GIORNO DELLA MEMORIA: DIMENTICARE È DIFFICILE, NEGARE È ASSURDO

elie weisel«Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.»
(da Elie Wiesel, La notte)

Elie Weisel, scrittore statunitense ma nato in Romania nel 1928, nel maggio del 1944 fu deportato, assieme ai suoi familiari, ad Auschwitz.
Il passo riportato è tratto da La notte, in cui Weisel descrisse la notte in cui giunse nel campo polacco.
Nel 1986 gli fu conferito il premio Nobel per la Pace. Allora fu chiamato “messaggero per l’umanità.
Nel discorso tenuto il 27 gennaio 2010 al Parlamento italiano, lo scrittore ha portato la sua testimonianza di sopravvissuto ad un orrore che non ha un perché. E a questo perché Weisel sta ancora cercando una riposta.

Deportato ad Auschwitz, gli fu assegnata la stessa baracca in cui alloggiò Primo Levi.
«Ho incrociato forse Primo Levi, fummo assegnati alla stessa baracca. Ricordo il treno che ci portava a Buchenwald, ricordo la tormenta di neve. E le parole di Levi, dopo, che dice che ad Auschwitz non c’era luce».

primo leviSe comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. (da Primo Levi, Se questo è un uomo)

Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste si è spenta, ma l’infezione serpeggia: sarebbe sciocco negarlo. In questo libro se ne descrivono i segni: il disconoscimento della solidarietà umana, l’indifferenza ottusa o cinica per il dolore altrui, l’abdicazione dell’intelletto e del senso morale davanti al principio d’autorità, e principalmente, alla radice di tutto, una marea di viltà, una viltà abissale, in maschera di virtù guerriera, di amor patrio e di fedeltà a un’idea”.
(da Primo Levi, L’asimmetria e la vita)

Dimenticare è impossibile ma non basta una Giornata della Memoria e poi tutti a lavarsi la coscienza per i restanti 364 giorni. Grazie alla testimonianza dei sopravvissuti abbiamo conosciuto l’orrore dei campi di concentramento. Negare la Shoah è semplicemente assurdo.

GIORNO DELLA MEMORIA: PER NON DIMENTICARE I BAMBINI DI TEREZIN

Com’è noto, il 27 gennaio è il GIORNO DELLA MEMORIA, istituito dal Parlamento italiano, con la Legge n° 211 del 20 luglio 2000, in ricordo delle vittime del nazionalsocialismo (nazismo) e del fascismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati. La data ricorda il giorno in cui, nel 1945, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz liberando i pochi superstiti.

Nei giorni scorsi il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, si è recato, assieme ad una delegazione di 130 studenti, proprio ad Auschwitz. Ma c’è un altro luogo dell’orrore che non dobbiamo dimenticare: il campo di concentramento di Terezin, vicino a Praga, dove migliaia di bambini ebrei prima di essere trucidati avevano lasciato testimonianze toccanti della loro tragedia. A questi “segni”, l’artista friulano Giorgio Celiberti ha dedicato una collezione, un “Lager” costituito da tele preziose per impasti e cromie, nelle quali ha inserito i segni innocenti lasciati sui muri.

Recatosi a Terezin nel lontano 1965, Celiberti ne rimase dolorosamente impressionato e con la sua arte fece rivivere la testimonianza di tanto orrore. Così l’artista racconta la sua esperienza: quello fu il momento più drammatico della mia storia di pittore, prima dipingevo nature morte, animali, interni, esterni, in un modo più o meno astratto; poi mi sono imbattuto in quei segni dei bambini, sui muri, in quelle tragiche finestre, in quei cuori rossi e bianchi, in quelle cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri.

Così commentò la collezione dei “cuori” il critico Vittorio Sgarbi:

«Celiberti è in realtà un figurativo dell’anima, e cioè riesce a rappresentare in modo realistico i sentimenti della sua profonda interiorità, qualcosa che quindi si segna sul suo cuore, mentre si segna sul muro; pittore di memoria e pittore di emozioni. Nei suoi muri graffiati c’è anche un altro elemento molto importante, cioè il recupero dell’espressività primitiva.» (LINK della fonte, da cui è tratta anche l’immagine sotto il titolo)

In questi giorni sul sito del MIUR è stato pubblicato un breve testo dedicato ai bambini di Terezin, accompagnato da una poesia scritta nel 1941 da un ragazzo sopravvissuto, che aveva allora un’età compresa tra i 12 e i 16 anni. Essa esprime il coraggio e la fede nella vita.

Quattromila disegni e sessantasei poesie sono tutto quello che ci resta dei bambini di Terezín, erano 15.000 e ne sono sopravvissuti meno di 100. Terezín fu un campo di concentramento nazista della Repubblica Ceca che prevedeva uno spazio per i bambini, perché di transito. Vi furono deportate complessivamente 150 mila persone, tra le quali i 15.000 bambini. La poesia che riportiamo porta la data del 1941, non si conosce il nome di chi l’ha scritta, ma il messaggio che ci ha lasciato è di fiducia nella vita e ne canta la bellezza. L’autore s’identifica con il volo libero dell’uccello come l’autrice del disegno nella farfalla.

Vedrai che è bello vivere

Chi s’aggrappa al nido
non sa che cos’è il mondo,
non sa quello che tutti gli uccelli sanno
e non sa perché voglia cantare
il creato e la sua bellezza.
Quando all’alba il raggio del sole
illumina la terra
e l’erba scintilla di perle dorate,
quando l’aurora scompare
e i merli fischiano tra le siepi,
allora capisco come è bello vivere.
Prova, amico, ad aprire il tuo cuore alla bellezza
quando cammini tra la natura
per intrecciare ghirlande coi tuoi ricordi:
anche se le lacrime ti cadono lungo la strada,
vedrai che è bello vivere
.

PER NON DIMENTICARE LA SHOAH: LA STORIA DI MARTA ASCOLI

auschwitz

Il Parlamento italiano, con la Legge n° 211 del 20 luglio 2000, ha aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio GIORNO DELLA MEMORIA in ricordo delle vittime del nazionalsocialismo (nazismo) e del fascismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati. La data è stata scelta perché all’inizio del 1945, proprio il 27 gennaio, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz liberando i pochi superstiti.

Da quel giorno, proprio grazie alla voce dei sopravvissuti allo spaventoso genocidio voluto da Hitler, furono svelate al mondo le atrocità commesse dai nazisti nei vari campi di concentramento. Anche se Auschwitz è per antonomasia il Campo di Sterminio, furono ben 1.188 i campi realizzati dai tedeschi in cui vennero deportati 13.000.000 di uomini, donne e bambini di ogni Paese d’Europa e di questi 12.000.000 furono sterminati.

Della Shoah si sa ormai davvero tanto, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti e alla letteratura sul tema. Uno dei testi più noti è il romanzo-testimonianza di Primo Levi, Se questo è un uomo. Io, però, oggi vorrei parlare di una “voce della Shoa” meno conosciuta, quella di Marta Ascoli, triestina, deportata ad Auschwitz nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1944. Aveva solo 17 anni e da quel giorno la sua vita di studentessa delle magistrali cambiò del tutto e per sempre. Dopo oltre cinquant’anni di silenzio e una lunga maturazione, Marta è riuscita a raccontare la sua esperienza in un piccolo ma toccante libro: Auschwitz è di tutti. Non solo, ha avuto la forza e il coraggio di portare la sua testimonianza in giro per l’Italia, in numerose scuole, perché i ragazzi devono sapere quello che lei, alla loro età, ha vissuto. Soprattutto perché i giovani conoscano la verità e non la dimentichino mai.

Auschwitzditutti

Forse non tutti sanno che la Risiera di San Sabba a Trieste è l’unico esempio di lager nazista in Italia. I nazisti utilizzarono il complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso costruito nel 1913 in un primo tempo solo come campo di prigionia provvisorio, poi come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia). Nella risiera vennero soppresse e bruciate tra le tre e le cinquemila persone -triestini, sloveni, croati, friulani, istriani ed ebrei- ma ben maggiore fu il numero di prigionieri -ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei- smistati verso altri campi di sterminio o di lavoro coatto.
La Risiera fu quasi semidistrutta dai nazisti in fuga, utilizzata poi come campo profughi e nel 1975 fu ristrutturata dall’architetto Romano Boico. Dal 1965 è monumento nazionale e dalla riapertura è meta di pellegrinaggi da ogni parte d’Italia.

Tornando a Marta Ascoli, la sua deportazione fu, come tante altre, del tutto insensata anche perché non è ebrea. Non che la deportazione degli ebrei abbia un senso, ovviamente, ma lei è cattolica, battezzata dalla nascita, sua madre era cattolica e i suoi genitori pure, aveva tre nonni ariani. Tuttavia, dato che il suo è un cognome di città e i cognomi di città hanno di solito origine ebrea, a nessuno interessò questo fatto né alcuno ascoltò la voce della madre che con tutte le sue forze tentò di opporsi alla deportazione della figlia e del marito, dopo che lei fu liberata dal campo triestino. Marta e il padre, invece, dalla Risiera di San Sabba proseguirono il loro viaggio di dolore e morte fino ad Auschwitz. Il padre morì ma Marta, inaspettatamente e miracolosamente, sopravvisse. Eppure il 16 agosto 1944 alla madre arrivò una lettera firmata dall’SS. Oberhauser; poche e lapidarie parole per comunicale che Marta e Giovanni, il marito, erano morti, vittime di un attacco terroristico vicino a Monaco. Il convoglio su cui viaggiavano per essere trasferiti da un lager di transito all’interno della Germania era stato bruciato cosicché risultava difficile riconoscere i corpi carbonizzati. Ma Marta era là, secondo Oberhauser, ed era morta. Suona strana, nel documento, la parola “atto terroristico”, come se la deportazione di milioni di ebrei e anche non ebrei, semplicemente “nemici” del regime o appartenenti a “razze” diverse da quella ariana, non lo fosse.

Marta era ad Auschwitz, anche se la mamma non lo sapeva, ma avrebbe preferito essere morta davvero in quel convoglio bruciato. Eppure era là, privata di tutto, vestita di pochi stracci, sempre gli stessi, in tutte le stagioni, con il caldo e il freddo, senza acqua per lavarsi, senza cibo, senza un nome, solo un numero, e soprattutto senza dignità. Testimone oculare di sevizie di ogni genere, di vite che finivano, di morti invocate. Le malattie si diffondevano velocemente nelle baracche sovraffollate che servivano da ricovero per i deportati, nelle poche ore che venivano concesse al riposo. La denutrizione e l’assoluta mancanza d’igiene facevano il resto: ogni giorno Marta si confrontava con la morte, lei giovane donna di soli diciassette anni che aveva sempre amato la vita e che nei sogni di ragazza aveva spesso immaginato il futuro. Ma quel futuro, che ora per lei rappresentava il presente, era davvero inimmaginabile.

Ogni giorno nel campo avvenivano le selezioni per la camera a gas. Marta ne superò quattro fino all’ottobre 1944. Dell’esperienza che “superava ogni credibilità”, la Ascoli parla in questi termini:

La cosa più assurda era che non sempre si era scelte perché ritenute inabili al lavoro, sistema crudele ma che aveva per i nostri aguzzini una sua logica. Talvolta usavano il sistema di contarci ogni tre, ogni quattro, a caso, e ridendo segnavano il nostro numero sul taccuino, decidendo la nostra fine.

Le giornate nel lager trascorrevano tutte uguali, fra lavoro e punizioni. I lavori erano per lo più assurdi: ad esempio, dovevano stracciare dei tessuti, ricavandone strisce uguali che a gruppi di tre venivano fissate ad un tavolo con un chiodo. Le internate dovevano poi confezionare delle trecce lunghe almeno tredici centimetri, resistenti perché altrimenti i Kapò punivano le malcapitate. Non si sapeva bene a cosa poi servissero quelle trecce di stoffa, ma se il lavoro non veniva svolto bene ne seguiva la giusta punizione. Una di quelle che divertivano maggiormente le SS era chiamata “sport”. Così la descrive Marta:

Nel poco tempo che ci era concesso per mangiare la zuppa, le SS che erano di turno, donne incluse, per ragioni insignificanti e spesso anche senza motivo alcuno sceglievano parecchie persone, obbligandole a correre senza fermarsi avanti e indietro, o a inginocchiarsi a lungo o a portare grosse pietre finché cadevano sfinite. Quando crollavano a terra, e ciò succedeva spesso, i militi intervenivano con bastonate e ridevano tra di loro. Credo che questo si possa definire con una sola parla: sadismo.

Il 31 dicembre 1944 Marta fu trasferita a Bergen-Belsen, lo stesso campo di concentramento in cui morì Anna Frank. Il luogo non era stato pensato come campo di lavoro, quindi i deportati non avevano nulla da fare. Proprio perché gli “ospiti” del lager non prestavano alcun servizio, i Tedeschi ritenevano inutile mantenerli in vita, quindi il cibo era poco e saltuario, tanto che si erano verificati casi di cannibalismo. Marta era allo stremo delle forze e si augurava di morire presto per alleviare le sofferenze. Ma la morte che portava via ogni giorno tante vite, sembrava disinteressarsi a lei ed essere insensibile alle preghiere con cui l’invocava. Fu così che la giovane volle andarle incontro:

Un pensiero mi assillava: morire prima possibile per evitare il prolungarsi di atroci sofferenze.
Io che avevo cercato di resistere fino all’ultimo, ero ormai distrutta. Invocavo la morte che si attardava su di me, invidiavo chi al mio fianco aveva finito di soffrire. Cercavo solo il modo di chiudere al più presto questa indicibile agonia. Mi alzai dal mio giaciglio e scavalcai i corpi dei morti e dei vivi accanto a me; non potevo più sopportare i loro gemiti, la loro agonia e il fetore che c’era nella baracca; io stessa ero nelle loro condizioni e sapevo di essere impotente a portare qualsiasi aiuto
. […] Sorreggendomi a fatica mi inoltrai nella zona boscosa che si trovava ai lati delle baracche e mi avvicinai al filo spinato che circondava tutto il comprensorio. […] Giunta nei pressi della recinzione, un milite che io ritenni molto giovane mi vide e avanzò verso di me. Mi intimò di spostarmi, ma io non mi mossi, lo guardai fisso e lo supplicai di spararmi. A questo punto egli si voltò e senza dire nulla si allontanò nella direzione opposta. […] Il mio tentativo fallì, ma il gesto sta a dimostrare a che punto fosse giunta la mia disperazione, sapendo che mi attendeva una fine atroce assieme agli altri.

Poi, ormai insperata, giunse la liberazione: il 6 luglio 1945 Marta seppe che sarebbe tornata a casa.
Il ritorno a Trieste fu emozionante. La madre, credendola morta, quasi svenne dalla sorpresa e dalla gioia. Ma ritornare a vivere dopo quei lunghi mesi di dolore non fu facile: la famiglia stette vicina a Marta e la curò, ma lei era minata non solo nel fisico, anche nell’animo, cosa che rese difficoltoso il recupero completo. Della sua ripresa la Ascoli racconta:

Dopo le esperienze passate, per molti anni sono stata ossessionata da incubi: il fischio dei treni, il fumo delle ciminiere, il sentir gridare in tedesco ancor oggi mi fa sussultare e tuttora, anche se saltuariamente, faccio sogni attinenti a quel lager infernale. L’esperienza che ho attraversato ha cambiato molto il mio carattere, minando la mia volontà, una volta ferrea, e riuscendo a farmi perdere il mio ottimismo e la fiducia nel prossimo.

Rimane un segno indelebile di quella esperienza: il numero tatuato sul braccio sinistro che Marta non ha mai cercato di nascondere; dice, infatti: ho sempre pensato che la vergogna di averci marchiato doveva ricadere su chi ce l’aveva imposto.

Grazie al contributo di Marta Ascoli e di molte altre persone che più di sessant’anni fa hanno subito la deportazione e l’odio razziale insensato e irrazionale, noi oggi possiamo conoscere quella verità che solo i testimoni diretti possono riferirci.
La signora Ascoli conclude il suo libro, Auschwitz è di tutti, con queste parole:
Auschwitz è patrimonio di tutti.
Nessuno lo dimentichi, nessuno lo contesti.
Auschwitz rimanga luogo di raccoglimento e di monito per le future generazioni
.

Noi celebriamo il Giorno della Memoria, appunto, per non dimenticare. Il ricordo che conserviamo del nostro vissuto nella mente e nel cuore si affianchi a quella memoria civile che non può e non deve essere dimenticata, perché è la memoria di un popolo, quindi la memoria di tutti.

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[POST AGGIORNATO IL 27 GENNAIO 2015]