Negli ultimi anni il celebre attore – regista – comico, con il suo stile da giullare medievale, perfettamente calato nel ruolo a lui più confacente, si è dedicato anima e corpo alle Lecturae Dantis. I suoi spettacoli, sia dal vivo sia televisivi, hanno spopolato. Si è scatenata una sorta di Dantemania, e dire che la Commedia (l’epiteto Divina è stato affibbiato all’opera dantesca solo nel Cinquecento) non è stata e non è certo una delle letture preferite dagli Italiani, specie se considerata alla stregua di materia di studio al liceo. Eh sì , perché quando la si deve studiare, tutta questa bellezza nell’opera sublime del Vate Dante proprio non si riesce a coglierla!
Ricordo che al liceo rimanevo estasiata di fronte alla lettura e al commento che ne faceva il mio professore. Una delle poche, aggiungerei, perché gli altri facevano un po’ i fatti loro. Però qualche cultore del divino poema già allora c’era tra i banchi: un compagno, infatti, aveva riscritto alcune parti della Commedia, credo il solo Inferno, calandoci tutti nelle vesti di dannati. Una rielaborazione davvero originale che, con il senno di poi, mi pento di non aver saputo apprezzare. Sono pentita anche di non aver avuto la costanza di stare a sentire quell’emulo del sommo Vate mentre declamava il Dante a modo suo. Non avevo nemmeno saputo cogliere, allora, l’indiscutibile talento artistico di quel compagno che stava inseguendo un sogno che è riuscito a concretizzare: ora fa l’attore.
Ma veniamo a Benigni. Da oggi l’Espresso e Repubblica ripropongono i DVD con le letture benigniane, risalenti agli spettacoli che il comico toscano ha tenuto nelle piazze italiane dal novembre 2006 al settembre 2007. Ci scommetto che sarà un successo. Che ci sarà mai di male? In effetti, nulla. Benigni non è il primo a commentare Dante in pubblico.
Se escludiamo i commenti scritti e, quindi, destinati ad un pubblico ristretto, visto che i manoscritti erano costosissimi e la maggior parte della gente era analfabeta, il primo lettore di Dante fu Boccaccio, grande estimatore del Vate: commentò Dante in pubblico, ma si fermò al XVII canto dell’Inferno perché accusato di sprecare energie per il pubblico indegno e incapace di cogliere la complessità del messaggio dantesco. Effettivamente, anche se l’età comunale è più democratica rispetto a quella feudale, secondo gli intellettuali la cultura doveva essere comunque indirizzata ad un pubblico aristocratico, che non conosceva più il latino ma che possedeva una cultura non strettamente popolare. Boccaccio si pentì dell’opera di divulgazione del poema, soprattutto per non dispiacere a Petrarca, altro poeta per cui provava una sconfinata ammirazione, ma successivamente si pentì di essersi pentito e restituì all’opera dantesca il prestigio che meritava.
Ma la Commedia era conosciuta e divulgata, almeno l’Inferno, quando Dante era ancor vivo. Il Sacchetti, nelle sue Trecentonovelle, racconta infatti che, mentre passeggiava a Firenze, il poeta sentì un fabbro che recitava i suoi versi “smozzicando e appiccando“, cioè citandoli in modo non fedele, togliendo delle parole o aggiungendone altre a suo piacimento. Allora preso dall’ira — peccato da cui non si ritenne immune, accanto a quello della gola e della superbia — il Dante di Sacchetti si avventò sugli strumenti del fabbro e li buttò all’aria. Alle proteste dell’artigiano, Dante rispose: Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie. Il fabbro, che non comprese il senso, chiese: O che vi guast’io?, al che il poeta replicò:Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti.”. L’uomo, non sapendo come ribattere, tornò al suo lavoro; e se volle cantare di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante.
Analogo è il trattamento, in un’altra novella sacchettiana di argomento dantesco, che il Dante personaggio riserva a un asinaio il quale recita i versi inframmezzandoli con un “arri“, cioè col grido usato per stimolare l’asino a camminare. Nel testo si legge che il poeta, sdegnato, apostrofò l’asinaio in tal modo: Cotesto arri non vi mis’io. E mentre probabilmente ci aspetteremmo che l’Alighieri lo malmenasse, preferì, invece, maltrattarlo a parole e gli disse: Io non ti darei una delle mie per cento delle tue. Ciò dimostra come Dante fosse pungente, non solo nelle invettive, specie contro la “sua” Firenze, contenute nel poema, ma anche nella vita di tutti i giorni.
Del resto, altri aneddoti testimoniano il suo spirito. Si narra, infatti, che nel 1311 il poeta si recò a Porciano per convincere i Conti Guidi, che da sempre osteggiavano i guelfi Fiorentini, ad appoggiare l’appena incoronato Imperatore Arrigo VII e convincerlo a schierarsi apertamente dalla parte ghibellina. Le cose non andarono a buon fine, i Conti Guidi non mantennero le promesse di fedeltà fatte all’Imperatore e il poeta immortalò il suo disprezzo per i traditori nel XIV canto del Purgatorio. Questo causò la vendetta dei Guidi che imprigionarono l’Alighieri proprio in una delle stanze di Porciano. Il poeta, tuttavia, riuscì a liberarsi dalla prigionia e, mentre scappava dal castello, incrociò un messo inviato dai fiorentini per condurre prigioniero Dante Alighieri a Firenze. Il messo, non conoscendolo, gli chiese se al castello di Porciano ci fosse un certo Dante. Al che, il poeta serafico rispose: Quando io v’era, ei v’era!
Insomma, uno spirito che ben si sposa, se vogliamo, con quello di Benigni. Ma la lettura che il comico fa della Commedia si può paragonare ai versi declamati dal fabbro e dall’asinaio: sono sicura che a Dante non piacerebbe. Un merito, però, glielo concedo: l’aver accostato il grande pubblico ad un’opera che altrimenti nessuno leggerebbe. Quella di Benigni, tuttavia, è assai riduttiva: riguarda solo alcuni canti dell’Inferno e uno solo del Paradiso, il XXXIII, che conclude l’opera. Anche nella scelta dei canti si ravvisa un unico scopo: rendere partecipi gli spettatori di quelli che sono i fatti più vicini al gossip dell’epoca. Passano i secoli ma i gusti del pubblico sono rimasti immutati. Meglio trascorrere un po’ di tempo in allegria, lontani dalle letture impegnative e noiose. Sentir parlare di Paolo e Francesca, ovvero di due amanti, è interessante e leggero quanto poteva esserlo per i contemporanei di Dante che così venivano messi al corrente dei fatti “piccanti” che succedevano nelle corti. Un po’ come leggere ai nostri giorni riviste come DiPiù o Chi .
Ma Dante era consapevole del successo che i suoi versi riscuotevano? Certo, e le novelle del Sacchetti lo testimoniano. Tuttavia, se facciamo una distinzione tra il pubblico ideale – quello che ogni autore ha in mente mentre scrive – e quello reale, le differenze ci sono, eccome.
All’inizio del II canto del Paradiso, infatti, l’autore avverte: “ Voi che, desiderosi d’ascoltare, con la vostra piccola barca avete seguito la mia nave (legno) che varca il mare con il suo verso, tornate alle vostre spiagge e non avanzate in mare aperto perché se perderete di vista la mia guida, vi smarrirete. Io sto percorrendo un mare sconosciuto.”. Insomma, l’argomento si fa difficile, dal gossip passa al “pan de gli angeli”. Sono pochi, dunque, i lettori in grado di seguire la scia della sua nave; sono quei lettori che “si nutrono del pan de li angeli”, cioè la sapienza divina che gli uomini non sono in grado di vedere perché fatti di anima e corpo. La sapienza divina si apprende attraverso lo studio delle scienze sacre, cioè la teologia; chi si è dedicato allo studio della teologia e si è nutrito del “pan de li angeli” non si sazia mai. (cfr. Paradiso, II, vv. 1 – 18).
Ecco spiegato il motivo per cui Benigni quasi esclusivamente si dedica al commento dell’Inferno. Il Pan de gli angeli non è quello che sta sulla mensa di tutti, non è nemmeno il panettone che si mangia a Natale. Allora concediamogli pure di leggere Dante a modo suo, se questa scelta collima con le richieste del pubblico. Ma per favore, non esaltiamolo più di tanto: non un “Benigni da Nobel”, come ho letto in una pagina web, piuttosto quel “fenomeno da baraccone, che ha stravolto Dante invece di interpretarlo”, come ha detto il regista Zeffirelli in un’intervista pubblicata sul Corriere (15 febbraio 2008). E l’ha stravolto sì, visto che attualizza il messaggio dantesco escogitando pene riservate ai vip del nostro tempo, in particolare i vari ministri, possibilmente di questo governo. Nell’intervista comparsa la scorsa settimana sull’Espresso Benigni dice che all’Inferno ci metterebbe non poche persone. Sicuramente gli ‘intercettati’ e i ‘corrotti’, gli ‘ignavi’ e i ‘bigotti’ e anche Silvio Berlusconi per il quale, dice, andrebbe creato un “girone ad personam“. Difficile scegliere, infatti, per il premier il luogo più adatto: il comico toscano potrebbe “fargli fare il giro di tutti i gironi: dei lussuriosi, dei barattieri, dei simoniaci, dei bugiardoni, dei bischeroni. Sta bene dappertutto. un protagonista”. Beh, un tantino d’invidia, però, tra le righe si legge. Un po’ come Dante che godeva nel calare nei luoghi più ignobili dell’imbuto infernale tutti quelli che non gli garbavano e che, in vita, se l’erano presa con lui o erano appartenuti alla fazione opposta.
Infine, sulla scia di Dante, faccio anch’io un appello ai miei lettori: se volete acquistare i DVD (che poi vengono a costare anche un bel po’ di soldi!), fatelo pure. Ma io vi consiglio di prendervi una buona edizione della Commedia – quelle scolastiche sono fatte benissimo, chiedetelo ai vostri figli – e leggere un canto al giorno, così senza impegno, magari alla sera prima di addormentarvi … sperando che qualche mostro infernale non venga a farvi visita la notte nei vostri sogni. Credetemi: vedere Benigni che salta, urla, si rotola per terra declamando i versi del sommo poeta può nuocere maggiormente ad un buon sonno.