IL NONSENSE DELLO SPOT INTERCULTURA

Da un po’ non mi occupo di spot pubblicitari, un po’ perché si vedono e sentono talmente tante scemenze che dovrei scrivere un post al giorno (se non di più) e un po’ perché alla fine le osservazioni e le critiche non scalfiscono nemmeno i creativi che continuano sulla loro strada: quella del nonsense, quando va bene.

Ogni giorno, nel primo pomeriggio, proprio quando cerco di fare una pennichella davanti alla TV, mi devo sorbire lo spot di Intercultura, quello di Matteo che, tornato soddisfatto a casa dalla sua esperienza in Cina, ospite della famiglia Yang, esterna la sua felicità nel tentativo di convincere altri diciassettenni, più o meno brufolosi, ad imitarlo.

Il suo racconto inizia con una bel, si fa per dire, paragone: “E’ come se tu fossi un pesce rosso e scopri di essere vissuto in un acquario“. Benissimo. Ora, però, vorrei chiedere al pesce rosso: “Tu, caro pesce rosso, ti sei mai reso conto di vivere in un acquario?”. Non so cosa mai potrebbe rispondermi, forse “Mah, è il mio ambiente, quello in cui mi hanno messo quei deficienti dei figli dei padroni di casa, mi danno da mangiare, cambiano l’acqua di tanto in tanto, ma molto spesso se ne dimenticano o, per meglio dire, litigano, figli e genitori, per decidere a chi spetti tale compito e, siccome non si mettono d’accordo, finisce che io sguazzo in una tal nebbia che il mondo esterno non è più visibile”. E poi forse replicherei: “Ma ti piacerebbe vivere in un altro posto, con un’altra famiglia?”. Che potrebbe mai rispondermi quel pesce rosso che, nel frattempo, comincerebbe a dubitare della mia sanità mentale? “Cosa dovrei fare, secondo te? Catapultarmi fuori dalla vasca e morire prima che qualcuno se ne accorga? Ma anche se cambiassi famiglia, in fondo sempre nel mio acquario sguazzerei”.

Fatti questi ragionamenti, mi chiedo: ma che caspita di paragone fa Matteo di Intercultura?

Poi lo studentello prosegue nel decantare la sua esperienza: “Adesso ho due papà, due mamme, tre fratelli e due paesi”. Ora io mi chiedo: ma il papà di Matteo, che gli ha proposto questo scambio in Cina, era consapevole delle conseguenze che questa esperienza avrebbe avuto sulla psiche del figlio?

Infine, c’è il problema della lingua: “Un giorno ho detto ‘ciao cavallo’ invece di ‘ciao mamma‘” e tutti a ridere per l’eternità. Siccome so che in quasi tutte le lingue del mondo la parola “mamma” è molto simile nella pronuncia, ho consultato il dizionario Cinese-Italiano e ho scoperto che “mamma” si scrive “mā” e “cavallo” “mǎ”, con la sola differenza nel segno grafico sulla “a”, simile a quelli usati per le brevi e le lunghe in latino. Non so se nella pronuncia ci sia qualche differenza ma credo che, rivolgendosi alla “madre”, il povero Matteo non poteva che voler dire “mamma”, di certo non “cavallo”. Perché mai prenderlo in giro a quel modo?

E veniamo al punto cruciale. Intercultura propaganda i soggiorni all’estero (tra l’altro parecchio costosi, possono richiedere anche più di 10mila euro, pur essendoci la possibilità di una borsa di studio) facendo credere ai ragazzi di trovare un’altra famiglia nel paese ospitante. Non solo, costringono questi poveri ragazzi a chiamare “mamma” e “papà” chi li ospita e a considerare “fratelli” i figli degli ospitanti. Per non parlare del resto del parentado, nonni, zii e cugini. Altro che scambio! Potrebbero chiamarlo “adotta una famiglia intera”.

Fin qui si potrebbe pensare che sia un modo per far sentire a proprio agio dei giovani che per periodi più o meno lunghi stanno lontani dalla propria famiglia, come se il “surrogato” che trovano all’estero possa compensare la carenza affettiva di cui naturalmente risentono.
Il bello è che anche alle famiglie ospitanti viene fatto una sorta di lavaggio del cervello. Ricordo che anni fa una mia conoscente, incontrata per strada, mi parlava con entusiasmo di un figlio che non mi risultava avesse. Sapevo, infatti, che aveva una figlia e, dai discorsi, era evidente che non parlasse di un neonato o comunque un bimbo piccolo che avrebbe potuto essere nato nel frattempo, visto che non ci si frequentava con assiduità. Poi ho scoperto che stava ospitando uno studente di Intercultura.

Tornando a Matteo dello spot, fossi sua madre gli direi: “Figlio mio, tornatene pure a quel paese, quello in cui ti ha mandato Intercultura. Poi, se rinsavisci, puoi anche tornare a casa, basta che non mi fai comprare dei pesci rossi che poi magari istighi al suicidio, nella convinzione che debbano provare un’esperienza diversa”.

13 pensieri riguardo “IL NONSENSE DELLO SPOT INTERCULTURA

  1. Ahah, poveri figli, sono sempre loro i responsabili dei pesci rossi! Anche a casa mia, quando avevamo l’acquario, eravamo io e mio fratello ad occuparcene perchè noi l’avevamo voluto. Qualsiasi cosa succedeva era colpa nostra, sempre perchè eravamo stati noi a portare quei pesci in casa.

    Ve bene, ho scritto un commento che non c’entra molto con il post, quindi ora rimedio.
    Ho tentato di partecipare anche io ad un progetto Intercultura che non era però così impegnativo come può rivelarsi il soggiorno di un anno intero in Cina. Si trattava di trascorrere tre mesi in Irlanda (o in Inghilterra? francamente al momento non ricordo…).Ho fatto i test, scritti ed orali, ma non sono stata scelta.
    Forse è una fortuna, quindi: di sicuro non avrei voluto essere come questo Matteo nel video. In effetti, più che soddisfatto dell’esperienza fatta, a me sembra mentalmente turbato…

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  2. @ Scrutatrice

    Il post voleva essere ironico, naturalmente. Il progetto Intercultura è senz’altro apprezzabile ma rimane il fatto che quest’obbligo di chiamare “mamma” e “papà” dei perfetti sconosciuti a me non va giù. Detto questo, avrei senz’altro appoggiato i miei figli se avessero espresso il desiderio di passare un periodo all’estero. So, comunque, che le selezioni sono rigide.

    Il “diaologo” con il pesce rosso, com’è facilmente intuibile, nasce dalla mia esperienza personale. A mio figlio avevano regalato due pesci rossi, morti entrambi nel giro di poche ore presumibilmente per qualche malattia che si era diffusa nella vasca del negozio. Era disperato e si era messo in testa di “non essere in grado nemmeno di badare ad un pesce rosso”. Quindi, gliene abbiamo comprato un altro che, però, passati i primi tempi, lui ha ignorato del tutto. Cambiare l’acqua era una tragedia perché mio figlio e mio marito litigavano per chi dovesse farlo. Alla fine mio marito cedeva ed era anche l’unico che dava da mangiare al pesce, tanto che lui, vedendolo avvicinarsi alla vasca, gli faceva le feste! 🙂

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  3. Ho guardato due volte il filmato prima di leggere il tuo articolo. Mi è sembrato “patetico” e assolutamente privo di vitalità.
    Se fossi giovane, anziché un contatto con Intercultura cercherei un posto da cameriere o da portiere d’albergo!!!
    Poveri pesciolini rossi!

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  4. @ Marisa

    Sì, anche a me il fatto di dover chiamare i membri della famiglia ospitante con “papà” o “mamma” mi sembra una forzatura senza senso. Io non vorrei mai avere due mamme! Mi basta quella che ho e credo che non sia paragonabile con nessun altra al mondo…

    Il nostro pesce rosso invece si è suicidato. L’abbiamo trovato una mattina disteso sul pavimento, inerte. Tutte le cure che gli avevamo riservato devono averlo stufato…oppure semplicemente era il fatto che viveva già da tempo dentro una boccia di vetro larga quanto il palmo di una mano e la vastità dell’oceano gli mancava…
    Ehi, ma i pesci non vivono nell’oceano! 😉

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  5. Ciao a tutti!
    Ho fatto l’esperienza che Intercultura e vi assicuro che nessuno obbliga i ragazzi a chiamare “mamma” o “papà” i genitori delle famiglie ospitanti: ad alcuni viene automatico, ad altri (come a me) no. E nessuno mi ha mai rimproverata per averli chiamati sempre e solo col loro nome di battesimo.
    Che lo spot sia patetico…un po’ vi do ragione!
    Ma parlare di lavaggio del cervello e cose simili…mi sembra un po’ assurdo, fuori luogo e…forse più patetico dello spot stesso! 🙂

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  6. @ Silvia

    Ti ringrazio per la tua testimonianza che un po’ mi conforta.
    Che il contenuto del mio post sia anche più patetico dello spot è un tuo giudizio che rispetto. Ma ti faccio notare che proprio nello spot fanno dire al giovane Matteo “ho due papà, due mamme ecc.” quindi se ne deduce che questa sia la “filosofia” di Intercultura, avvalorata anche da testimonianze (non solo quella che ho riportato nel post) da me raccolte direttamente.

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  7. Il pezzo migliore rimane quello del cavallo. Non c’è dubbio la famiglia adottiva aveva già capito da un pezzo quanto fosse cretino Matteo, per questo hanno continuato a prenderlo in giro.

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  8. non posso giudicare lo spot perchè io avendo ospitato lo “vivo” sapendo cosa dice e vi assicuro che l’esperienza vale la pena di provarla…PRIMA partì mio figlio per gli stati uniti, non con intercultura, un’altra associazione (ce ne sono tante) e le spese sono state la metà giusta di quanto citate, lui era motivato a questa esperienza nessuno gliel’ha proposto, è tornato entusiasta, parla perfettamente la lingua e non ha certo sofferto di carenze affettive…(18 anni …sono più fuori casa che in casa) e poi con internet…sapevo più cose di lui quando era via che quando abitavamo insieme, POI decidemmo di ospitare, questa volta con intercultura, nessun lavaggio del cervello, anzi, assoluta libertà di azione e comportamenti, nessun obbligo a chiamarsi mamma e papà ma vi assicuro che il rapporto diventa talmente forte che il bene che gli vuoi è simile ad un figlio proprio…..grande esperienza di vita, sia per chi parte che per chi ospita…certo che accogliere un ragazzo in casa per 10 mesi non è da tutti, bisogna avere, scusate il termine…”le p…e”…lo spot?..boh, per me è talmente vero che il pesciolino rosso non lo sento nemmeno, maura

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  9. @ Maura

    Ho già spiegato, qualche commento fa, che l’esperienza di Intercultura è positiva, sia per chi ospita sia per chi viene ospitato. Non condanno il valore formativo degli scambi, ci mancherebbe. Le mie osservazioni erano rivolte allo spot. Se è vero che non c’è obbligo, a quanto pare, di chiamare “mamma” e “papà” le persone che ospitano i ragazzi, anche se è inevitabile che in così tanto tempo si creino dei legami forti, è anche vero che nello spot avrebbero potuto far dire a Matteo “Che bella esperienza, ho trovato proprio una familgia, mi sono sentito ‘figlio’ e “fratello” e ho sofferto meno per la lontananza dei miei genitori”. Ma far dire al protagonista “Ho due mamme, due papà ecc ” a me pare decisamente eccessivo.

    Grazie per la testimonianza.

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  10. Becco questo post per puro caso.. Ho passato un anno in Cina e continuo a sentire mia mamma e mio papà cinese ogni giorno praticamente. Mia sorella cinese è la cosa più bella che mi sia capitata. Se non lo si vive, non lo si può capire.. Io ho due mamme, due papà, una sorella e tre fratelli :). E li chiamo così, non sono dei perfetti estranei. Sono la mia famiglia e li conosco alla perfezione. Anzi, le lascio il mio blog, così magari può capire di cosa parlo 🙂

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  11. @ Chiara

    Per carità, non metto in dubbio che si creino dei rapporti affettivi speciali. Ma io come madre non avrei piacere che i miei figli dicano di avere due famiglie ecc. ecc.
    Grazie per il blog. Passerò a leggere qualcosa.

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  12. I miei figli hanno vissuto l’ esperienza, hanno avuto per un anno ciascuno due mamme e due papà, turchi e polacchi, più un variegato mondo di fratelli, zii, nonni. io non sono affatto gelosa, mi fa piacere che abbiano questa rete di rapporti, sono andata a trovare le famiglie ospitanti e loro sono stati da noi

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