PER NON DIMENTICARE LA SHOAH: LA STORIA DI MARTA ASCOLI

auschwitz

Il Parlamento italiano, con la Legge n° 211 del 20 luglio 2000, ha aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio GIORNO DELLA MEMORIA in ricordo delle vittime del nazionalsocialismo (nazismo) e del fascismo, dell’Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati. La data è stata scelta perché all’inizio del 1945, proprio il 27 gennaio, le truppe sovietiche dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz liberando i pochi superstiti.

Da quel giorno, proprio grazie alla voce dei sopravvissuti allo spaventoso genocidio voluto da Hitler, furono svelate al mondo le atrocità commesse dai nazisti nei vari campi di concentramento. Anche se Auschwitz è per antonomasia il Campo di Sterminio, furono ben 1.188 i campi realizzati dai tedeschi in cui vennero deportati 13.000.000 di uomini, donne e bambini di ogni Paese d’Europa e di questi 12.000.000 furono sterminati.

Della Shoah si sa ormai davvero tanto, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti e alla letteratura sul tema. Uno dei testi più noti è il romanzo-testimonianza di Primo Levi, Se questo è un uomo. Io, però, oggi vorrei parlare di una “voce della Shoa” meno conosciuta, quella di Marta Ascoli, triestina, deportata ad Auschwitz nella notte tra il 29 e il 30 marzo 1944. Aveva solo 17 anni e da quel giorno la sua vita di studentessa delle magistrali cambiò del tutto e per sempre. Dopo oltre cinquant’anni di silenzio e una lunga maturazione, Marta è riuscita a raccontare la sua esperienza in un piccolo ma toccante libro: Auschwitz è di tutti. Non solo, ha avuto la forza e il coraggio di portare la sua testimonianza in giro per l’Italia, in numerose scuole, perché i ragazzi devono sapere quello che lei, alla loro età, ha vissuto. Soprattutto perché i giovani conoscano la verità e non la dimentichino mai.

Auschwitzditutti

Forse non tutti sanno che la Risiera di San Sabba a Trieste è l’unico esempio di lager nazista in Italia. I nazisti utilizzarono il complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso costruito nel 1913 in un primo tempo solo come campo di prigionia provvisorio, poi come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia). Nella risiera vennero soppresse e bruciate tra le tre e le cinquemila persone -triestini, sloveni, croati, friulani, istriani ed ebrei- ma ben maggiore fu il numero di prigionieri -ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei- smistati verso altri campi di sterminio o di lavoro coatto.
La Risiera fu quasi semidistrutta dai nazisti in fuga, utilizzata poi come campo profughi e nel 1975 fu ristrutturata dall’architetto Romano Boico. Dal 1965 è monumento nazionale e dalla riapertura è meta di pellegrinaggi da ogni parte d’Italia.

Tornando a Marta Ascoli, la sua deportazione fu, come tante altre, del tutto insensata anche perché non è ebrea. Non che la deportazione degli ebrei abbia un senso, ovviamente, ma lei è cattolica, battezzata dalla nascita, sua madre era cattolica e i suoi genitori pure, aveva tre nonni ariani. Tuttavia, dato che il suo è un cognome di città e i cognomi di città hanno di solito origine ebrea, a nessuno interessò questo fatto né alcuno ascoltò la voce della madre che con tutte le sue forze tentò di opporsi alla deportazione della figlia e del marito, dopo che lei fu liberata dal campo triestino. Marta e il padre, invece, dalla Risiera di San Sabba proseguirono il loro viaggio di dolore e morte fino ad Auschwitz. Il padre morì ma Marta, inaspettatamente e miracolosamente, sopravvisse. Eppure il 16 agosto 1944 alla madre arrivò una lettera firmata dall’SS. Oberhauser; poche e lapidarie parole per comunicale che Marta e Giovanni, il marito, erano morti, vittime di un attacco terroristico vicino a Monaco. Il convoglio su cui viaggiavano per essere trasferiti da un lager di transito all’interno della Germania era stato bruciato cosicché risultava difficile riconoscere i corpi carbonizzati. Ma Marta era là, secondo Oberhauser, ed era morta. Suona strana, nel documento, la parola “atto terroristico”, come se la deportazione di milioni di ebrei e anche non ebrei, semplicemente “nemici” del regime o appartenenti a “razze” diverse da quella ariana, non lo fosse.

Marta era ad Auschwitz, anche se la mamma non lo sapeva, ma avrebbe preferito essere morta davvero in quel convoglio bruciato. Eppure era là, privata di tutto, vestita di pochi stracci, sempre gli stessi, in tutte le stagioni, con il caldo e il freddo, senza acqua per lavarsi, senza cibo, senza un nome, solo un numero, e soprattutto senza dignità. Testimone oculare di sevizie di ogni genere, di vite che finivano, di morti invocate. Le malattie si diffondevano velocemente nelle baracche sovraffollate che servivano da ricovero per i deportati, nelle poche ore che venivano concesse al riposo. La denutrizione e l’assoluta mancanza d’igiene facevano il resto: ogni giorno Marta si confrontava con la morte, lei giovane donna di soli diciassette anni che aveva sempre amato la vita e che nei sogni di ragazza aveva spesso immaginato il futuro. Ma quel futuro, che ora per lei rappresentava il presente, era davvero inimmaginabile.

Ogni giorno nel campo avvenivano le selezioni per la camera a gas. Marta ne superò quattro fino all’ottobre 1944. Dell’esperienza che “superava ogni credibilità”, la Ascoli parla in questi termini:

La cosa più assurda era che non sempre si era scelte perché ritenute inabili al lavoro, sistema crudele ma che aveva per i nostri aguzzini una sua logica. Talvolta usavano il sistema di contarci ogni tre, ogni quattro, a caso, e ridendo segnavano il nostro numero sul taccuino, decidendo la nostra fine.

Le giornate nel lager trascorrevano tutte uguali, fra lavoro e punizioni. I lavori erano per lo più assurdi: ad esempio, dovevano stracciare dei tessuti, ricavandone strisce uguali che a gruppi di tre venivano fissate ad un tavolo con un chiodo. Le internate dovevano poi confezionare delle trecce lunghe almeno tredici centimetri, resistenti perché altrimenti i Kapò punivano le malcapitate. Non si sapeva bene a cosa poi servissero quelle trecce di stoffa, ma se il lavoro non veniva svolto bene ne seguiva la giusta punizione. Una di quelle che divertivano maggiormente le SS era chiamata “sport”. Così la descrive Marta:

Nel poco tempo che ci era concesso per mangiare la zuppa, le SS che erano di turno, donne incluse, per ragioni insignificanti e spesso anche senza motivo alcuno sceglievano parecchie persone, obbligandole a correre senza fermarsi avanti e indietro, o a inginocchiarsi a lungo o a portare grosse pietre finché cadevano sfinite. Quando crollavano a terra, e ciò succedeva spesso, i militi intervenivano con bastonate e ridevano tra di loro. Credo che questo si possa definire con una sola parla: sadismo.

Il 31 dicembre 1944 Marta fu trasferita a Bergen-Belsen, lo stesso campo di concentramento in cui morì Anna Frank. Il luogo non era stato pensato come campo di lavoro, quindi i deportati non avevano nulla da fare. Proprio perché gli “ospiti” del lager non prestavano alcun servizio, i Tedeschi ritenevano inutile mantenerli in vita, quindi il cibo era poco e saltuario, tanto che si erano verificati casi di cannibalismo. Marta era allo stremo delle forze e si augurava di morire presto per alleviare le sofferenze. Ma la morte che portava via ogni giorno tante vite, sembrava disinteressarsi a lei ed essere insensibile alle preghiere con cui l’invocava. Fu così che la giovane volle andarle incontro:

Un pensiero mi assillava: morire prima possibile per evitare il prolungarsi di atroci sofferenze.
Io che avevo cercato di resistere fino all’ultimo, ero ormai distrutta. Invocavo la morte che si attardava su di me, invidiavo chi al mio fianco aveva finito di soffrire. Cercavo solo il modo di chiudere al più presto questa indicibile agonia. Mi alzai dal mio giaciglio e scavalcai i corpi dei morti e dei vivi accanto a me; non potevo più sopportare i loro gemiti, la loro agonia e il fetore che c’era nella baracca; io stessa ero nelle loro condizioni e sapevo di essere impotente a portare qualsiasi aiuto
. […] Sorreggendomi a fatica mi inoltrai nella zona boscosa che si trovava ai lati delle baracche e mi avvicinai al filo spinato che circondava tutto il comprensorio. […] Giunta nei pressi della recinzione, un milite che io ritenni molto giovane mi vide e avanzò verso di me. Mi intimò di spostarmi, ma io non mi mossi, lo guardai fisso e lo supplicai di spararmi. A questo punto egli si voltò e senza dire nulla si allontanò nella direzione opposta. […] Il mio tentativo fallì, ma il gesto sta a dimostrare a che punto fosse giunta la mia disperazione, sapendo che mi attendeva una fine atroce assieme agli altri.

Poi, ormai insperata, giunse la liberazione: il 6 luglio 1945 Marta seppe che sarebbe tornata a casa.
Il ritorno a Trieste fu emozionante. La madre, credendola morta, quasi svenne dalla sorpresa e dalla gioia. Ma ritornare a vivere dopo quei lunghi mesi di dolore non fu facile: la famiglia stette vicina a Marta e la curò, ma lei era minata non solo nel fisico, anche nell’animo, cosa che rese difficoltoso il recupero completo. Della sua ripresa la Ascoli racconta:

Dopo le esperienze passate, per molti anni sono stata ossessionata da incubi: il fischio dei treni, il fumo delle ciminiere, il sentir gridare in tedesco ancor oggi mi fa sussultare e tuttora, anche se saltuariamente, faccio sogni attinenti a quel lager infernale. L’esperienza che ho attraversato ha cambiato molto il mio carattere, minando la mia volontà, una volta ferrea, e riuscendo a farmi perdere il mio ottimismo e la fiducia nel prossimo.

Rimane un segno indelebile di quella esperienza: il numero tatuato sul braccio sinistro che Marta non ha mai cercato di nascondere; dice, infatti: ho sempre pensato che la vergogna di averci marchiato doveva ricadere su chi ce l’aveva imposto.

Grazie al contributo di Marta Ascoli e di molte altre persone che più di sessant’anni fa hanno subito la deportazione e l’odio razziale insensato e irrazionale, noi oggi possiamo conoscere quella verità che solo i testimoni diretti possono riferirci.
La signora Ascoli conclude il suo libro, Auschwitz è di tutti, con queste parole:
Auschwitz è patrimonio di tutti.
Nessuno lo dimentichi, nessuno lo contesti.
Auschwitz rimanga luogo di raccoglimento e di monito per le future generazioni
.

Noi celebriamo il Giorno della Memoria, appunto, per non dimenticare. Il ricordo che conserviamo del nostro vissuto nella mente e nel cuore si affianchi a quella memoria civile che non può e non deve essere dimenticata, perché è la memoria di un popolo, quindi la memoria di tutti.

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[POST AGGIORNATO IL 27 GENNAIO 2015]

8 pensieri riguardo “PER NON DIMENTICARE LA SHOAH: LA STORIA DI MARTA ASCOLI

  1. grazie per il tuo commento e per avermi concesso l’opportunità di un contatto; replichero meglio su nulladies, intanto ti faccio un piccolo regalo: LINK

    aloisius

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  2. fa sempre molto dolore leggere queste testimonianze dirette. Ma quello che più mi spaventa è che il genere umano sembri voler al più presto dimenticarsi di tutto questo, forse per essere libero di commettere ulteriori nefandezze. non tutti, per fortuna.
    ciao
    emiliano
    lafinesoltanto.wordpress.com

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  3. Grazie per la segnalazione Marisa, la farò conoscere ai miei studenti e ai miei figli. Io conoscevo Elisa Springer. Ormai pugliese d’adozione, pochi anni prima che morisse (nel 2004), ebbe la forza di donarmi uno dei suoi ultimi incontri pubblici. Ricordo che non sapevamo più dove prendere le sedie, tanti erano i giovani arrivati ad ascoltarla! E ancora più emozionante fu ascoltarla continuare i suoi ricordi (che tra l’altro anche lei ha raccolto in due libri) nel soggiorno di casa mia… sembrava la nonna che racconta ai nipoti le memorie, purtroppo dolorose, per la paura di perderle improvvisamente.
    Tra l’altro, come è successo per tanti (e le sue parole le ritrovo leggendo i pezzi che hai pubblicato del libro della Sig.ra Ascoli) all’inizio lei ha avuto grande difficoltà a raccontare e a raccontarsi. E’ stata spronata dal figlio Silvio, purtroppo mancato prima di lei. Ma in pochi anni ha lasciato un’impronta indelebile, perché nulla andasse perduto, era la sua ultima paura. Ma la sua memoria è viva, e i miei figli la conoscono dalle foto, dai racconti, dal libro che riprendiamo ogni tanto, perché qualsiasi avvenimento diventi memoria nei piccoli, viva e indelebile.
    Ti abbraccio: MRita

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  4. Cara M. Rita,

    il post è vecchio, l’ho messo in evidenza visto che si sta avvicinando il 27 gennaio e che è visualizzato molto in questi giorni.
    Il libro è gradevole e ben scritto. Ho invitato la signora Ascoli nel mio liceo qualche anno fa ma l’esperienza non è stata delle più entusiasmanti. Non so, è stata un po’ scostante, non le andava bene niente (avevo organizzato degli intermezzi musicali, con due miei studenti, allievi del conservatorio, che accompagnavano al pianoforte la lettura di alcuni passi del libro … si è quasi infuriata dicendo che era una cosa senza senso 😦 ), non ha praticamente risposto alle domande degli studenti perché seguiva il filo dei suoi pensieri. Penso che con l’età che avanza, ritorni lo spettro dell’orrore vissuto. Cioè, non lo si può dimenticare mai però dal momento in cui si decide di portare la propria testimonianza, questo solo fatto dà la forza necessaria per superare il dolore, poi è come se si ritornasse indietro. Forse è solo una mia idea e pure alquanto stupida. Credo comunque che i pochi testimoni che ancora sono in vita abbiano il diritto ad essere lasciati in pace.

    Bello da far vedere a scuola (se è reperibile in qualche formato, vhs o dvd) “Gli ultimi giorni” prodotto da Spielberg.

    Un abbraccio e a presto.

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  5. Chi non ha vissuto sulla sua pelle un simile orrore credo non possa neanche lontanamente immaginare l’annientamento fisico e morale che ne è conseguito. Chi lo ha vissuto credo si senta un alieno in questo mondo. Sono posizioni inconciliabili, perchè da un lato è giusto ricordare affinchè tutto questo non si ripeta, dall’altro penso che, a volte, le vittime vorrebbero solo dimenticare…

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