DISCORSO DI NAPOLITANO PER IL 25 APRILE 2012: “BISOGNA CONTINUARE A RIEVOCARE E TRASMETTERE LA STORIA” E CITA GIACOMO ULIVI

Historia magistra vitae dicevano gli antichi. A volte, però, gli insegnamenti della storia vengono dimenticati, specie se si tratta di non ricommettere errori del passato. Quel “sbagliando si impara” tramandato dalla memoria popolare spesso non serve ad evitare che gli errori vengano ricommessi. Si sbaglia e si continua sulla strada dell’errore.

Il discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione della festa della Liberazione, deve far riflettere. Particolare attenzione il Presidente ha prestato proprio all’insegnamento della storia. Ricordando che l’8 settembre 1943 l’Italia rischiò di ritornare divisa e rimanerci per sempre, Napolitano ha detto: bisogna continuare a rievocare e trasmettere la storia.

La storia non è costituita soltanto da eventi, anche da uomini che hanno combattuto per la libertà, per difendere le proprie idee e i propri ideali. Quel pezzo di storia che oggi abbiamo festeggiato ha visto protagonisti anche dei giovani che si aspettavano un futuro migliore e invece sono morti portandosi nella tomba tante speranze, tra cui quella di cambiare il mondo. E’ il caso, ad esempio, di Giacomo Ulivi, diciannovenne studente di giurisprudenza, condannato a morte e fucilato nella Piazza Grande di Modena il 10 novembre 1944. Richiamando le parole di questo giovane, Napolitano ha affermato: se fu possibile far rinascere l’Italia, lo fu perché in moltissimi – sull’onda della Liberazione – si avvicinarono alla politica, non considerandola qualcosa di ‘sporco’, ma vedendo la cosa pubblica come affare di tutti e di ciascuno. E invece oggi cresce la polemica, quasi con rabbia, verso la politica. E si prendono per bersaglio i partiti, come se ne fossero il fattore inquinante.

Il discorso del presidente non poteva che prendere questa direzione. Oggi noi Italiani siamo sfiduciati e credo sia difficile, almeno dal punto di vista politico, sperare che le cose migliorino. Ma siamo sicuri che la colpa sia tutta della politica? Siamo certi che, se la situazione è degenerata a tal punto, sia solo per colpa dei politici che si sono approfittati del potere affidato loro, in fiducia, dai milioni di italiani che si sono recati alle urne e li hanno eletti? Non intendo in questa sede fare un discorso politico (soprattutto perché immagino che la prima obiezione a questo mio semplice pensiero possa avere come argomento la legge elettorale che ha impedito, in sintesi, al popolo di scegliere chi mandare al parlamento), non l’ho mai fatto né mai lo farò. Dico sempre che la politica non mi interessa e credo che questo sia l’atteggiamento di molti. Allora mi chiedo: non sarà forse anche un po’ colpa nostra se le cose sono degenerate fino a tal punto?

Rileggendo le parole di Giacomo Ulivi, scritte nella lettera d’addio agli amici prima di essere fucilato, trovo che le sue riflessioni siano attualissime. Ve le riporto perché possiate riflettere anche voi.

Cari amici,

dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo nei nostri mali. Qui sta la nostra colpa: come mai, noi Italiani, abbiamo abdicato, lasciato ogni diritto, di fronte a qualche vacua, rimbombante parola? che cosa abbiamo creduto? creduto grazie al cielo niente, ma in ogni modo ci siamo lasciati strappare di mano tutto, da una minoranza inadeguata, moralmente e intellettualmente. Questa ci ha depredato e questo è il lato più roseo io credo. Il brutto è che le parole e gli atti di quella minoranza hanno intaccato la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi la “cosa pubblica” è noi stessi. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo insomma.

E se ragioniamo il nostro interesse e quello della cosa pubblica finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perchè da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassioniamo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile. Come vorremmo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete voluto più sapere!

Giacomo Ulivi, 19 anni, studente di giurisprudenza.

Il passo è tratto dal libro Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, edito da Einaudi. Ringrazio Alessandro D’Avenia, che ne ha parlato in un post sul suo blog, e la sua lettrice Maria Rita Tarantino che ha ricordato, in un commento, che lo stesso Ulivi è stato citato nel discorso del presidente Napolitano.

25 APRILE: L’ANNIVERSARIO DELLA “MIA” LIBERAZIONE

Matteo a nove ore di vita
Matteo a nove ore di vita
Fin dai tempi della scuola ho sempre saputo che il 25 aprile si fa festa. Il fatto è che quest’evento non l’ho saputo collocare storicamente fino al liceo; né alle elementari né alle medie credo di aver svolto il programma “recente” di storia, al massimo saremo arrivati alla prima guerra mondiale. A casa certamente i miei me ne avranno parlato ma, si sa, i figli non ascoltano mai i genitori, specie quando parlano di cultura. La storia, poi, non è mai stata la mia passione, almeno fino all’università, e da quando la devo insegnare (quella antica e medievale, però) me ne sono fatta una ragione: è importante e bisogna conoscerla.
Ventuno anni fa, però, questa data ha assunto un significato particolare per me: è nato mio figlio. Da quel giorno ho interpretato questa festa come la mia festa, la mia personale liberazione. Da che? Da una gravidanza tutto sommato serena ma che negli ultimi tempi mi aveva creato dei problemi: il peso sulla pancia, le gambe gonfie, la difficoltà nel trovare una posizione per dormire … insomma, i problemi di tutte, né più né meno. E poi c’era la voglia di vederlo, finalmente, il mio bambino, di stringerlo tra le braccia, baciarlo, parlargli guardandolo negli occhi ed osservare le espressioni del viso da cui avrei potuto indovinare i suoi pensieri o intuire che la mia voce, quella voce che per otto mesi e mezzo gli aveva parlato senza vederlo, lui l’avrebbe riconosciuta. Otto mesi e mezzo, non nove, perché il mio primogenito mi ha fatto un gran regalo, quello di nascere due settimane prima.

I miei ricordi tornano indietro di ventuno anni, esattamente al 24 aprile. Era domenica e mi trovavo già a Trieste, dove avevo deciso di farlo nascere. Avrebbe condiviso la mia stessa origine, anche se poi sarebbe vissuto ad Udine, mia città d’adozione. La scelta, tuttavia, nulla ebbe a che vedere con il campanilismo: i miei genitori, i miei suoceri, praticamente tutti i parenti e i miei amici più cari vivevano e vivono là, quindi mi sembrava logico spostarmi per evitare che tutti dovessero fare una trasferta per venirmi a trovare.
Quella domenica a mezzogiorno ero tranquillamente seduta al “Caffè degli Specchi”, in piazza Unità, e mi stavo godendo una splendida giornata di sole in compagnia dei miei genitori che allora non rinunciavano mai al caffè di mezzogiorno con tanto di vista sul mare. Mio marito doveva arrivare da Udine e lo aspettavo da un momento all’altro. Mio figlio, stranamente, era quieto ma non me ne preoccupai: forse il tenue calore che gli arrivava dalla mia pancia esposta al sole lo aveva fatto addormentare. Tutt’ad un tratto, però, sentii un dolore acuto, improvviso, inatteso: la prima contrazione di quello che sarebbe stato il mio travaglio. Nello stesso momento, da lontano, scorsi mio marito che stava arrivando. Curiosamente mi accarezzai la pancia, ormai nuovamente rilassata, e dissi al mio bambino: “ora puoi anche nascere, papà è arrivato”. Parole dette così, con un filo di voce, senza troppa convinzione. Ma lui, dimostrando già allora un carattere remissivo, mi prese sul serio, colse il significato delle mie parole alla lettera.

Tornata a casa, non mi preoccupai molto per le contrazioni che ogni tanto percepivo, mai così violente come la prima. Quella era stata una sorta di avvertimento che avevo deciso di ignorare. Nel corso del pomeriggio, però, le contrazioni avevano assunto un andamento regolare, seppur mantenendosi molto distanziate. Io avevo deciso di rimanere a casa il più possibile, anche perché al corso pre-parto mi avevano inculcato l’idea che il parto dev’essere naturale, spontaneo, un momento gioioso per mamma e bambino, non deve rispondere alle dure leggi dell’ospedalizzazione che prevedono, prima di tutto, una sorta di incatenamento della partoriente legata ai vari monitor da fili e piastre. Insomma, io non mi sarei lasciata imprigionare, volevo vivere le ultime ore della gravidanza in libertà, nel mio nido familiare, farmi un bagno caldo, mangiare qualcosa senza abbuffarmi perché mi avevano detto che non c’è nulla di peggio che una fase espulsiva con lo stomaco pieno e la digestione bloccata. Naturalmente le mie idee non furono condivise dalla famiglia e mio marito volle per forza portarmi in ospedale.

La visita fu veloce, sembrava che il medico di turno fosse alquanto contrariato di dover lavorare la domenica, quando fuori splendeva il sole. Mi rimandò a casa assicurandomi che il travaglio era appena iniziato e visto che non avevo dolori, potevo starmene tranquilla perché mio figlio non sarebbe nato prima dell’indomani. Quando uscii dall’ambulatorio realizzai di essere in procinto di partorire. Mancavano due settimane e non me l’aspettavo. Credevo che quelle contrazioni poi si sarebbero fermate: capitano spesso dei falsi allarmi a due settimane dal parto. E invece mio figlio stava per nascere e aveva scelto pure un giorno festivo.
All’uscita dal reparto, incontrai un’ostetrica che conoscevo: aveva fatto nascere il figlio di mia cugina e quello di una cara amica; sapevo che lei, come lavoro extra, seguiva le partorienti a casa e, a volte, le assisteva in sala parto anche se non era di turno. Allora non mi preoccupai che arrotondasse lo stipendio in nero, né che lavorando in una struttura ospedaliera al di fuori dell’orario di servizio, avrebbe potuto mettersi nei guai, qualora le cose non fossero filate lisce, e procurare grane anche all’ostetrica di turno. Quei pensieri proprio non mi sfiorarono: mi feci dare il numero di telefono e mi impegnai a chiamarla qualora le contrazioni fossero state più ravvicinate.

Fino alle undici di sera il resto della mia giornata trascorse tranquilla. Ma a quell’ora iniziai ad agitarmi perché il travaglio aveva cominciato a meritarsi davvero quella definizione – prima non riuscivo a rendermi conto veramente che stava succedendo – e chiamai l’ostetrica. Naturalmente a casa tutti erano ben svegli e quando l’ostetrica arrivò, verso mezzanotte, capirono che per quella notte di dormire proprio non se ne sarebbe parlato. Il fatto è che, nonostante l’invito ad andare a letto e cercare di dormire un po’ per arrivare al parto con tutte le energie necessarie, io non ne volevo sapere e continuavo imperterrita a stare in piedi mentre mio marito e i miei sonnecchiavano in salotto. Ogni tanto, fra una contrazione e l’altra, riuscivo a captare gli sguardi silenziosi ma perfettamente espressivi che si lanciavano mio marito e mio papà: ma questa (intendendo l’ostetrica) quando se ne va? Ma lei non dava segnali di volersene andare, anche perché aveva capito che io non sarei andata a letto, non avrei dormito, quindi non mi sarei riposata. Fu allora che prese una decisione, di cui non mi rese partecipe, e che mi avrebbe portata ad odiarla: con la scusa di controllare a che punto fosse la dilatazione del collo dell’utero, mi sottopose ad una manovra che spesso i medici condannano: non ricordo il termine scientifico, comunque si tratta di dilatare forzatamente il collo per affrettare i tempi del parto. Non dimenticherò mai il dolore che provai, in assoluto il più acuto e insopportabile di tutto il travaglio e del parto stesso. Tuttavia, la “pratica barbara” ebbe il suo effetto: alle cinque di mattina ero pronta ad uscire di casa. Sotto il soprabito mia mamma mi fece infilare la sua camicia da notte, la stessa con cui lei aveva partorito me. Ancor oggi, quando ci ripenso, mi vengono i brividi e sento la stessa emozione che provai allora. Mio marito, da parte sua, avrebbe fatto volentieri a meno di tali sentimentalismi che, secondo lui, erano una perdita di tempo: voleva andare in ospedale in fretta – come se alle cinque di mattina del 25 aprile potesse trovare traffico – e mi obbligò a portarmi una coperta da sistemare sul sedile perché aveva il terrore che potesse macchiarsi, qualora mi si fossero rotte le acque per strada. Beh, ognuno ha le sue preoccupazioni, ovviamente.

Mio figlio, però, decise di “nascere con la camicia”. Il detto ovviamente lo conoscevo e mi sembrò di buon auspicio: tuttavia seppi solo allora che la sua origine si doveva al fatto che il bambino in fase espulsiva rompesse con la sua testina il sacco amniotico, non precedentemente rotto in modo spontaneo o bucato dall’ostetrica prima del parto. Il risultato di questa “nascita con la camicia” fu un’inondazione che colpì in pieno l’ostetrica e la scena fu per me tanto comica che, nonostante gli sforzi silenziosi –mai gridare, mi fu detto- mi scappò pure una risata. Altri sentimenti agitavano mio marito, presente in sala parto, che con atto di puro eroismo se ne stava in piedi dietro di me dandomi istruzioni sulla respirazione – aveva seguito diligentemente il corso pre-parto – che puntualmente avevo dimenticato di applicare a dovere. Tra una spinta e l’altra, riuscì a vedere la faccia preoccupata dell’ostetrica che, lanciando uno sguardo fulminante sul quasi papà, il cui colore doveva essere più o meno lo stesso della mia camicia da notte candida, lo invitò ad allontanarsi dalla sala. Ma lui per nulla al mondo avrebbe rinunciato a veder per primo suo figlio e non si mosse. Fu coraggioso ma gli andò anche bene perché il mio parto fu tranquillo e il mio bimbo nacque con sole tre spinte, alle cinque e trentacinque del 25 aprile 1988: ero arrivata in reparto meno di mezzora prima. Appena lo vidi, ne fui conquistata nonostante l’aspetto non fosse dei migliori. Avete mai visto i neonati appena espulsi? Beh, sono proprio bruttini. Ma per ogni mamma il proprio figlio è il più bello. La mia impressione fu, tuttavia, condivisa anche dal neonatologo che si lasciò sfuggire un sincero “che bel bambino!” e non credo che gli apprezzamenti sui neonati facessero parte della sua routine.

Mio figlio era davvero il più bello del nido. Quando me lo riportarono in stanza, dove mi ero recata sulle mie gambe e senza troppi problemi, ammirata dai medici che probabilmente erano poco abituati a vedere tanto coraggio e determinazione, lo vidi ancora più bello grazie anche all’intervento delle puericultrici che avevano provveduto a pettinargli i folti capelli neri, formandogli con l’olio un’acconciatura stile punk.
Dopo sole tre ore dal parto mi ero già recata al telefono pubblico del reparto – allora non esistevano i cellulari! – per avvertire la mia amica, con la quale avevamo appuntamento nel pomeriggio per una camminata, che non ci sarei potuta essere perché era nato Matteo. Urla di stupore e gioia colpirono le mie orecchie e svegliarono il marito di lei che, poche ore dopo, arrivò in ospedale con un ramo fiorito. Giustificò l’atto vandalico operato su uno degli alberi piantati nel parco dell’istituto, con la chiusura dei fioristi dato il giorno di festa. Non mi dimenticherò mai quell’atto gentile e quella visita che fu la prima di tante che si susseguirono quel giorno. Un giorno di festa per tutti, ma soprattutto per me.