LIBRI: “GLI SDRAIATI” di MICHELE SERRA

PREMESSA
Di solito non mi fiondo in libreria a comperare dei libri di successo, quelli di cui tutti, ma proprio tutti, parlano. Specialmente se trattano argomenti tipo la scuola o il mondo dei giovani in generale.
Anche il libro di Michele Serra ha dovuto attendere… sinceramente l’ho acquistato approfittando dell’offerta Feltrinelli di due libri a scelta al prezzo di 9,90 euro.
L’ho aperto senza troppa convinzione eppure fin dalle prime due pagine ho capito che non avrei potuto staccarmene. La lettura è stata una piacevole sorpresa.

michele-serra-repubblica-1L’AUTORE
Michele Serra Errante, classe 1954, romano di nascita ma cresciuto a Milano, è un giornalista, scrittore, autore televisivo e umorista italiano.
Dopo la maturità classica si iscrive alla facoltà di Lettere ma non porta a termine gli studi. Nel 1975 inizia a lavorare per l’Unità svolgendo la funzione di dimafonista (tecnico del giornale addetto alla trascrizione del pezzo che i collaboratori esterni hanno registrato al centralino), solo in seguito inizierà la carriera giornalistica in un primo tempo dedicandosi alla cronaca sportiva e in seguito agli spettacoli.
Dalla fine degli anni Ottanta entra in politica, coltivando allo stesso tempo la passione per la scrittura e collaborando anche, come autore, a degli spettacoli televisivi.
In veste di scrittore esordisce nel 1989 con un libro di racconti, Il nuovo che avanza. Nel settembre 1997 esce, dopo tre anni di lavoro, il suo primo romanzo, Il ragazzo mucca cui seguono altri scritti come Cerimonie, pubblicato nel 2002, che gli vale due riconoscimenti: il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante e il Premio Gradara Ludens.
Nel 2013 esce per Feltrinelli Gli sdraiati, giunto alla quinta edizione, cui fa seguito Ognuno potrebbe, pubblicato nel 2015. [fonte Wikipedia]

sdraiati

IL LIBRO

«Ma dove cazzo sei?
Ti ho telefonato almeno quattro volte, non rispondi mai. Il tuo cellulare suona a vuoto, come quello dei mariti adulteri e delle amanti offese. La sequela interminata degli squilli lascia intendere o la tua attiva renitenza o la tua soave distrazione e non so quale sia, dei due “non rispondo”, il più offensivo.
Per non dire della mia ansia quando non ti trovo, cioè quasi sempre. Ho imparato a relegarla tra i miei vizi, non più tra le tue colpe. Non per questo è meno greve da sopportare. Ogni sirena di ambulanza, ogni riverbero luttuoso dei notiziari scoperchia la scatola delle mie paure. Vedo motorini insanguinati, risse sanguinose, overdosi fatali, forze dell’ordine impegnate a reprimere qualche baldoria illegale.
[…] L’unica certezza è che sei passato da questa casa. Le tracce della tua presenza sono inconfondibili. Il tappeto kilim davanti all’ingresso è una piccola cordigliera di pieghe e avvallamenti. La sua onesta forma rettangolare, quando entri o esci di casa, non ha scampo: è stravolta dal calco delle tue enormi scarpe, a ogni transito corrisponde un’alterazione della forma originaria. Secoli di manualità di decine di popoli, caucasici maghrebini persiani indostani, sono offesi da ogni tuo piccolo passo.
Almeno tre dei quattro angoli sono rivoltati all’insù, e un paio di grosse pieghe ondulate, non parallele tra loro, alterano l’orizzontalità del tappeto fino a conferirgli il profilo naturalmente casuale della crosta terrestre. In inverno tracce di fanghiglia e foglie secche aggiungono avventurose varianti di Land Art alle austere decorazioni geometriche del kilim. D’estate il disastro è più lindo, meno suggestivo del trionfo invernale. Ma la scarpa che imprime e svelle è sempre la stessa: tu e la tua tribù avete abolito sandali e mocassini in favore di quegli scafi di gomma imbottita che vi ingoiano i piedi per tutto l’anno, nella neve fradicia come nella sabbia arroventata. L’orbita della Terra attorno al sole vi è estranea, vi vestite allo stesso modo quando soffia il blizzard e quando il sole cuoce il cranio, avete relegato il tempo atmosferico tra i dettagli che bussano vanamente sulla superficie del vostro bozzolo.
In cucina il lavello è pieno di piatti sporchi. Macchie di sugo ormai calcinate dal succedersi delle cotture chiazzano i fornelli. Questa è la norma, l’eccezione (che varia, in festosa sequenza) è una padella carbonizzata, o il colapasta monco di un manico, o una pirofila con maccheroni avanzati che produce le sue muffe proprio sul ripiano davanti al frigo: un passo ancora e avrebbe trovato salvezza, ma la tua maestria nell’assecondare l’entropia del mondo sta esattamente in questo minimo, quasi impercettibile scarto tra il “fatto” e il “non fatto”. Anche quando basterebbe un nonnulla per chiudere il cerchio, tu lo lasci aperto. Sei un perfezionista della negligenza.

[…] Il divano, il tuo habitat prediletto. Vivi sdraiato.
[…] In bagno, asciugamani zuppi giacciono sul pavimento. Appendere un asciugamano all’appendiasciugamani è un’attività che deve risultarti incomprensibile, come tutte quelle azioni che comportano la chiusura del cerchio. Come richiudere un cassetto, o l’anta di un armadio, dopo averli aperti. Come raccogliere da terra, e piegare, i tuoi vestiti buttati ovunque. […] Calzini sporchi ovunque, a migliaia. A milioni. Appallottolati, e in virtù del peso modesto e dell’ingombro limitato, non tutti per terra. Alcuni anche su ripiani e mensole, come palloncini che un gas misterioso ha fatto librare in ogni angolo di casa.
Qualche apparecchio elettronico lasciato acceso, sempre. Sulle pareti della casa buia, bagliori soffusi di spie, led, video ronzanti, come le braci morenti del camino nelle case di campagna. Spesso la televisione di camera tua replica anche in tua assenza uno di quei cartoni satirici americani (Griffin o Simpson) che dileggiano il consumismo.
[…] Tutto rimane acceso, niente spento. Tutto aperto, niente chiuso. Tutto iniziato, niente concluso.» [MICHELE SERRA, Gli sdraiati, Universale Economica Feltrinelli, giugno 2016, pp. 11-14, passim]

Avrete notato – mi rivolgo ai lettori che seguono le mie “recensioni” (scusate ma le virgolette le devo mettere perché ancora non riesco a chiamare così questi miei scritti) – che al contrario del solito ho iniziato riportando alcuni passi tratti dal primo capitolo. Perché mai?
Perché sono proprio queste prime pagine che mi hanno catturata (poi, dopo gli asterischi, ne spiegherò meglio il motivo) e credo che già dall’incipit il lettore possa decidere se amare questo libro o detestarlo con tutto il cuore. In tal caso, non dovrà nemmeno prendersi la briga di acquistarlo.

Il racconto è in prima persona e tratta l’irrisolto problema della difficoltà di comunicazione tra padri e figli, tra giovani e “vecchi”. Perché non importa quale età abbiano i genitori, per i figli sono stati e saranno sempre “i vecchi”. Da questo scontro generazionale nasce, dunque, l’incomprensione, l’insofferenza, la difficoltà di farsi capire e di essere capiti. Padri e figli non si comprendono perché appartengono a due mondi diversi.

Il padre dello “sdraiato” (non si fanno mai i nomi né dell’uno né dell’altro) con sottile ironia ma anche con una più o meno velata amarezza, alterna ricordi del passato, risalenti al periodo in cui anche lui era un adolescente, e riflessioni sul presente, sul suo essere o piuttosto sentirsi un padre incapace, sconfitto in partenza, arreso di fronte a una situazione che non ha sbocchi, in cui nessuna delle due parti sembra capace di fare un passo verso l’altra.

Quanto a me, in queste contingenze (frequenti) che schiudono porte e finestre su certi abissi di indolenza filiale, e di stordita complicità materna o paterna, non è che me ne senta al riparo, non è che mi senta migliore. Riconosco nelle mie fughe, nei miei silenzi, la stessa mancanza di autorevolezza, la stessa inconsistenza. (pag. 37 dell’edizione citata)

Ecco che il narratore si chiede come mai ai suoi tempi (ah, quant’è antipatica questa espressione per indicare ciò che è perduto per sempre!) i ragazzi erano ben felici di partecipare alla vita familiare, come ad esempio il momento tanto atteso della vendemmia, mentre gli sdraiati di oggi si alzano a mezzogiorno, senza alcuna intenzione di far levataccia per una cosa stupida come raccogliere grappoli d’uva tra i filari delle viti. Gli sdraiati sono animali notturni, passano la mattinata dormendo e il resto della giornata bivaccando, con la faccia sempre incollata allo smartphone.

Che cosa può fare, allora, un padre disarmato per smuovere il figlio sdraiato? Gli propone una cosa che certamente non sarà approvata: una passeggiata in montagna al Colle della Nasca. La proposta assume, via via, le fattezze di un invito rivolto con tono di supplica («Non farlo per me. Fallo per te», pag. 41), per diventare un vero e proprio tormentone che fa capolino, ogni tot pagine, perdendo quell’aspetto argomentativo che caratterizza i primi inviti, fino ad arrivare a vere e proprie minacce (da «Quando ti vedo così pallido, penso che ti farebbe molto bene venire con me al Colle della Nasca» a «se non vieni… ti rompo la schiena a bastonate», pagg. 33 e 91).
Ma per essere più convincente il padre deve mettersi nei panni del figlio: perché mai dovrebbe essere conciliante, fare qualcosa che non desta in lui il minimo interesse?

Se vieni con me al Colle della Nasca, ti pago. Un tanto al chilometro, o un tanto per ora di cammino, ci mettiamo d’accordo, non è quello il problema. Quanti soldi vorresti, euro più euro meno, per venire con me al Colle della Nasca? Contanti? Un assegno? Un bonifico? (ibidem, pag. 49)

Siccome, però, anche la pazienza ha un limite, esauriti i vari argomenti al padre non resta che affidarsi a un mediatore paranormale: Ti ho preso un appuntamento dal famoso ipnotizzatore Tarik Agagianian. Credo che sotto ipnosi tu possa agevolmente salire insieme a me fino al Colle della Nasca. (pag. 95)
Riuscirà il nostro eroe a portare il figlio al famoso Colle della Nasca?

***

La scrittura di Serra è certamente accattivante. Quel misto di ironia e di sarcasmo, quelle descrizioni realistiche e nello stesso tempo disarmanti (soprattutto per chi non ha avuto figli o li ha troppo adulti), quel suo modo di ricordare i fatti della vita del padre protagonista facendone un impietoso confronto con gli interessi dei giovani d’oggi, non possono lasciare indifferenti. Ma non è solo lo stile la vera forza di questo libro. Lo è ancor di più l’onestà. E ancora una volta chi non ha questo tipo di esperienza alle spalle – o non la sta vivendo tutt’oggi – non può comprenderla fino in fondo.
Siamo abituati a vedere genitori che ostentano tanta sicurezza, che descrivono i figli tessendo i loro elogi. Chi non si comporta così, generalmente ha poco o nulla da dire. Leggendo questo libro è come se Serra avesse dato voce a quei genitori che preferiscono o hanno preferito tacere.

Se poi vogliamo leggere più a fondo questo scritto – che non è un vero e proprio romanzo, non è un saggio, non è un diario, è piuttosto un racconto che tenta un’intropsezione psicologica – personalmente sono portata a considerarlo un chiaro esempio di ciò che Pirandello definiva “uomorismo”. Leggiamo le pagine di Serra e ridiamo, in modo più o meno consapevole, in virtù del maggiore o minore coinvolgimento nella narrazione. Ma tutto ciò che il padre descrive di questo figlio dovrebbe far riflettere, piuttosto, sulla sofferenza intima del protagonista. Come direbbe Pirandello, leggendo avvertiamo che dietro le parole del padre, volutamente ironiche e scanzonatorie, c’è una vera e propria sofferenza: il protagonista, infatti, vorrebbe avere un figlio fatto di tutt’altra pasta e, nel contempo, vorrebbe essere tutt’altro genere di padre. Quindi, da questo avvertimento del contrario, sempre seguendo la teoria di Pirandello, arriviamo al sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico. (cit.)

Come dicevo nella premessa, sono stata catturata fin dalle prime pagine. Leggendo la parte che ho trascritto, mi sono rivista e ho rivisto i miei figli, specialmente il secondogenito. Quella noncuranza, quella superficialità, la trasandatezza che fa chiedere, a noi genitori “normali”, «ma da chi avrà preso?». Una domanda che non ha risposta, per quanti sforzi si possano fare. E la ricerca dei compromessi (ne è esempio eclatante la proposta “indecente” della gita al Colle della Nasca) è l’unica cosa che può garantire la sopravvivenza dei genitori, almeno di quelli che hanno i figli sdraiati.

Durante la lettura, soprattutto della parte che riguarda la gita in montagna, ho ripensato a Petrarca e alla sua ascesa al monte Ventoso. In una lettera indirizzata a Dionigi da Borgo San Sepolcro, il poeta descrive una gita compiuta assieme al fratello Gherardo sul monte Ventoso che si trova in Provenza, dove al tempo la famiglia viveva. La descrizione di questo difficile viaggio, della faticosa salita verso la cima del monte, per il poeta aretino in realtà assume un significato allegorico: tanto più arduo è il cammino tanto più Petrarca si convince del suo eccessivo attaccamento alle cose materiali. Soltanto quando si libererà dalle passioni terrene riuscirà a raggiungere la cima, che rappresenta allegoricamente la vita spirituale.
Ora vi starete chiedendo quale possa essere il legame tra il libricino di Michele Serra e l’epistola di Petrarca. Personalmente ho considerato la proposta-tormentone che il padre rivolge al figlio, la gita al Colle della Nasca, come un iter spirituale, quasi volesse, convincendo il figlio ad accompagnarlo, convincersi a sua volta di essere un buon padre. Arrivare in cima a quel monte assieme, significa, in un certo senso, trovare un punto d’incontro, un canale di comunicazione. Se riuscirà nell’intento, nulla potrà essere come prima.

In conclusione, non c’è niente che si possa fare con “i figli sdraiati” se non continuare ad educare, correggere ciò che è sbagliato, sottolineare ciò che è giusto, sanzionare ma allo stesso tempo premiare, negoziare, far capire che i ruoli fra genitori e figli sono diversi, ma se parliamo di un rapporto fondato sul reciproco amore, è necessario a volte fare qualche passo avanti e altri indietro, se necessario. Questo, evidentemente, Michele Serra lo sa.
Quello che posso assicurare, avendo ormai i figli sufficientemente grandi per poter essere definiti adulti – o quasi! – è che gli sdraiati prima o poi si alzano.

[immagine da questo sito]

12 pensieri riguardo “LIBRI: “GLI SDRAIATI” di MICHELE SERRA

  1. Io devo essere stato fortunato per aver avuto tre figlie a cui non e stato mai permesso di “sdraiarsi” e che hanno sempre “ottemperato” . Al punto che, almeno due, con allusioni,ogni tanto ce lo fanno pesare. La più giovane non conta perché e non è sposata ed è “mezzo soprano” (eggiaˋ eˋ una professione la cantante lirica) Ma sono spesso ossessionato dall’idea: e se avessimo avuto un figlio maschio? Sdraiato?

    Piace a 1 persona

  2. @ Alberto

    Effettivamente la proprietà dello “sdraiato” si confà maggiormente ai figli maschi. Non è che tu glielo permetta, per essere precisi, è proprio uno stato di natura che caratterizza l’età che va dai 14 anni ai… 30. Un’adolescenza alla romana, degli antichi Romani, intendo. Ciò accade in particolare quando rimangono a casa fino a quell’età. Fortunatamente i miei figli, che non hanno raggiunto i 30, sono fuori e devo dire che, per la felicità delle “nuore” (virgoletto perché convivono entrambi), si son ben che rialzati. 🙂 La cosa, tuttavia, mi consola perché significa che hanno assimilato le regole e le convenzioni della vita civile che abbiamo trasmesso loro. In altre parole, l’educazione, anche quando sembrava fossero (ma per onestà devo dire che è più il secondogenito l’ex sdraiato) refrattari, l’hanno recepita e tenuta da parte per farne sfoggio fuori casa. 😦
    Comunque credo che tu sia un po’ fortunato perché, da quel che sento ai colloqui con i genitori, anche molte femmine, forse per par condicio, manifestano questa proprietà.

    Piace a 1 persona

  3. Lo avevo letto e aveva catturato anche me, per lo stile, l’ironia e quella leggerezza che non è superficialità con cui osserva e descrive il divario tra generazioni. Al tempo della lettura mi ricordava un mio alunno “sdraiato”, cui però piaceva molto leggere, gli avevo consigliato questo libro e mi aveva poi consigliato di essersi rivisto e aveva aggiunto che in certi passi…”eh prof, mi sembra di sentire lei” e il libro gli era piaciuto.

    "Mi piace"

  4. @ Monique

    E io avevo letto la tua recensione. 🙂
    Mi sembra, comunque, un bel passo avanti quando si arriva alla consapevolezza, come credo sia accaduto al tuo allievo.

    "Mi piace"

  5. Ho letto altre recensioni su questo libro ma posso dire che la tua ha un sapore particolare, fatto di conoscenza non superficiale dei giovani. Probabilmente hai imparato a conoscerli così bene frequentandoli attraverso il tuo lavoro d’insegnante. Secondo me comunque, un libro che parla di rapporti tra padri e figli, se scritto bene come pare in questo caso, va per forza letto. Complimenti. Un bacione cara Marisa. Isabella

    "Mi piace"

  6. @ tachimio

    Cara Isabella, ti ringrazio per l’apprezzamento. Come ho scritto, più che l’esperienza di docente, nel mio commento a questo bellissimo libro ha avuto un ruolo centrale la mia esperienza di madre. Fortunatamente ora i miei figli sono tutt’altro che sdraiati. 🙂 Alla fine, come ho scritto a Monique, è una fase e prima o poi le cose si sistemano, soprattutto quando si hanno delle responsabilità e non si è più protetti da mamma e papà.

    Buona serata. Un abbraccio.

    Piace a 1 persona

  7. Ciao,ora comprendo perchè non mi arrivavano più tuoi aggiornamenti: wp mi aveva buttata fuori dai tuoi follower. Rubo la foto di questo post. Abbiamo tante letture in comune, io e te, e sto per pubblicare il post relativo al libro di Serra. Avevo letto già questo tuo e concordo su tanti aspetti, specie sul fatto che i giovani sdraiati, se tali sono, prima i poi si alzano.
    Marirò

    Piace a 1 persona

  8. Ciao, Marirò. Mi sembra strano che WP si permetta di disattivare le sottoscrizioni. A me capita, piuttosto, che non mi arrivino le notifiche di nuovi post per e-mail ma sulla pagina “Lettore” di WP le notifiche dei blog che seguo continuano ad arrivare.
    Ad ogni modo, sono felice di sentirti. Ho letto il tuo post su questo libro e mi è piaciuto molto. Certamente è un libro che fa riflettere sia i genitori sia gli insegnanti. Mi ci sono ritrovata in entrambi i ruoli, anche se, essendo madre e non padre, sono stata meno fallimentare a livello educativo. 🙂 Ricordo ancora la fatica, certe volte i miei due maschi mi toglievano ogni forza e dover combattere su due fronti -casa e scuola – per un certo periodo è stato davvero estenuante.
    Ti abbraccio.

    "Mi piace"

  9. ho detto wp per indicare l’inspiegabile. Non so, mi sono trovata fuori da ben cinque blog. Ma a tutto c’è riparo.
    Il mestiere di genitore è sicuramente il più difficile e, tra i ruoli, quello più in sofferenza è proprio quello paterno.
    Ciao, buona nuova settimana.

    "Mi piace"

Lascia un commento