, mi raccomando, mangiate anche per me.

[immagine sotto il titolo da questo sito; immagine Pierrot e Pierrette da questo sito]