LA FORZA DI UN UOMO E LA LEGGEREZZA DI UNA FARFALLA

scarpe-danza-classicaSono stata invitata al saggio finale di danza da una mia allieva di seconda. Lei, la mia dolcissima allieva, sa che la danza è stata la mia passione da bambina e sa che l’amo tuttora. Chi ama la danza, specie quella classica perché la DANZA è solo quella CLASSICA, tutto il resto è semplicemente BALLO, comprende che è una passione talmente travolgente e unica che, anche a distanza di tempo, non la si può dimenticare. E io devo ringraziare Carla –non è il suo vero nome, ovviamente, ma la chiamerò così in onore della ballerina per antonomasia, la mitica Fracci– per avermi fatto rivivere delle emozioni che, pur rendendomi conto di non aver mai del tutto dimenticato, non sapevo che albergassero ancora in un angolino del mio cuore, in attesa di essere risvegliate.

Fin dal primo momento, fin dal mio ingresso nel teatro, il più grande e bello della città, non ho potuto fare a meno di ripensare ai miei saggi di danza. Me li hanno riportati alla memoria gli sguardi orgogliosi delle madri, i sorrisi fieri dei padri, i delicati bouquet di roselline che sbucavano qua e là dai crocchi di gente che si era fermata nel foyer. Entrare nella platea mi ha catapultato in quel mondo che ormai, per la troppa stanchezza che la sera mi fa stramazzare sul divano alle nove, non frequento più da tempo. Ed è stato bellissimo vedere il sipario calato e immaginare la concitazione delle allieve e degli allievi –pochi, in verità- in procinto di fare il debutto nella serata di gala. È meraviglioso sentirsi protagonisti per una sera, sapere di avere tutti gli occhi puntati addosso, ma è anche tremendamente inquietante perché sai che tutti si aspettano da te una grande esibizione, sai che non puoi sbagliare, che non puoi deludere amici e parenti.

Dalla mia poltrona di prima fila, mentre attendevo l’inizio dello spettacolo, ripensavo alla mia agitazione, a quando dietro le quinte provavo e riprovavo i passi più difficili per l’ultima volta prima di entrare in scena, e mi pareva di non ricordare più nulla, proprio come succede, per l’emozione, prima di un’interrogazione o di un esame. Ti assale l’ansia ma cerchi di dominarla perché sai che non puoi fare brutte figure. Leggere negli occhi delle compagne la stessa paura ti conforta. Poi, una volta alzato il sipario, sai che non puoi scappare, ti devi buttare in mezzo a quel palcoscenico e non pensare ad altro se non al tuo balletto.
Pensando ai miei saggi sono stata spettatrice di quello di Carla e di molte altre. Negli abiti a volte leggeri e ariosi come un palpito di vento, a volte fruscianti come un alito che smuove appena appena le foglie, rivedevo i miei tutù, corti e romantici, e gli abiti di scena. Il primo saggio fu, tutto sommato, una delusione: io associavo alla danza le scarpette di raso con la punta e i lacci che s’intrecciano attorno alle caviglie e, invece, fui costretta a ballare con le anonime “scarpette da salto” –espressione usata comunemente per definire le scarpe senza punta- mentre ad una compagna, la più brava e forse già un po’ esperta, fu permesso di partecipare ad un balletto con le più grandi e di usare le tipiche scarpine con la punta rafforzata. Ho sempre avuto delle difficoltà ad accettare che qualcuno ottenesse qualcosa che, invece, a me era preclusa. Il primo tutù fu, però, quello corto, classicissimo, con il tulle bianco, il mio sogno da sempre. Poi via via che passavano gli anni e diventavo più esperta ho avuto modo non solo di ballare sulle punte ma anche di indossare i tutù romantici, quelli lunghi. Ne avevo uno viola e uno bianco, con cui ho interpretato il valzer viennese di Strauss. Mi ricordo che il tipico chignon era incorniciato da un diadema di strass, al collo avevo una collana di perle di vetro, quelle che se le guardi alla luce scintillano riflettendo tutti i colori dell’arcobaleno –un po’ come capita quando si osserva una bolla di sapone prima che scoppi-, i guanti di raso lunghi e un ventaglio, anch’esso bianco con l’orlo di pizzo e una delicata fantasia di fiori che ravvivava il tessuto, lucido come i guanti.

Guardando i costumi delle ballerine che sfilavano sul palcoscenico davanti a me, ho ripensato anche ai balli interpretati senza il classico tutù. Uno di questi era ambientato in una fattoria, con le musiche di Respighi. Io ero la “prima contadina”. Già, proprio così, niente di eclatante davvero, ma quando ho letto il mio nome sul programma con a fianco esplicitato il ruolo, per me aveva lo stesso significato di “prima ballerina”. Il mio compito, infatti, era quello di dar da mangiare a tutti gli animali, e poco importava se le altre compagne avevano parti più impegnative, io ero e sarei restata per sempre, almeno su quella pagina, la “prima contadina”.

Vedendo le maestre di danza che, da dietro le quinte, si affannavano per ricordare le coreografie alle ballerine meno esperte, non potevo non pensare alla mia insegnante. Paragonata a lei, Crudelia Demon era una specie di fata turchina. Si chiamava Cornelia e per l’assonanza dei nomi il confronto con Crudelia vien da sé. Lei era non dico cattiva, semplicemente spietata. Non ammetteva errori, non giustificava ritardi o malesseri e credo che ce l’avesse con me perché fisicamente non assomigliavo per nulla a una ballerina, almeno non all’inizio. Un po’ in carne –ma mio fratello, simpaticone, vedendomi in tutù la prima volta, rincarò la dose paragonandomi alle elefantesse interpreti della “Danza delle ore” in Fantasia di Disney- certamente non abile nella spaccata o nel gran jeté, alla sbarra avevo delle difficoltà a tener diritta la schiena … insomma, non ho mai negato i miei difetti, sia fisici sia tecnici, ma essendo una che s’impegna in tutto ciò che fa, avrei voluto almeno una gratificazione per quello. Senza contare che, finiti i corsi, continuavo ad allenarmi per buona parte dell’estate nella camera da letto dei miei, per fortuna molto spaziosa e con lo stesso parquet della palestra, creando anche delle coreografie originali. Non credo che l’inquilino del piano di sotto fosse particolarmente felice, ma io non potevo rimanere un’intera estate senza la danza.

Uno dei balli che ricordo con maggiore affetto fu la danza ungherese. Non solo l’affetto mi lega a quel ballo, ma anche un episodio, per dir la verità, alquanto comico. Avevo un abito splendido, in velluto giallo e verde, con la tipica corona guarnita con dei nastri che cadevano ai lati del viso, gonna ampia con sei strati di tulle che la facevano rimanere gonfia e stivali rossi. Mentre il vestito l’avevamo dovuto comperare, gli stivali ci furono noleggiati dal teatro. I miei, invece di essere del mio numero, cioè 38, erano 40. Alle mie proteste, Crudelia Demon rispose che potevo metterci un po’ di cotone in punta. Detto fatto. Peccato che alle prime prove, per fortuna eseguite in palestra –dovevamo abituarci a ballare con gli stivali, quindi cominciammo subito ad indossarli- al primo slancio in aria della gamba destra, lo stivale è partito a razzo, attraversando la palestra in diagonale e arrivando pure a sfiorare la terribile Cornelia. In quel momento avrei voluto colpirla in pieno ma ottenni ugualmente soddisfazione: il giorno dopo arrivarono dal teatro i “miei” stivali numero 38.

La cosa che, al saggio di Carla, ho potuto vedere con maggior piacere, a parte ovviamente le splendide coreografie, è stato il gran numero di ballerine formose, per intenderci non quelle filiformi sul modello di Oriella Dorella. Ciò significa che, almeno dalla scuola di danza frequentata dalla mia allieva, lo spettro dell’anoressia è tenuto sufficientemente lontano. Mi viene in mente uno sketch recitato almeno trent’anni fa da Tullio Solenghi, non ricordo in quale trasmissione. Nelle vesti di un’improbabile ballerina, si presentò in scena come Galina Padovanska, parodia di una delle ballerine russe del Bolscioi che, come si sa, sono tra le più brave al mondo. Nella scenetta ricordo che Solenghi, presentando il personaggio con il tipico accento sovietico, disse che “le ballerine devono avere poco di seno, poco di sedere e devono fare poco amore … ma con poco di seno e poco di sedere questo non è affatto difficile”. Sorrido a ripensare allo sketch, anche se mi rendo conto che leggere la battuta scritta non è come vedere Solenghi conciato al modo che io ricordo. In effetti, una ballerina esile è più sciolta, può essere sollevata facilmente dal partner che non si trova “impacci” che, in altre situazioni, sarebbero assai graditi, ma sicuramente no quando si deve fare una presa. Certo è che al saggio ho visto qualche allieva grandina con una seno prosperoso e un sederotto alquanto sporgente che se mi ha consolata un po’, ricordando i miei tempi, mi ha portata ad osservare, forse per la prima volta con reale obiettività, che il fisico in una ballerina è fondamentale. Quindi, comprendo perfettamente tutte le critiche che Alessandra Celentano fa alle allieve di “Amici”, comprese quelle relative al “collo del piede” e devo ammettere che sul palcoscenico l’altra sera di piedi come li vuole la Celentano ne ho visti assai pochi.

Quando è entrata in scena Carla, l’ho riconosciuta subito, per quelle sue fossette che le si disegnano sulle guance ogni volta che sorride. Osservando il suo sorriso, sono stata travolta da altri ricordi. Una ballerina brava deve sorridere sempre. Non importa se si fa una fatica bestiale a stare sulle punte e se i piedi ti fanno malissimo, anche a causa delle vesciche che vengono più spesso di quanto si possa pensare. Il sudore che imperla la fronte e che rischia di scendere fino alla bocca facendoti assaporare l’inconfondibile gusto salato, che ricorda l’acqua del mare, non può far sparire il sorriso dalle labbra di una brava ballerina. Io so quanto è difficile mantenerlo quel sorriso, quando la fatica ti schiaccia e la concentrazione sui passi si distoglie dalla tua bocca. Per questo ho ammirato Carla, con quel suo dolce sorriso sempre immutato; l’ho apprezzata ancor di più quando mi sono resa conto che non tutte riuscivano a mantenerlo così lungo.

La danza è rigore, disciplina, sacrificio. La mamma della mia allieva, anche lei ex ballerina nonché ex allieva della mia stessa maestra crudele, ha definito le qualità che per danzare una ragazza deve avere con un’espressione che mi è rimasta nel cuore: la forza di un uomo e la leggerezza di una farfalla.
Io credo di aver avuto davvero la “forza di un uomo”, forse un po’ meno la “leggerezza di una farfalla”; ad ogni modo la mia era davvero una grande passione Eppure il mio sogno, il mio amore di bambina e di ragazza ad un certo punto è finito. Ricordo ancora quel pomeriggio: dopo aver passato due ore a percorrere su e giù la palestra in diagonale senza quasi mai scendere dalle punte, arrivai nello spogliatoio con i piedi doloranti, un dolore così intenso che non dimenticherò mai. Tolte le scarpine, mi sono ritrovata la calzamaglia completamente insanguinata; aveva cambiato il colore, da rosa a rosso. Forse le scarpette nuove o la fatica eccessiva dell’allenamento disumano cui Crudelia-Cornelia mi aveva obbligata, aveva causato le vesciche; queste poi erano scoppiate ma io avevo continuato a danzare sulle punte e la carne viva aveva cominciato a sanguinare copiosamente. A quel punto io quel sorriso che, mentre ballavo, avevo imparato a tenere immutabilmente stampato in faccia, l’ho perduto. Insieme alla fatica, al sangue e al sorriso se n’è andato via quel grande amore, la mia passione di sempre. Ho, come si dice, appeso al chiodo le scarpette e con la danza ho chiuso definitivamente. Ho continuato a ballare, questo sì, ma non a danzare. Mai più indossati i tutù e gli abiti di scena se non a Carnevale.

Per non ammettere la mia sconfitta, ho giustificato l’abbandono con la scusa di essere diventata grande, vesciche a parte, ovviamente. La danza classica, allora, era praticata per lo più dalle bambine e dalle ragazzine. Io ero cresciuta e il mio cuore mi stava portando altrove.
Quando, per l’ultima volta, ho sceso le scale e varcato il portone d’ingresso della scuola di danza, ho ripreso a sorridere. Un sorriso che, questa volta, era destinato non al pubblico che dalla platea, dai palchi o dalle gallerie del teatro assisteva al mio spettacolo, ma al ragazzo per cui avevo preso una cotta e che mi aspettava là sotto. Lui mi ha preso per mano e mi ha portato via dal sogno. Non gli ho mai detto il vero motivo per cui avevo smesso di sognare. Forse non lo sapevo nemmeno io.

11 pensieri riguardo “LA FORZA DI UN UOMO E LA LEGGEREZZA DI UNA FARFALLA

  1. Pezzo delizioso, Marisa.

    Ancor più dopo aver visto, Sabato scorso, il saggio di danza della mia nipotina, Elena, di sei anni.

    E’ finito a mezzanotte. Lei di solito va a nanna alle 20,30 e aveva gli occhietti pieni di sonno. Ma sorrideva ancora.

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  2. Grazie. frz. Credo che per le bambine la danza sia la cosa più bella al mondo, il sogno più grande. Sono felice di constatare che le nuove generazioni provino ancora quello che ho provato io tanti anni fa.
    Io mi arrabbio quando a casa mi prendono in giro dicendo che non sono una sportiva. E’ vero che non ho fatto nuoto, né pallacanestro (però un po’ di pallavolo l’ho fatta al liceo e con la squadra sono arrivata prima al campionato interno), ma la danza ti insegna la disciplina e il rigore come qualsiasi altro sport, e forse di più. E anche se non è uno sport di squadra, un balletto è costituito da tante parti di un insieme che devono funzionare altrimenti la coreografia diventa una schifezza. Ma i maschi, si sa, prendono sempre in giro le “ballerine” … almeno finché non diventano NONNI!
    Anch’io fuori dal teatro l’altra sera ho visto tante bimbe semiaddormentate e sfinite dalla stanchezza, ma so che della loro “serata di gala” conserveranno un ricordo permanente.

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  3. Grazie, sono capitata per caso in questa pagina che ha saputo parlare al mio cuore. Mi sono rivista in ogni singola, minuziosa e precisa descrizione (e suonerà strano, anche quella della maestra!) e anche io ho risentito quelle emozioni del teatro, del tulle, il fruscio dei costumi.. e il sorriso..

    La danza mi ha dato molto e l’unica cosa che rimpiango è di averla interrotta per un aumentato impegno scolastico.. che errore!! In ogni storia deve esserci purtroppo la parola fine e alla fine quello che conta è guardarsi indietro e accorgersi quanto quell’esperienza ti ha dato e quanto faccia parte di te..

    Grazie.

    PS Io ho consumato un tappeto persiano a mia madre danzando.. spero che me lo perdoni

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  4. @ Giorgia

    Che bello suscitare emozioni in persone sconosciute che hanno condiviso le stesse meravigliose esperienze!

    Grazie a te. 🙂

    P.S. Le maestre di danza sono tutte …. perfide, in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo! Ma sono anche un grande esempio di sacrificio, dedizione, disciplina, intransigenza … insomma, aiutano a crescere.

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  5. Che emozioni che mi hai fatto provare! Sono le stesse emozioni che proviamo tutte noi che abbiamo amato la danza e abbiamo dovuto smettere.
    La mia insegnante non era crudele; pretendeva tanto, ma era molto carina. Poi io ero la più piccola del corso, stavo insieme a gente che aveva quasi 10 anni più di me, quindi diciamo che ero un po’ coccolata da tutti.
    Ho studiato danza per quasi 12 anni e quello è stato il periodo più bello della mia vita. Il dolore di cui parli, quando danzavo, non lo sentivo, perchè me ne andavo su un altro pianeta mentre volteggiavo. Venivo completamente assorbita dalla musica e dalle mie sensazioni.
    A dire il vero non ero particolarmente leggiadra, perchè non ho mai avuto il fisico di una ballerina (sono alta 1,80 m e ho le mie forme), ma non è per quello che ho smesso. La mia insegnante s’è trasferita in un’altra città e poi ero in un periodo in cui una ragazzina cresce, cambiano tante cose anche a livello fisico, e non sono riuscita a conciliare questi cambiamenti con quello che la danza richiedeva, nonostante fosse e sia ancora la mia più grande passione. Figurati che andavo là ogni giorno, per 6 ore, compreso il sabato e spesso anche la domenica. Mi prendeva completamente.
    Il risultato è che adesso sogno spesso di essere in sala con i miei compagni, e la maggior parte delle volte qualcosa non va, sono impacciata, non riesco a seguire i passi, dimentico le coreografie; insomma, provo un senso di inadeguatezza. A te, dopo aver smesso, è mai capitato di fare sogni del genere?

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  6. @ Valentina

    Be’, io non ho mai fatto né sogni né incubi sulla danza … avrei tanto voluto, però, sognare di strangolare la mia maestra Crudelia. 🙂

    Io ho smesso che ero ragazzina e non ho mai fatto dei tour de force come i tuoi (sei ore al giorno , sabato e domenica compresi! no, no, non è il mio caso anche se, come ho scritto nel post, amavo creare delle coreografie in casa). Ma la danza ti entra comunque nel sangue, è un’esperienza indimenticabile e ti lascia dei ricordi indelebili. Solo chi l’ha provata può capire.

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  7. Ciao Marisa, intanto da qui ricambio il tuo abbraccio nel post precedente.
    Bella riflessione.
    Sì ci sono sport che coniugando anche altri mondi, come in questo caso quello della musica, non solo formano chi li sceglie… ma aiutano tanti ragazzini o ragazzine che altrimenti sarebbero ‘persi’. Ho lavorato per tanto tempo con ragazzi definiamoli ‘difficili’ e la danza, lo sport, la musica, l’arte, erano le ancore di salvezza per tanti che altrimenti sarebbero rimasti fuori dai giochi. E c’è chi per fortuna è cambiato.
    Ben vengano ancora questi ambienti sani (che però sani lo devono essere per davvero!), dove il sacrificio e il senso di responsabilità abilitano ad un’esistenza diversa.
    Pensavo alla tua esperienza, e quanto ti sia rimasta nel cuore. Mi facevi pensare a me da piccola. Io invece ho fatto l’esperienza della ritmica, singolo e squadra, cominciata a scuola. Anche lì c’è rigore, fermezza, a volte anche ossessione. Ho lasciato (lasciato?) perchè troppo mingherlina per reggerne i ritmi, alla fine di ogni allenamento poco ci mancava per ossigeno e flebo, per non parlare degli incidenti per disattenzione quando si tirava troppo la corda e mi sfinivo!!! Non amavo le lunghe tirate di allenamenti, sempre uguali, sempre gli stessi, anzi nelle pause mi imboscavo spesso con qualche libro perchè ne sono stata da sempre divoratrice. Così… addio. Ma come dici mi è rimasta nel cuore, quel mondo è servito per apprezzare tante cose ma soprattutto mi è servito a valorizzare in seguito il ‘lavoro di squadra’!
    Ciao: Maria Rita

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  8. Ciao Marisa, come “parli “bene , entri nei cuori in punta di scarpette e
    ci lasci sognare. Non ho mai indossato un tutù, anche se con tutta
    onestà alla danza preferivo il ballo. Poi crescendo sono stata
    rapita da bellissime Farfalle col nome Fracci, Ferri e la stessa Anbeta
    che per me è bravissima.
    Grazie davvero
    Un bacione
    Mistral

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  9. @ Maria Rita

    Lo sport, qualsiasi esso sia, fa bene al corpo ma soprattutto allo spirito. Quello che si pratica in giovane età ha anche un grande valore formativo. Non bisognerebbe mai rinunciarvi. Però se i ritmi sono troppo pressanti allora diventa quasi un “lavoro” ed il piacere diminuisce sempre più. Allora , anche se il cuore vorrebbe dire di non smettere, la testa suggerisce il contrario. Sono esperienze che comunque lasciano tracce indelebili dentro di noi.

    Grazie per essere ripassata. A presto.

    @ Mistral

    Grazie a te. Ricambio il bacione.

    P.S. Anche per me Anbeta è bravissima, peccato sia un po’ troppo … glaciale.

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